Quando l’amministratore risponde penalmente dei danni al condominio (sentenza completa)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 23 settembre – 13 ottobre 2009, n. 39959
(Presidente Mocali – Relatore Romis)
Svolgimento del processo
G.
G. veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt.
113 e 449 c.p. secondo la seguente contestazione: perché quale
amministratore del condominio sito in Lecco alla via T. T. ai civici
numeri 29, 31, 33 e 35, concorreva, con R. I., Z. M. e V. A. – il R.
quale legale rappresentante della pizzeria “X.”, lo Z. quale incaricato
dal R. del riposizionamento della canna fumaria della pizzeria, il V.
quale tecnico incaricato, a dire del R., di verificare la corretta
esecuzione del lavoro – a cagionare, per colpa, un vasto incendio, al
tetto e sottotetto dello stabile del predetto condominio, che si
propagava all’intero edificio; canna fumaria a proposito della quale,
con relazione peritale a firma dell’ing. Locatelli datata 2 novembre
2001 indirizzata al G., il detto perito aveva segnalato che non erano
state seguite le indicazioni previste nel progetto originario
illustrato nell’assemblea condominiale (in particolare, la canna
fumaria risultava quasi completamente sprovvista di qualsiasi
limitazione del calore prodotto, con
conseguente possibilità
di incendi); colpa consistita in negligenza e violazione degli obblighi
e dei doveri correlati all’ufficio ricoperto: sia avendo omesso, a
seguito della suddetta segnalazione, di controllare e verificare la
corretta esecuzione dei lavori risultati eseguiti in modo non idoneo
attraverso l’utilizzo di un tubo flessibile non coibentato, posizionato
peraltro in aderenza al sottotetto ed in violazione al Regolamento
Locale di Igiene Tipo del Comune di Lecco, sia avendo omesso, per lungo
tempo, di attivarsi per rimuovere la suddetta situazione di pericolo
interessando le Autorità, gli organi competenti ed il gestore della
pizzeria “X.”.
Il Tribunale di Lecco assolveva il V., e
condannava R., Z. e G. alle rispettive pene ritenute di giustizia,
oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite.
Interponevano
appello i tre imputati condannati; la Corte d’Appello di Milano
concedeva al G. il beneficio della non menzione della condanna nel
certificato del casellario giudiziale, confermando nel resto
l’impugnata sentenza, disattendendo nel merito le tesi difensive
prospettate dagli appellanti. Con riferimento alla posizione del G., la
Corte territoriale dava conto del proprio convincimento, circa la
ritenuta colpevolezza dello stesso, con argomentazioni che possono così
sintetizzarsi: a) la canna fumaria della pizzeria, di proprietà
esclusiva del gestore (R.) di tale esercizio e/o del proprietario (B.)
dei relativi locali, intercettava nel suo tragitto parti comuni
dell’edificio di cui il G. era amministratore; b) rilevava la posizione
di garanzia del G. il quale aveva non solo l’obbligo di eseguire le
deliberazioni dell’assemblea dei condomini, ma altresì, ai sensi
dell’art. 1130 cod. civ., l’obbligo di compiere gli atti conservativi
dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio; c) a fronte di
deliberazioni assembleari e relazioni tecniche che prospettavano il
pericolo di incendio del solaio condominiale e della copertura
dell’edificio, l’amministratore G., anziché attivarsi nei confronti del
R., gestore della pizzeria, adottando i provvedimenti necessari ed
eventualmente agire in via di urgenza (ex artt. 1133 e 1131 cod. civ.)
nei confronti del medesimo, a tutela delle parti comuni dell’edificio
minacciate dal pericolo di incendio, era rimasto inerte per circa un
anno; d) le diffide degli enti pubblici non esoneravano
l’amministratore dal suo ruolo di garante: il Comune aveva esercitato
un potere autoritativo collaterale o additivo riconducibile a fonte
diversa: anzi, proprio quelle diffide avrebbero dovuto ancor più
stimolare il G. ad assumere le opportune e necessarie iniziative; e)
siffatta colpevole inerzia aveva avuto un ruolo casualmente incidente
sulla produzione dell’evento, cooperando con la condotta non meno
colposa del R. e dello Z. della quale il G. era ben consapevole in
virtù del suo ruolo e per quanto si era discusso da lungo tempo nelle
assemblee di condominio.
