Rc auto e rimborsi: la competenza è del giudice di pace ma il danno va dimostrato
Presidente De Musis – relatore Fittipaldi
Pm Apice – difforme – ricorrente Axa Assicurazioni Spa – controricorrente Isvap
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 19 settembre 2000, il signor Larato Camillo conveniva in giudizio l’Axa compagnia di Assicurazioni spa e l’Isvap per sentire: a dichiarare illecito l’aumento del costo da lui sostenuto in relazione alla polizza assicurativa 446859, contratta con l’Axa Assicurazioni spa, e per l’effetto condannare tanto la società assicuratrice quanto l’Isvap a corrispondere e a stornare, in suo favore, a titolo di risarcimento danno, una somma pari al 20% del premio di polizza pagato e comunque da liquidarsi in via equitativa nella stessa misura; b) ordinare alla compagnia di assicurazione il rinnovo del contratto in corso con l’attore, alle condizioni di prezzo giusto e conforme alla legge.
Il tutto con clausola di contenimento della domanda nelle competenze per valore dell’adito giudice di pace.
A sostegno della domanda, l’attore deduceva: 1) che l’autorità antitrust aveva comminato una multa pari a 700 miliardi di lire alle società di assicurazione partecipanti ad un accordo di cartello risultato e riconosciuto per ciò stesso vietato dalla legge; 2) che la Axa era una delle 39 compagnie assicuratrici sanzionate dall’antitrust; 3) che tale accordo aveva avuto come effetto immediato e consequenziale l’aumento del costo della polizza; 4) che l’aumento risultato illecito ammontava presuntivamente al 20% del costo totale del premio versato, tenuto conto che l’attività in violazione della legge sulla concorrenza aveva determinato un costo polizza superiore alla media europea e comunque illegalmente gonfiato a causa dei comportamenti anticoncorrenziali accertati dall’Antitrust; 5) che era diritto di esso attore ottenere il rinnovo del contratto in corso alle condizioni di giusto prezzo e conforme alla legge, e, in ogni caso, ottenere un risarcimento del danno in misura pari al 20% del premio pagato o comunque da liquidarsi in via equitativa nella stessa misura; 6) che l’ente di controllo Isvap non aveva effettuato i controlli nel modo e nell’intensità dovuta, per il che doveva ritenersi corresponsabile del danno realizzato a carico di esso attore.
L’Axa, costituitasi, chiedeva, in via preliminare: 1) dichiararsi l’incompetenza funzionale e territoriale dell’adito giudicante, in favore della Corte di appello di Torino o di Bari ex articolo 33, comma 2 della legge 287/90; 2) affermarsi la nullità della citazione per indeterminatezza dei fatti di causa; 3) disporsi la sospensione del giudizio ex articolo 295 Cpc, in attesa dell’esito della proposta impugnazione innanzi al Tar Lazio, del provvedimento Antitrust 28 luglio 2000; 4) disporsi l’integrazione del contraddittorio mercé la chiamata in causa di tutte le società assicuratrici sanzionate dall’Antitrust; 5) nel merito, il rigetto della domanda giacché non provata, con vittoria di spese di lite.
Si costituiva in giudizio anche la Isvap, chiedendo, in via preliminare, dichiararsi il difetto di giurisdizione dell’Ago ai sensi dell’articolo 37 Cpc, in favore di quella del giudice amministrativo ex articolo 7 della legge 205/00, o, in ogni caso disporsi la sospensione del processo per consentire la proposizione dell’istanza di regolamento di giurisdizione; in subordine, dichiararsi la nullità della citazione ex articolo 164, comma 3 Cpc; in ulteriore subordine, disporre l’estromissione dal giudizio dell’Isvap per difetto di legittimazione passiva ex articolo 20, comma 4, della legge 10 ottobre 1990, e, nel merito, il rigetto della domanda perché infondata.
