Proporzionalità e gradualità della sanzione limiti invalicabili del potere disciplinare della PA
La massima
Pubblico impiego
– Reato commesso da militare in servizio – Sentenza penale non passata
in giudicato – Irrilevanza ai fini disciplinari – Valutazione
disciplinare del fatto – È autonoma – Rilevanza del disvalore morale
della condotta per il decoro del Corpo – Sussiste – Sanzione
disciplinare – Sindacabilità in sede giurisdizionale – Limiti
In materia disciplinare la PA ha il dovere di valutare la gravità
dei fatti ascritti al dipendente anche qualora siano stati accertati in
sede penale con sentenza non passata in giudicato, essendo i due
procedimenti autonomi. Né è vincolata alla qualificazione del fatto da
parte del giudice penale, potendo attribuire particolare disvalore e
lesività alla condotta del funzionario, anche tenuto conto della sua
qualifica. Nondimeno la sanzione disciplinare comminata deve rispondere
ai principi di proporzionalità e gradualità che costituiranno, al
contempo, i parametri e il limite di sindacabilità del legittimo uso
del potere da parte del giudice, cui è precluso ogni apprezzamento in
ordine al merito della valutazione compiuta dall’amministrazione.
Il fatto
Il caso scrutinato dal Tribunale amministrativo piemontese riguarda
la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione inflitta
ad un vice brigadiere della Guardia di Finanza, per aver utilizzato il
telefono di servizio allo scopo di effettuare chiamate a pagamento, a
sfondo erotico, e la cui illegittimità era stata censurata dal militare
sotto il profilo dell’eccesso di potere, sub specie di violazione del
principio di gradualità e di ingiustizia manifesta, atteso che per lo
stesso fatto egli era sì stato effettivamente condannato dalla Corte
d’appello militare, ma con derubricazione dell’originaria imputazione
da peculato ad appropriazione indebita, con sentenza peraltro non
ancora passata in giudicato.
La pronuncia del foro torinese
Il Tribunale amministrativo, malgrado avesse in sede cautelare
accolto le doglianze del militare tanto da concedergli l’invocata
sospensiva, con la decisione in epigrafe ne ha poi rigettato il ricorso
nel merito, rivedendo il suo orientamento anche in ossequio ai diversi
principi espressi sul caso dal Consiglio di Stato, che, adito in sede
d’appello dal ministero, ne aveva annullato l’ordinanza cautelare,
confermando prima facie la legittimità del provvedimento sanzionatorio
gravato.
In particolare, il Collegio torinese ha optato per la
conformità a legge della sanzione impugnata, ritenendo che rispondesse
al principio di proporzionalità, declinato nella sedes materiae in
quello del gradualismo sanzionatorio, secondo un’indagine ab externo e
da condursi sulla scorta della motivazione del provvedimento, essendo
questa l’unica consentita al giudice amministrativo, al quale è fatto
divieto di sostituirsi alla pubblica amministrazione sindacandone le
scelte discrezionali, altrimenti violandosi il principio di legalità e
di separazione dei poteri.
Criterio guida, quello della
proporzionalità della sanzione che, nel caso specifico, secondo il
tribunale, è stato osservato dall’amministrazione avuto riguardo al
comportamento tenuto dal militare in violazione, per un verso, del
giuramento di fedele osservanza delle leggi dello Stato, tra le quali è
annoverato in primo luogo il codice penale, cui è riconducibile
l’indebito uso per scopi personali del telefono di servizio e, per
altro verso, del decoro e del prestigio del Corpo militare di
appartenenza, stante la natura delle comunicazioni effettuate.
Né,
secondo i giudici, costituisce fondato motivo di ricorso la pendenza
per i medesimi fatti ascrittigli in sede disciplinare di un processo
penale, non ancora concluso con sentenza passata in giudicato, stante
il principio di separazione cui i due procedimenti sono improntati,
secondo consolidata giurisprudenza.
Di tal ché la pubblica
amministrazione ha il potere-dovere di accertare ed apprezzare
autonomamente la rilevanza disciplinare della condotta tenuta da un suo
funzionario, valutandone il disvalore alla stregua delle leggi e dei
codici di comportamento applicabili a secondo della categoria di
appartenenza, potendo, per questa via, pervenire anche a conclusioni
diverse da quelle del giudice penale.
Le questioni rilevanti
Mentre nel diritto del lavoro privato e privatizzato, ai sensi
dell’art. 2, co. 2, del Dlgs n. 165/2001, il procedimento disciplinare
attiene alle infrazioni commesse dal lavoratore nell’ambito di ben
determinati codici di comportamento, nel diritto del lavoro pubblico,
soprattutto se speciale, quale quello dei Corpi militari, presenta
contorni ben più ampi e indefiniti, venendo in rilievo ogni qual volta
il funzionario violi non solo i precetti di legge, di regolamento o di
direttive e di ordini che disciplinano il rapporto di servizio, bensì
pure quando infranga le più penetranti regole deontologiche di gruppo,
che, nel caso delle Forze armate, si spingono fino a costituire “regole
di vita, che trascendono lo stesso status di militare e dovrebbero
caratterizzare gli stessi rapporti politici, civili e sociali” .
L’ordinamento disciplinare dei Corpi militari, infatti, esaltando
l’orgoglio di appartenenza non solo alle Forze armate, ma all’intera
Nazione, tende a valorizzarne lo spirito, dando pregnante rilevanza a
quei profili morali ed etici della condotta tenuta dal militare, nella
vita pubblica, come in quella privata , ormai recessivi negli altri
settori di impiego, anche se alle dipendenze delle PA.