Ha proposto ricorso per Cassazione il
G. deducendo violazione dell’art. 40 del codice penale e vizio
motivazionale in ordine all’affermazione di colpevolezza con censure
che possono così riassumersi: a) insussistenza per il G. di qualsiasi
obbligo di intervenire per impedire l’evento posto che il cattivo
posizionamento della canna fumaria doveva ritenersi riconducibile al
proprietario della stessa, non costituendo una proprietà condominiale;
dopo le verifiche effettuate sulla canna fumaria dal tecnico di fiducia
del condominio, ing. Locateli, l’assemblea condominiale aveva invitato
formalmente il proprietario dei locali della pizzeria, dott. B., a
rimuovere la situazione di pericolo ritenendolo responsabile di
eventuali danni, mentre alcun mandato era stato conferito al G.
affinché si attivasse nelle sedi competenti per la messa a norma
dell’opera; il dott. B. aveva invitato sia il geom. V. che il R. ad
ottemperare a quanto ingiunto dal Comune di Lecco, circa l’opera “de
qua”, con diffida del 4 aprile 2001; non essendo mutata la situazione,
per la mancanza di qualsiasi intervento, ed a seguito di ulteriore
sopralluogo e di una comunicazione della ASL, sollecitata dallo stesso
G., il Comune con diffida del 15 gennaio 2002 aveva assegnato al dott.
B. ed al R. il termine di 15 giorni – poi prorogato di ulteriori 20
giorni – per adeguare la canna fumaria alla sua messa in sicurezza, con
l’avvertimento che in caso di inerzia il Comune avrebbe proceduto
secondo legge: in sostanza, il G. era solo un terzo come qualsiasi
altro condomino, non gravato dell’obbligo di impedire l’evento; b)
avrebbe errato la Corte di merito nell’attribuire una posizione di
garanzia al G. che invece non la rivestiva, tenuto conto delle funzioni
dell’amministratore condominiale e dei suoi poteri, tali da ricondurre
l’obbligo dell’amministratore stesso alla sola protezione per le parti
comuni o per gli impianti comuni dell’edificio, anche in base a
principi enunciati dalla Suprema Corte in materia: la canna fumaria
responsabile del sinistro non era condominiale, ed anche il fenomeno di
surriscaldamento che aveva determinato l’incendio rientrava nell’ambito
del privato, essendo risultato accertato che l’incendio era stato
determinato dalla combustione di residui di fuliggine del condotto
fumario del forno pertinente alla pizzeria gestita dal R.; c) alcun
mandato era stato conferito dal condominio al G., tenuto conto del
verbale dell’assemblea condominiale del 10 dicembre 2001 secondo cui,
in caso di esito negativo della transazione tra il dott. B. ed il R.,
il G., previa nuova perizia ad opera dell’ing. Locatelli, avrebbe
dovuto informare gli organi competenti; d) peraltro qualsiasi ulteriore
sollecitazione da parte del G. sarebbe stata del tutto superflua, posto
che ASL e Comune erano al corrente della situazione, ed in particolare
il Comune si era attivato specificamente con intimazioni nei confronti
del dott. B. e del R.: il che avrebbe comunque comportato il venir meno
di eventuali condotte omissive censurabili da parte
dell’amministratore; né rileverebbe che la parte finale della canna
fumaria attraversasse il sottotetto, posto che la canna stessa non
cessava di essere di proprietà del singolo “per essere i suoi percorsi
contigui o interni rispetto a proprietà comuni” (pag. 13 del ricorso):
la stessa diffida del Comune di Lecco aveva avuto quale destinatario il
solo dott. Bellucci, ed ulteriori intimazioni erano state trasmesse al
G. solo per conoscenza; e) quanto all’accusa mossa al G., di aver
omesso di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti le parti
comuni dell’edificio, l’impostazione dei giudici di merito sarebbe
errata poiché quanto prescritto all’amministratore dall’assemblea
condominiale del 10 dicembre 2001 era stato automaticamente attuato
dalla attivazione del Sindaco e della ASL secondo la volontà espressa
dai condomini nella delibera stessa; f) le omissioni del dottor
Bellucci e del R. non avrebbero determinato l’insorgenza di una
responsabilità concorsuale del G., trattandosi di condotte autonome ed
indipendenti, e l’intervento del Comune di Lecco avrebbe interrotto
ogni rapporto di causalità; g) nella vicenda “de qua” avrebbe dovuto
essere implicato a pieno titolo il dottor Bellucci, quale proprietario
dei locali affittati al R. nonché della canna fumaria: di tal che, nel
caso di riaffermata responsabilità del G., dovrebbe essere
“concorsualmente ribadita, ovviamente senza alcuna conseguenza di
carattere penale, ma unicamente in via di principio, la
corresponsabilità del Dott. Bellucci, se non altro ai fini meramente
civilistici” (così testualmente a pag. 16 del ricorso).