Il giudice di pace, all’esito dell’acquisizione di tutta la documentazione prodotta dalle parti, si riservava la causa in decisione sulle sole eccezioni preliminari.
All’esito, il giudice di pace: a) disponeva l’estromissione dell’Isvap, in quanto ritenuto estraneo al rapporto intercorso fra l’attore e l’Axa, ed in ogni caso di ingiustificata presenza nel giudizio, ricorrendo evidente difetto di giurisdizione sull’operato (dedottamene omissivo) dell’Isvap; b) rigettava l’eccezione di incompetenza funzionale e territoriale, ritenendo che l’articolo 33 comma 2 della legge 287/90 riguardi le azioni di nullità, di risarcimento danni ed i provvedimenti d’urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal primo al quarto della suddetta legge 287/90, e non riguardasse, invece, l’azione di risarcimento danni derivante dal contratto intercorso fra l’attore e l’Axa in Acquaviva delle Fonti; c) riteneva, pertanto la competenza ordinaria di esso giudice, anche “ratione territorii”; d) rigettava altresì l’eccezione di nullità della citazione sollevata dai convenuti, ritenendo non ricorrere, nella specie, alcuna indeterminatezza dei fatti posti a base della domanda; e) rigettava la domanda di chiamata in causa delle altre società assicuratrici, ritenendole estranee al giudizio; f) rigettava la domanda di sospensione del procedimento, non ritenendo sussistere alcun profilo di dipendenza della decisione da quella da assumersi in sede di Tar; g) compensava intermante le spese fra l’attore e l’Isvap, mentre rimetteva al prosieguo del giudizio innanzi a sé ogni decisione in ordine alle spese quanto al rapporto processuale fra l’attore e l’Axa.
Proponeva ricorso per regolamento di competenza l’Axa con atto notificato al solo Laudato, chiedendo che, nell’eventualità in cui lo strumento di gravame venisse ritenuto inammissibile, per la ritenuta, perdurante operatività della disposizione di cui all’articolo 46 Cpc, lo stesso venisse, in ogni caso, trattato quale ricorso ordinario, trattandosi di pronuncia – quella del giudice di pace – intervenuta in controversia di valore inferiore ai due milioni di lire.
Non si costituiva il Laudato, mentre il Pg, in sede di requisitoria scritta, chiedeva che, ritenuto il ricorso inammissibile sub specie dell’articolo 42 Cpc siccome indirizzato avverso una pronuncia del giudice di pace, lo stesso venisse, peraltro, ritenuto convertibile in ricorso ordinario.
All’udienza del 7 dicembre 2001, il procedimento veniva trattato in Camera di consiglio e questa Corte rinviava a nuovo ruolo, disponendo l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Isvap.
Avendo la Axa provveduto all’incombente, la causa perveniva all’odierna udienza, per la sua trattazione pubblica.
Costituitasi l’Isvap, rilevata la inammissibilità – in sé – del regolamento di competenza, e d’altronde la sua terzietà ormai rispetto al presente giudizio ove il gravame venga trattato come ricorso ordinario per cassazione (e ciò in forza del non impugnato capo della impugnata sentenza relativo alla sua estromissione dal giudizio), formula – ad ogni buon conto – in riferimento all’ipotesi di una ritenuta reviviscenza della sua posizione di parte, ricorso incidentale teso a far valere e far dichiarare la nullità dell’atto di citazione introduttivo siccome formulato nei suoi confronti, per assoluta indeterminatezza e vaghezza del titolo di avvenuta evocazione in giudizio.
Ha depositato memoria illustrativa la Axa.
Motivi della decisione
Vanno preliminarmente riuniti, ai sensi dell’articolo 335 Cpc, il ricorso principale proposto dall’Axa e quello incidentale subordinato proposto dall’Isvap.