Circostanza
dimostrata anche dall’abolizione nei bandi di concorso dei requisiti
della specchiata condotta e dell’idoneità morale previsti dall’art. 2
del Dpr 10 gennaio 1957, n. 3, poi abrogati dalla legge 29 ottobre
1984, n. 732, e indi ripristinati dall’art. 35, co. 6, del Dlgs n.
165/2001, benché solo per talune categorie di pubblici dipendenti, tra
cui i militari per i quali si richiedono le citate qualità ex art. 26
della legge 1° febbraio 1989, n. 53.
Precetti comportamentali,
questi, di rilievo disciplinare e che, per quanto riguarda la Guardia
di Finanza, si ricavano dalla legge 3 agosto 1961, n. 833, Titolo II,
Capo VI, in combinato disposto col Dpr 18 luglio 1986, n. 545, recante
al Titolo III i doveri dei militari.
Nondimeno, proprio
l’evanescenza dei precetti in questione, unitamente all’ampia
discrezionalità riconosciuta al Corpo nell’apprezzamento del disvalore
del comportamento e della sanzione da applicare, hanno indotto la
giurisprudenza amministrativa ad elaborare un reticolato di principi
atti ad irreggimentarne il potere, trovando nel tempo il difficile
punto di equilibrio tra l’esigenza di salvaguardare le prerogative
dello Stato nella conservazione della credibilità del suo principale
apparato, anche attraverso le sanzioni disciplinari, e l’esigenza di
tutelare il personale militare in caso di un debordante esercizio di
tale supremazia speciale.
Tra questi, oltre a quelli di
immediatezza della contestazione, di tempestività dell’azione
disciplinare e di difesa , che attengono più che altro al procedimento,
ruolo preminente deve riconoscersi al principio di proporzionalità, la
cui derivazione comunitaria ha indotto il Consiglio di Stato ad
assumere a riferimento la giurisprudenza della Corte di giustizia
europea al fine di delinearne la portata applicativa, onde evitare che
per suo tramite il giudice sia tentato di introdurre surrettiziamente
una smisurata, quanto innominata, ipotesi di giurisdizione di merito,
che, viceversa, è ontologicamente tipica ed eccezionale, perché deroga
al principio di separazione dei poteri cui è ispirato il nostro
ordinamento.
A tal proposito, la Cge ha da sempre rilevato che il
riscontro di proporzionalità riguarda solo “il carattere manifestamente
inidoneo di un provvedimento in relazione allo scopo che l’istituzione
competente intende perseguire”, dovendo escludersi che il sindacato
giurisdizionale possa “spingersi ad un punto tale da sostituire
l’apprezzamento dell’organo competente con quello del giudice,
valutando l’opportunità del provvedimento adottato ovvero individuando
direttamente le misure ritenute idonee”.
Dunque, per questa via,
analogamente, premessa la valenza costituzionale del principio de quo
ai sensi dell’art. 97 della Carta fondamentale, i giudici di Palazzo
Spada hanno ritenuto che, pur sussistendo il generale obbligo dei
pubblici poteri (legislativo ed esecutivo) di adottare le soluzioni più
idonee ed adeguate al perseguimento dell’interesse generale cui sono
preposti, col limite del minor sacrificio possibile per le posizioni
soggettive coinvolte, nondimeno al giudice, in sede di verifica della
legittimità dell’operato, non è dato sindacare il merito delle scelte
discrezionali, siano esse di natura tecnica, amministrativa o politica,
non potendo sostituirsi al titolare del potere, bensì dovendo attenersi
ad una valutazione ab externo del provvedimento assunto, coi limiti
dell’abnormità ed irragionevolezza.
Aberrazioni da escludersi quante
volte la sanzione irrogata sia sorretta da adeguata motivazione e
basata su fatti manifestamente gravi, tali da poter indurre
ragionevolmente l’amministrazione a ritenerli lesivi del decoro del
Corpo , ovvero oggettivamente contrari alle finalità cui è
istituzionalmente preposto.
Né impinge la validità delle suesposte
conclusioni l’apprezzamento del disvalore della medesima condotta già
operato dal giudice penale, stante il radicato principio della
separazione tra i due procedimenti, che reca in sé il potere della PA
di attribuire diversa rilevanza disciplinare ai fatti, diverso essendo
il bene-interesse che i due apparati normativi mirano a tutelare.
Difatti,
anche dopo l’entrata in vigore della legge 27 marzo 2001, n. 97, che,
innovando le disposizioni penali, sostanziali e processuali, ha
ricondotto ad unità i due sistemi sanzionatori, sancendo l’efficacia
nel procedimento disciplinare degli accertamenti in punto di fatto
raggiunti in sede penale, la PA non ha del tutto perso il potere-dovere
di valutare discrezionalmente la medesima condotta laddove, al
contempo, violi le regole di comportamento proprie del suo ordinamento
interno.
Conclusioni
In buona sostanza, dunque, il principio di proporzionalità e, per
esso, della gradualità della sanzione, quale canone legale di raffronto
tra lo scopo prefissato dalla norma comportamentale e la scelta
sanzionatoria in concreto operata dalla pubblica amministrazione, è
valso al giudice amministrativo per ritagliarsi un potere di sindacato
piuttosto ampio sull’altrettanto penetrante supremazia speciale che
l’ordinamento militare attribuisce al Corpo sui propri appartenenti.
Precario,
tuttavia, il punto di equilibrio, essendo il sindacato giurisdizionale
destinato tanto più ad arretrare in favore della più piena
discrezionalità dell’amministrazione, quanto più la condotta ascritta
al dipendente integri un illecito di scopo, piuttosto che di offesa.