Motivi della decisione
Il
ricorso è meritevole di accoglimento nei termini di seguito precisati,
risultando sussistente la denunciata violazione dell’art. 40 del codice
penale, sia pure sotto profili non direttamente evidenziati dal
ricorrente, il quale ha svolto considerazioni finalizzate
prevalentemente a dimostrare l’asserita insussistenza di una posizione
di garanzia per il G..
Certamente è condivisibile l’assunto dei
giudici del merito secondo cui, in via di principio generale,
l’amministratore di un condominio è titolare di un obbligo di garanzia,
quanto alla conservazione delle parti comuni dell’edificio
condominiale: non può invero in altro modo interpretarsi il chiaro
dettato dell’art. 1130, primo comma, n. 4, del codice civile. D’altra
parte in tal senso si è già espressa questa Corte, sia in sede penale
che in sede civile, enunciando i seguenti principi: “La responsabilità
penale dell’amministratore di condominio va considerata e risolta
nell’ambito del capoverso dell’art. 40 cod. pen, che stabilisce che
‘non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire
equivale a cagionarlo’. Per rispondere del mancato impedimento di un
evento è, cioè, necessaria, in forza di tale norma, l’esistenza di un
obbligo giuridico di attivarsi allo scopo: detto obbligo può nascere da
qualsiasi ramo del diritto, e quindi anche dal diritto privato, e
specificamente da una convenzione che da tale diritto sia prevista e
regolata com’è nel rapporto di rappresentanza volontaria intercorrente
fra il condominio e l’amministratore” (Terza Sezione Penale, n. 4676
del 14/03/1975 Ud. – dep. 14/04/1976 – Rv. 133249); “Sussiste la
“legitimatio ad causam” e “ad processum” dell’amministratore del
condominio, senza bisogno di alcuna autorizzazione, allorquando egli
agisca a tutela di beni condominiali, giacché i poteri gli vengono
direttamente dalla legge e precisamente dall’art. 1130 n. 4 del cod.
civ. che gli pone addirittura come dovere proprio del suo ufficio
quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle
parti comuni dell’edificio, potere-dovere da intendersi non limitato
agli atti cautelativi ed urgenti ma esteso a tutti gli atti miranti a
mantenere l’esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti [nella
specie l’amministratore del condominio aveva agito nei confronti di
terzi che avevano allacciato gli scarichi dei loro immobili nella
condotta fognaria dell’edificio condominiale]” (Seconda Sezione Civile,
n. 6494 del 06/11/1986, Rv. 448662).
Il G. era dunque titolare
dell’obbligo di garanzia, in relazione alla conservazione delle parti
comuni (tetto e sottotetto) dello stabile di via T. T. nn. 29, 31, 33,
35; né rileva, ovviamente, che, per quanto concerne il pericolo di
incendio riconducibile al difetto di installazione della canna fumaria,
questa non appartenesse al condominio, bensì a terzi: ed invero,
l’obbligo di intervento da parte di un amministratore di un condominio,
a tutela delle parti comuni dell’edificio condominiale, prescinde dalla
provenienza del pericolo.
Ciò posto, mette conto sottolineare
che, avuto riguardo al capo di imputazione quale formulato a carico del
G., nei confronti di quest’ultimo sono stati ipotizzati profili di
condotta colposa omissiva. Di tal che, bisogna verificare – in
relazione alla denuncia di violazione dell’art. 40 c.p. dedotta con il
ricorso – se i giudici del merito, muovendo dal presupposto della
titolarità per il G. dell’obbligo di garanzia, hanno individuato la
specifica condotta che il G. stesso avrebbe dovuto porre in essere in
concreto, e se hanno poi accertato la sussistenza del nesso di
causalità tra la omissione e l’evento.