Premesso come il ricorso principale, nella sua originaria formulazione di regolamento di competenza, vada dichiarato inammissibile, stante, in tema di pronunce del giudice di pace, la preclusione posta, dall’articolo 46 Cpc, nondimeno – giusta, del resto, esplicita richiesta contenuta nel ricorso medesimo – esso si rende suscettibile di essere trattato come ricorso ordinario per cassazione, concorrendo – nella fattispecie – in esso, i requisiti sia di forma che di sostanza previsti dall’articolo 360 Cpc.
Riguardato sotto un tal punto di vista, il ricorso risulta articolato sulla base di tre motivi:
1) violazione e falsa applicazione della previsione di cui all’articolo 33 Cpv legge 287/90, degli articoli 5, 7 e 38 Cpc, in relazione all’articolo 360 numero 2 Cpc;
2) violazione di legge con riferimento agli articoli 316, 318 Cpc in relazione agli articoli 163, 164 Cpc per indeterminatezza della domanda, in riferimento all’articolo 360 numero 3 e 5 Cpc;
3) violazione di legge con riferimento all’articolo 295 Cpc, in relazione all’articolo 360 numero 3 e 5 Cpc.
A sostengo del primo motivo l’Axa deduce che, essendo nella prospettazione del Laudato il comportamento illecito di essa Axa da individuare immediatamente nell’aumento illecito del premio, ma mediatamente nell’essersi esso così determinato per l’effetto della partecipazione all’illecito accordo anticoncorrenziale, il risarcimento del danno troverebbe la sua effettiva ragione d’essere nella violazione dell’articolo 2 della legge 287/90 vietante gli accordi dei medesimi. Conseguentemente opererebbe la previsione di cui all’articolo 33 Cpv della legge suddetta individuante il giudice competente nella Corte di appello (di Torino o di Bari a seconda che si privilegi il foro del convenuto o quello del luogo in cui è stata sottoscritt la polizza), e si delineerebbe l’incompetenza funzionale e per territorio del giudice di pace di Acquaviva delle Fonti.
A sostegno del secondo motivo l’Axa deduce invece la (già rappresentata in sede di originaria comparsa di risposta) nullità dell’atto di citazione in relazione alla incomprensibilità – a suo dire – del preteso «aumento del costo della polizza», stimato dall’attore “presuntivamente” pari al «20% del costo totale del premio versato», sia in relazione alla indeterminatezza del riferimento alla polizza il cui premio sarebbe stato aumentato illegittimamente, sia per l’assoluta genericità del preteso aumento illecito, del quale non veniva fornita la minima giustificazione sia fattuale che quantitativa.
Rileva l’Axa come la risposta offerta dal giudice di pace sul punto, sarebbe del tutto tautologica, tanto più alla luce del profilo per cui due erano le polizze coinvolte temporalmente (una, vigente – con effetto dal 2 settembre 1999 – al momento della pubblicazione della decisione dell’Antitrust; ed un’altra, vigente – con effetto dal 2 settembre 2000 – al momento della notificazione dell’atto di citazione).
Rileva altresì l’Axa, come l’attore (ed il giudice, con lui) non si farebbe carico affatto di giustificare perché mai l’aumento illecito dovesse essere determinato presuntivamente nel 20%, a fronte dell’eccezione di corretta applicazione della tariffa vigente (e bloccata, per il rinnovo del 2 settembre 2000, in relazione al decreto legge 70/2000 convertito in legge 137/00).
A sostegno del terzo motivo (non più ripreso però – poi – in sede di memoria illustrativa finale) la parte ricorrente lamenta, infine, il mancato accoglimento della istanza rivolta a conseguire la sospensione del giudizio nell’attesa della definizione del giudizio introdotto innanzi al Tar ed avente ad oggetto l’impugnativa del provvedimento dell’autorità Antitrust, irrogativi della sanzione.
