Responsabilità del medico, causalità, operazione chirurgica, onere probatorio
Nel sistema civilistico il nesso di causalità (materiale) – la cui
valutazione in sede civile è diversa da quella penale (ove vale il
criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo
alla “certezza”) – consiste anche nella relazione probabilistica
concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio
(ispirato alla regola della normalità causale) del “più probabile che
non”.
Anche con riferimento alla individuazione del nesso di
causalità fra la condotta omissiva del medico e l’evento dannoso, si è
passati dal criterio della certezza degli effetti della condotta omessa
a quello della probabilità di essi e dell’idoneità della condotta
stessa ad evitarli, ove posta in essere.
Va rilevato che, ove le
nozioni di patologia medica e di medicina legale non forniscano un
grado di certezza assoluta, il ricorso al criterio della probabilità
costituisce una necessità logica in quanto si tratta di accettare o
rifiutare l’assunto secondo il quale il danno si è verificato a causa
del fatto che non è stato tenuto il comportamento atteso.
E’
configurabile il nesso causale fra il comportamento omissivo del medico
ed il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio
necessariamente probabilistico si ritenga che l’opera del medico, se
correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed
apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi.
L’onere
di provare l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e la
condotta del medico, indipendentemente dal grado di difficoltà
dell’intervento medico chirurgico, grava sul danneggiato.
E’
configurabile una responsabilità autonoma e diretta della struttura
ospedaliera ove il danno subito dal paziente risulti causalmente
riconducibile ad una inadempienza alle obbligazioni ad essa facenti
carico, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze.
Una
responsabilità dell’ospedale può configurarsi anche nella insufficienza
delle apparecchiature a disposizione per affrontare la prevedibile
emergenza, ovvero nel ritardo nel trasferimento del paziente in un
centro ospedaliero attrezzato. (1-12)
(1) In tema di farmaco ototossico e responsabilità del medico, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 30.09.2009 n° 20954.
(2) In materia di consenso informato ed intervento di routine, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 29.09.2009 n° 20806.
(3) In tema di responsabilità del medico e leges artis, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 28.09.2009 n° 20790.
(4) In tema di causa e concause nella responsabilità del medico, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 02.09.2009 n° 19092.
(5) In tema di responsabilità civile del medico e causalità, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 10.03.2009 n° 5735.
(6) In tema di responsabilità del medico e consenso, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 30.01.2009 n° 2468.
(7) In materia di consenso del paziente alla prestazione medica sul fronte penale, si veda Cassazione penale, SS.UU., sentenza 21.01.2009 n° 2437.
(8) In materia di responsabilità del medico e trattamento sanitario necessario, si veda Cassazione penale, sez. IV, sentenza 30.09.2008 n° 37077.
(9) Sul complesso tema della responsabilità del medico, si rinvia al Focus La responsabilità del medico: conferme e novità giurisprudenziali.
(10) Sulla responsabilità della struttura sanitaria, si veda Cassazione civile, SS.UU., n. 577/2008.
(11) In materia di consenso incompleto del paziente, si veda Cassazione penale 11335/2008.
(12) Tra le pubblicazioni più recenti, si veda MARSEGLIA, VIOLA, La responsabilità penale e civile del medico, 2007.SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 11 maggio 2009, n. 10743
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con
sentenza 13 febbraio-20 aprile 2004 la Corte d’Appello di Lecce
confermava la decisione del locale Tribunale dell’8 marzo 2002, che
aveva rigettato la domanda di risarcimento danni proposta dai coniugi
C.T. e V.M.D., in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sul
figlio minore C. F.A., per le gravissime lesioni (idrocefalo
postemorragico con encefalopatia lesionale e convulsività) con
conseguente invalidità permanente del 100%, riportate dal figlio, che
gli attori ricollegavano all’intervento ostetrico con taglio cesareo
compiuto dal ginecologo dott. A.M. presso l’Ospedale **** e dalle
successive cure praticate al neonato dal dott. L.G. dello stesso
Ospedale e quindi dal dott. Lo.Ra. dell’Ospedale di **** – reparto
immaturi.Per questo motivo gli attori avevano convenuto in
giudizio i tre sanitari, la USL Lecce **** e Lecce ****, chiedendone la
condanna al pagamento di L. 5.000.000.000 (e quindi di Euro
2,582.284.00) ciascuno, a titolo di responsabilità contrattuale o
extracontrattuale.Nel giudizio erano state chiamate in causa le compagnie di assicurazione dei medici e delle due USL (poi AUSL).