Come è noto, il tema del
nesso di causalità in relazione al reato colposo per condotta omissiva,
oltre ad essere stato oggetto di un vivace dibattito in dottrina, aveva
anche determinato un contrasto nell’ambito della giurisprudenza di
legittimità, che, non avendo trovato spontanea composizione, aveva reso
necessario – sia pure con specifico riferimento alla materia della
colpa professionale del medico – l’intervento delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione. Queste ultime si sono quindi pronunciate nel 2002
con la sentenza n. 27/2002 (ud. 10 luglio 2002, ric. Franzese) con la
quale sono stati individuati i criteri da seguire perché possa dirsi
sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, e
sono stati enunciati taluni principi che, pur affermati, come detto,
con specifico riferimento alla responsabilità colposa (per condotta
omissiva) del medico chirurgo, valgono evidentemente in generale per
quel che riguarda la ricostruzione del nesso causale – quale elemento
costitutivo del reato – in qualsiasi caso di reato colposo per condotta
omissiva. I principi enucleabili dalla sentenza Franzese possono così
riassumersi: 1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla
stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una
generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica –
universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata
dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”,
questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in
epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2)
non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di
probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno,
dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il
giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base
delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che,
all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso
l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e
processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata
condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di
credibilità razionale” o “probabilità logica”; 3) l’insufficienza, la
contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla
ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base
all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della
condotta omissiva rispetto ad altri fattori interagenti nella
produzione dell’evento, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi
prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla
Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il
compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle
argomentazioni giustificative – la cd. giustificazione esterna – della
decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come
elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai
criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì
il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di
merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma
dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare. Può dunque affermarsi
che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che
faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale
elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su
dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura
probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due
contrapposti indirizzi interpretativi delineatisi nella giurisprudenza
di questa Suprema Corte, maggiormente verso quello più rigoroso
(favorevole alla necessità dell’accertamento del nesso causale in
termini di certezza) delineatosi in tempi più recenti. L’articolato
percorso motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce a
ritenere che le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità
dell’individuazione del nesso di causalità (quale “condicio sine qua
non” di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale) in termini di “alto o
elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”, abbiano
inteso riferirsi non alla certezza oggettiva (storica e scientifica),
risultante da elementi probatori di per sé altrettanto inconfutabili
sul piano della oggettività, bensì alla “certezza processuale” che, in
quanto tale, non può essere individuata se non con l’utilizzo degli
strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie:
“certezza” che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando
tutte le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo
un procedimento logico – analogo a quello seguito allorquando si tratta
di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal
secondo comma dell’art. 192 del codice di procedura penale – che
consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva “al di
là di ogni ragionevole dubbio” (vale a dire, appunto, con ‘alto o
elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’).
Invero, non pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le
Sezioni Unite hanno voluto esprimere allorquando – con riferimento alla
colpa professionale del sanitario – hanno testualmente affermato che
deve risultare «giustificata e processualmente certa la conclusione che
la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria
dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’
o ‘probabilità logica’».
In applicazione dei principi di diritti
enunciati da questa Corte, quali appena ricordati, i giudici del
merito, ai fini dell’affermazione di colpevolezza del G. in ordine al
reato ascrittogli, avrebbero dovuto dunque procedere ad un duplice
accertamento: 1) individuare la condotta in concreto esigibile dal G.
in relazione alla posizione di garanzia dello stesso; 2) accertare se,
una volta posta in essere dal G. la condotta così individuata, e
(secondo la contestazione) colposamente omessa, l’evento non si sarebbe
verificato: e ciò al fine di poter giungere, sulla base del compendio
probatorio disponibile – ed esclusa altresì l’interferenza di fattori
alternativi – alla conclusione che la condotta omissiva del G. era
stata condizione necessaria dell’evento con “alto o elevato grado di
credibilità razionale” o “probabilità logica” (cd. giudizio
controfattuale). Ciò posto, non resta ora che verificare se, nel caso
che ne occupa, l’“iter” argomentativo seguito dai giudici di seconda
istanza – posto a fondamento del convincimento della responsabilità del
G. – sia in sintonia con i principi di cui sopra affermati dalle
Sezioni Unite.
La risposta è negativa.