Premessa l’inammissibilità del terzo motivo (con il quale la ricorrente lamenta la mancata sospensione del giudizio nell’attesa della definizione di quello pendente innanzi al Tar del Lazio in ordine alla impugnativa del provvedimento dell’Antitrust), non rendendosi suscettibile di ricorso per regolamento di competenza (e perciò neppure di una sua eventuale conversione in ricorso ordinario per cassazione) il provvedimento del giudice di merito che neghi la sospensione del giudizio ex articolo 295 Cpc, va sottolineato come, anche ove riguardato sotto il punto di vista dei primi due motivi, il ricorso proposto dall’Axa non possa trovare alcun accoglimento.
Ed infatti, quanto al primo dei due motivi, va premesso innanzitutto come, al di là dei termini ancora fluidi che caratterizzano l'(ancora recente ed acerbo) dibattito relativo alla portata effettiva (anche negli aspetti relativi ai limiti soggettivi di legittimazione al loro esercizio) delle azioni contemplate dal secondo comma dell’articolo 33 della legge 287/90 (caratterizzate dalla conseguente cognizione esclusiva – in un unico grado di merito – della corte di appello territorialmente competente in ragione dei criteri di cui agli articoli 19 e seguenti Cpc), con particolare riguardo all’azione risarcitoria, esso dibattito – parallelamente alle conclusioni emerse, del resto, sia nella pionieristica esperienza statunitense, che, già nel 1980, conosceva lo “Scherman Act”, sia nell’ordinamento “comunitario”, sia nelle singole esperienze ordinamentali nazionali proprie di quel più generale contesto storico del mondo occidentale che ha conosciuto le forme più avanzate di espressione dell’economia di mercato – consente intanto di fissare dalle prime conclusioni di massima proprio in relazione al profilo della capacità e legittimazione del consumatore finale ad avvalersi dello strumento risarcitorio nei riguardi dell’avvenuta violazione dei divieti posti, nelle singole legislazioni speciali nazionali, a tutela della concorrenza e del mercato; conclusioni che si rivelano di segno sostanzialmente negativo.
Rispetto a tali conclusioni si impone intanto una premessa: non vengono – ovviamente – in alcun modo in discorso opzioni angustamente e miopamente inquadrative dei fenomeni del mercato e della concorrenza, che finiscano in qualche modo per ignorare come, ovviamente, il consumatore finale rappresenti egli stesso un termine imprescindibile di riferimento del più generale fenomeno del “mercato”, il quale ultimo acuisce esso stesso finale senso proprio in funzione dello sbocco dei beni e dei servizi prodotti, presso i consumatori finali.
Gli interrogativi sono, invece e piuttosto, di carattere più generale e si conducono a penetrare – al di là degli auspici ricorrentemente formulati, in molteplici sedi in ordine ad un certo tipo di conclusioni – i contenuti più propri dei singoli ordinamenti nazionali e degli strumenti normativi concretamente elaborati a tutela della “concorrenza” e del “mercato”, per indagarne gli istituti al fine di ricostruirne le reali articolazioni ed i conseguenti riflessi operativi.
Su questo piano, ciò che parrebbe senz’altro cogliersi nello stesso impianto della legge 287/90, fin dalla illuminante premessa “inquadrativi” contenuta nell’articolo 1 («Le disposizioni della presente legge in attuazione dell’articolo 41 della Costituzione a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica, si applicano alle intese, agli abusi di posizione dominante e alle concentrazioni di imprese che non ricadono») è una caratterizzazione della stessa che, assumendo pur sempre – nella stessa delineazione concreta degli strumenti operativi (vedi, ad esempio – tanto per venire al tema dei cosiddetti “cartelli”, evocato nella presente controversia – la stessa scelta normativa, consacrata nell’ultimo comma dell’articolo 2 e nel secondo comma dell’articolo 33 – di privilegiare una tecnica di incidenza “repressiva” affidata, quanto al piano più propriamente “civilistico”, allo strumento della “nullità” delle “intese”) la prospettiva privilegiata dell’“impresa” quale termine comunque principale del dinamismo del “mercato”, tende ad assicurare le condizioni per il più pieno e libero esprimersi della “concorrenza”, considerata – in un modello che faccia conto, comunque, dei principi del “liberismo” – come il fattore imprescindibile per l’esprimersi delle potenzialità e delle capacità del “mercato”.
È in questa luce che si iscrivono – altresì gli stessi divieti di cui all’articolo 2, i quali assumono essi stessi la prospettiva privilegiata del modello dell’“impresa”, e della concorrenza quali fattori – appunto – da preservare rispetto a tutta una serie di eventi perturbativi quali le possibili intese ed i possibili accordi fra singole imprese, aventi la capacità di alterare il gioco delle condizioni per il formarsi della domanda e dell’offerta, e per il permanere o per l’ingresso delle singole imprese nel mercato; divieti rispetto ai quali poi la stessa legge 287/90 delinea,in sede di articolo 33, gli strumenti sanzionatori, i quali non possono conseguentemente non corrispondere essi stessi, strutturalmente, a tale prospettiva ispiratrice; il che si rende più che mai palese – ad esempio – in relazione alla, espressamente evocata – nel secondo comma dell’articolo 33 – conseguente azione volta a conseguire – sul piano civilistico – una dichiarazione giudiziale di nullità delle “intese” in questione; dichiarazione rispetto alla quale – non a caso – si renderebbe difficilmente configurabile, ad esempio, giù sul piano fattuale, per l’intrinseca impossibilità di conseguirne un qualsiasi diretto riflesso (data la strutturazione di per sé stessa naturalmente meramente “obbligatoria” delle “intese”), una qualsivoglia soglia di interesse in testa a soggetti che non siano essi stessi partecipi di quello stesso livello operativo, e rivestano invece la mera veste di consumatori finali, non potendo in alcun modo reagire su di essi l’esistenza in sé delle “intese”, le quali – come strumento tecnico operativo – risultavano concepite, in quanto tali, solo in funzione di chi appunto (le imprese) le possa concludere, e le abbia nel concreto concluse, ed apparendo, invece, al riguardo, il possibile ruolo del consumatore finale, chiamato piuttosto ad esaurirsi nella sollecitazione dell’esercizio dei loro poteri da parte degli organi individuati dalla stessa legge 287/90 in quella che si rivela la sua componente più propriamente “pubblicistica”.
Così ricostruiti i termini, le caratterizzazioni strutturali e le finalità ispiratrici della disciplina di cui alla legge 287/90, non si vede come mai rispetto ad essi potrebbe rendersi stravagante il solo strumento risarcitorio previsto – in stretta connessione con le azioni di nullità e di “inibitoria” – dal medesimo secondo comma dell’articolo 33; strumento il quale non può – di conseguenza – non lasciare presupporre esso stesso una tipologia di danni strettamente connessa alle tematiche dell’impresa e della sua persona nel mercato.
Ciò finisce – del resto – per porsi in una linea di più generale continuità con le caratteristiche strutturali della disciplina codicistica della concorrenza (articolo 2595 e seguenti Cc) così come riletta, nel tempo, alla luce della Costituzione; disciplina la quale non contempla la legittimazione attiva dei singoli consumatori finali.
Né ciò equivale a postulare – di fatto – l’irrisarcibilità assoluta di ogni e qualsiasi delle eventuali ricadute estreme di quelle intese vietate dal legislatore in sede di legge 287/90, sul “consumatore finale” (ricadute realizzatisi nel momento in cui quest’ultimo realizza la forma tipica di accesso al mercato che gli è propria entrando in contatto con la singola impresa “professionista”), ma solo che: a) da un lato – tale risarcibilità non si configurerà per il solo fatto – in sé – che, a monete della singola operazione conclusa dal consumatore finale si ponga, dal lato dell’impresa, l’intesa vietata, rendendosi invece necessario che, nel concreto, il rapporto instauratosi fra il consumatore finale e l’impresa si connoti, in tutto o in parte, nello specifico, per i caratteri della (naturalmente, specificamente da comprovare) “antigiuridicità”, per l’avvenuta violazione di uno specifico diritto soggettivo vantato da quest’ultimo; diritto soggettivo il quale, a sua volta e naturalmente, per tutte le considerazioni sopra svolte, non potrà però di certo farsi discendere dal solo fatto in sé della pregressamente intervenuta “intesa vietata”; b) da un altro lato, l’azione risarcitoria eventualmente spettante, rivestirà, per ciò stesso, i caratteri ordinari di un’ordinaria azione di responsabilità soggetta agli ordinari criteri di competenza, e non quelli dell’azione ex articolo 33, secondo comma della legge 287/90, rimessa, in quanto tale, alla cognizione esclusiva della corte di appello in unico grado di merito.