In primo luogo, la
Corte territoriale, avendo individuato nel verbale dell’assemblea
condominiale del 10 dicembre 2001 un elemento probatorio idoneo a
dimostrare la esistenza di una concreta ed attuale condizione di
pericolo tale da rendere doveroso un intervento del G. riconducibile
alla posizione di garanzia di quest’ultimo, avrebbe dovuto puntualmente
indicare le circostanze di fatto, desumibili da detto verbale,
rivelatrici di una situazione di allarme, avvertita come tale anche dai
condomini, in presenza della quale il G. avrebbe dovuto attivarsi a
tutela delle parti comuni dell’edificio esposte al pericolo derivante
dalla difettosa posa in opera della canna fumaria: tenendo conto, al
riguardo, del testo completo del verbale in argomento (richiamato dal
ricorrente), e non della sola parziale formulazione evidenziata a pag.
13 dell’impugnata sentenza, nonché valutando la stessa volontà
dell’assemblea condominiale quale desumibile da tale verbale. Sulla
base degli elementi di valutazione così raccolti, la Corte distrettuale
avrebbe dovuto poi specificamente indicare quale sarebbe stata in
concreto la specifica condotta esigibile dal G.: un’azione giudiziaria
(e quale?), il diretto e più pregnante coinvolgimento di Autorità
locali (peraltro già a conoscenza della situazione, per come si rileva
dagli atti), una diffida (ed in quali termini?) nei confronti del
titolare della pizzeria e del proprietario dei locali della stessa, o
altro ancora. In proposito, la Corte d’Appello ha ipotizzato due
condotte asseritamente esigibili dal G. – una delle quali, peraltro,
solo come eventuale – sottolineando (cfr. pag. 13 della sentenza) che
il G. era rimasto inerte per circa un anno “anziché attivarsi
immediatamente presso R. prendendo i provvedimenti necessari (art. 1133
c.c.) ed eventualmente agire in giudizio in via di urgenza (neppur
necessitava di previa investitura assembleare: art. 1131 c.p.)”.
Ancor
più evidente appare poi il vuoto motivazionale, nell’impugnata
sentenza, in punto di accertamento del nesso causale, elemento
costitutivo del reato.
Ed invero, una volta individuata la
condotta (ritenuta) doverosa del G., in base ai criteri di accertamento
ed ai canoni interpretativi indicati dalle Sezioni Unite con la
sentenza Franzese, i giudici del merito avrebbero poi dovuto procedere
al giudizio controfattuale, e verificare quindi – indicando
compiutamente le ragioni del convincimento espresso, onde consentire a
questa Corte di poter effettuare il controllo di legittimità sul
contesto giustificativo della decisione – se sussistevano le condizioni
per poter giungere alla conclusione, sulla base del compendio
probatorio disponibile, ed esclusa altresì l’interferenza di fattori
alternativi, che la condotta omissiva del G. era stata condizione
necessaria dell’evento con “alto o elevato grado di credibilità
razionale” o “probabilità logica”. In proposito, la Corte ha ritenuto
di poter motivare la ritenuta sussistenza del nesso causale così
testualmente esprimendosi: “Tale colpevole inerzia ebbe dunque un ruolo
casualmente incidente sulla produzione dell’evento dannoso,
“cooperando” con la condotta non meno colposa di R. e Z., di cui si è
detto, della quale G. era ben consapevole in virtù del suo ruolo e per
quanto s’era ormai da lungo tempo dibattuto nelle assemblee di
condominio” (pag. 14 della sentenza). Non può certo dirsi che la Corte
d’Appello abbia puntualmente seguito il rigoroso schema motivazionale
richiesto dalle Sezioni Unite: appare di tutta evidenza, “ictu oculi”,
che, al riguardo, si tratta di una motivazione apparente,
caratterizzata da formulazioni assertive.
Resta solo da
aggiungere, per mera completezza argomentativa, che le doglianze del
ricorrente relative al mancato coinvolgimento del dottor B. nella
vicenda “de qua”, in alcun modo potrebbero rilevare in questa sede di
legittimità, trattandosi di mera “quaestio facti”.
Conclusivamente,
l’impugnata sentenza deve essere annullata, con rinvio, per nuovo
esame, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano che si atterrà
ai principi di diritto sopra enunciati, e provvederà altresì alla
regolamentazione delle spese tra le parti.
P.Q.M.
Annulla
la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione
della Corte d’Appello di Milano cui rimette anche la regolazione delle
spese tra le parti.