Ciò premesso in linea generale ed astratta, va sottolineato come, nel concreto della specifica fattispecie portata all’esame di questa Corte (e di ciò costituisce riscontro diretto – del resto – la stessa concreta articolazione della domanda formulata dal Laudato, come derivabile dallo stesso contenuto sostanziale dell’atto introduttivo (che questa Corte è chiamata a conoscere direttamente siccome – per i profili della dettata violazione delle norme processuali sulla competenza – può prendere visione diretta degli atti), vada escluso che l’attore stesso abbai inteso, di fatto, davvero attivare il tipo di domanda risarcitoria delineata – appunto – nel secondo comma dell’articolo 33 della legge 287/90, rendendosi essenziali – come già visto – ai fini della configurabilità delle azioni in oggetto: a) una domanda la quale transitando per la valutazione della nullità della singola “intesa vietata” dall’articolo 2 della stessa legge, o dell’avvenuto abuso di posizione dominante previsto dall’articolo 3, tenda a conseguire correlatamene il risarcimento dei danni direttamente derivante secondo quelli che sono i correnti criteri di individuazione del nesso di causalità; b) la deduzione di un profilo di diretta ed immediata incidenza causale della intesa ritenuta vietata o dell’“abuso”, nella produzione del danno lamentato, il quale si deve rendere effetto immediato e diretto della intesa medesima, e non di fenomeni che, pur attenendo alla vita del mercato, si pongano solo a valle, in quanto mediati dal concreto comportamento tenuto dalle singole imprese nella gestione di singoli e specifici rapporti intessuti direttamente con i singoli consumatori; rapporti già presidiati in quanto tali dalla loro logica giuridica interna.
Si dà il caso, infatti, che, nella fattispecie, al di là del tenore testuale di taluni riferimenti contenuti anche nella prima sezione della verbalizzazione di udienza dell’attore del 21 novembre 2000, la deduzione stessa del supposto “accordo di cartello” si riveli, nella sua sostanza, vaga e generica nei contenuti, così come sostanzialmente vaga si riveli la esplicitazione dei termini di diretto riverbero dell’accordo in questione, nella determinazione del concreto livello tariffato conosciuto, nella sua vicenda, dal Laudato; tanto da collocare, nei fatti, l’accordo, in questione sul mero sfondo dell’accaduto, e da concretare piuttosto il nucleo problematico dei termini giuridici della vicenda sul problema della legittimità, o meno – nell’ambito del rapporto contrattuale relativo ad una polizza che (fra l’altro) la stessa Axa precisa essere stata oggetto di “rinnovo” e non di stipula ex novo (e perciò già di per sé presidiata dalle specifiche pattuizioni regolamenti le condizioni di rinnovo alla scadenza) – dell’aumento del premio di polizza praticatogli.
La collocazione dell’aumento di premio, nell’ambito di uno specifico rapporto contrattuale già in atto e fatto oggetto di mero rinnovo fra le parti, toglie, fra l’altro, ulteriore incidenza alla tesi (sviluppata peraltro dalla ricorrente solo in sede di memoria, e comunque di per sé non decisiva), relativa alla configurabilità – nello specifico – della avvenuta e dedotta violazione, non già di un’obbligazione contrattuale, ma di una sorta di più generale (ma non ulteriormente esplicato, ed in ogni caso di portata ben più generale rispetto a quella che si pretendesse di collegare puramente e semplicemente alla posizione del consumatore finale rispetto ai divieti di cui agli articoli 2 e 3 della legge 287/90) diritto assoluto alla libera determinazione dei contenuti del contratto.
Ed infatti risultano da tempo superate (sia in dottrina che in giurisprudenza) quelle prospettive tese a vedere, in termini alternativi ed inconciliabili fra loro, l’esistenza di uno specifico rapporto obbligatorio ed in il caratterizzarsi, in relazione ad esso, anche di forme di responsabilità cosiddetta “extracontrattuale”.
Né va trascurato – sempre in tema di interpretazione della domanda formulata in concreto dal Laudato – come lo stesso attore, se da un lato ha evocato in giudizio l’Isvap (manifestamente estranea ad ogni – per le sue stesse competenze istituzionali – possibile ingerenza in dedotti accordi di cartello), non abbia poi evocato in giudizio le altre società assicuratrici partecipi del dedotto accordo di cartello e formuli – anzi – specifica domanda finale volta a conseguire (nei confronti – ovviamente – della sola Axa) il “rinnovo del contratto in corso”, alle condizioni di prezzo giusto.
Nessuna delle indicate violazioni degli articoli 33 legge 287/90, 5 e 38 Cpc si rende pertanto configurabile nella fattispecie.
Del pari inaccoglibile si rivela il secondo motivo del ricorso, posto che esso, al di là della sua formulazione apparente, genericamente tesa a denunciare un vizio di violazione di legge, si rivela in realtà teso, del tutto inammissibilmente, a provocare, in questa sede di legittimità, null’altro che un sindacato di puro merito circa la valutazione compiuta dal giudice di pace allorché ha ritenuto esauriti, nella fattispecie, gli estremi che identificano i requisiti di compiutezza della domanda; valutazione rimessa al giudice di merito e che si rende del tutto insindacabile in sede di legittimità, ove motivata con percorso logico giuridico immune da vizi logico giuridici. Va, al riguardo, ancora una volta ribadito – tanto più in relazione al giudizio chiamato a svolgersi davanti al giudice di pace, il quale si caratterizza per la riduzione al minimo dei termini di formalizzazione dell’atto introduttivo – come aspetto del tutto distinto rispetto al profilo della compiutezza della domanda si riveli quello della davvero compiuta articolazione di tutti i profili che, in via di mera ipotesi possano condurre, nel concreto, al suo effettivo accoglimento.
Quanto poi al profilo per cui il giudice di pace, nell’ambito della sua pronuncia avrebbe omesso di giustificare perché mai la misura dell’aumento illecito debba intendersi determinabile presuntivamente nel 20%, va da sé che nessuna pronuncia decisiva del merito della controversia il giudice di pace avendo adottato, la doglianza si riveli del tutto inammissibile siccome del tutto esulante dai termini concreti della pronuncia impugnata la quale ha assunto a suo oggetto il mero vaglio delle eccezioni preliminari, lasciando – naturalmente – del tutto impregiudicato l’esito finale della controversia vista nel suo merito.
Il rigetto del ricorso principale rende del tutto assorbito il motivo di ricorso incidentale formulato solo in via gradata e subordinata dall’Isvap; Isvap – del resto – la cui presenza nella presente fase del giudizio è stata provocata (attraverso l’ordine di integrazione del contraddittorio) in ragione di profili di litisconsorzio meramente processuale inerenti al solo profilo della dedotta violazione delle norme sulla competenza, non essendo invece stata fatta oggetto di impugnazione in sé il capo della sentenza relativa all’estromissione dell’Isvap dal giudizio.
Ricorrono giusti motivi per un’integrale compensazione delle spese processuali relative a questa fase del giudizio.
PQM
La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale. Compensa le spese di questa fase del giudizio.