Il
primo giudice aveva stabilito che la gravissima patologia del neonato
era riconducibile alla prematura – ma naturale – interruzione del
periodo di gestazione (****) e non ad un imperito o negligente
comportamento dei sanitari che avevano proceduto al taglio cesareo o
degli altri medici che avevano avuto in cura il neonato nei primissimi
giorni di vita, prima del suo trasferimento ( ****) presso l’Ospedale
****.I giudici di appello, confermando tale decisione,
osservavano che non poteva essere evidenziata alcuna carenza della
terapia prestata alla gestante ed al neonato nei due Ospedali di ****.Anche
il lasso di tempo di cinque ore intercorso tra la rottura spontanea del
sacco amniotico e l’intervento per parto cesareo non era indice di
colpa professionale, considerato che non vi era stata sofferenza fetale
e non poteva, pertanto, ritenersi che il ritardo avesse avuto incidenza
nella causazione delle lesioni.Il consulente tecnico nominato
dall’ufficio aveva precisato che alla condizione di immaturità si
associa notoriamente un elevato rischio di emorragia cerebrale
prenatale, fenomeno che si era appunto verificato nel caso di specie,
causando altresì l’instaurazione di un idrocefalo e di gravissimi danni
cerebrali.Solo dopo due giorni dalla nascita si era manifestata una crisi convulsiva, poi ripetutasi più volte nella giornata.
Anche
il rilievo del consulente tecnico di ufficio – secondo il quale il
parto (in considerazione delle condizioni della gestante, ricoverata in
ospedale fin dal ****, proprio per il rischio di interruzione della
gravidanza) avrebbe potuto più agevolmente avvenire presso un centro
regionale di più alto livello organizzativo – appariva privo di
concreto rilievo causale, posto che ciò non serviva comunque ad
escludere lo sviluppo negativo degli eventi connessi dallo stesso
consulente tecnico di ufficio alla patologia originaria del caso.Quanto
alla condotta del pediatra di **** (dott. L.), il trattamento dallo
stesso praticato era quello realisticamente espletabile nella clinica
di appartenenza, con l’apparato diagnostico di cui egli attualmente
disponeva.Tra l’altro, osservava ancora la Corte territoriale,
un trasferimento immediato del neonato in altro reparto poteva dirsi
sconsigliato proprio per le condizioni instabili dello stesso sotto il
profilo neurologico.Doveva dunque concludersi che per entrambi
i sanitari che avevano avuto in cura il neonato nell’Ospedale nel quale
era avvenuta la nascita – non vi erano elementi che potevano portare a
qualificare la loro condotta come colposa.Quanto ai sanitari
del reparto immaturi dell’Ospedale ****, dove il neonato era stato
trasferito a distanza di circa quaranta giorni dalla nascita, era da
dire che in quell’Ospedale il neonato era stato sottoposto
immediatamente a visita neurochirurgica e nessuno specifico elemento di
colpa era dunque ravvisabile a carico dei medici di quel reparto, che
ne avevano disposto il ricovero all’Ospedale ****.Avverso tale decisione i genitori di C.F.A. hanno proposto ricorso per cassazione sorretto da tre motivi, illustrati da memoria.
Resistono
con controricorso il dott. A., L. e Lo. e le rispettive compagnie di
assicurazione, nonchè la AUSL Lecce **** (già USL Lecce ****) ed il
direttore generale della stessa con la società di assicurazioni UNIPOL.
La AUSL Lecce ****, Assitalia e L. hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2729 e 2697 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
La
Corte territoriale aveva erroneamente posto a carico dei coniugi C.- V.
l’onere della prova in ordine alla esistenza della colpa dei sanitari e
degli enti ospedalieri.Secondo la giurisprudenza di questa
Corte in tema di responsabilità contrattuale dei sanitari e degli enti
ospedalieri, una volta dimostrata la esistenza del contratto e
l’inesatto adempimento della obbligazione sanitaria, resta a carico dei
debitori della prestazione l’onere di provare l’esatto adempimento e
che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento
imprevisto e imprevedibile.Nel caso di specie, il consulente
nominato dall’ufficio aveva accertato che l’Ospedale di **** era privo
di strutture idonee a fronteggiare qualsiasi prevedibile inconveniente
per nascite premature ed era noto ai dirigenti della struttura
sanitaria che la gravidanza della V. presentava un elevato tasso di
rischiosità per complicanze, sia per l’anamnesi positiva per aborto,
sia per la minaccia di aborto presentatasi (che aveva reso necessario
il ricovero fin dal ****, protrattosi poi fino al parto avvenuto tre
mesi dopo), sia per la condizione di fibromatosi uterina, sia, infine,
per la presentazione podalica del feto.Tutte queste circostanze
erano state completamente ignorate dalla Corte territoriale, la quale
si era limitata ad osservare che nella specie non ricorrevano prove di
una responsabilità dei sanitari e degli enti ospedalieri.Il
consulente nominato dall’ufficio – secondo i giudici di appello – aveva
escluso che le terapie prestate alla paziente fossero inidonee o
comunque inadeguate.Esse, infatti, tendevano a prolungare la
durata della gravidanza ed erano dirette ad evitare le complicanze
legate ad una nascita prematura.La responsabilità dei sanitari
e degli enti ospedalieri, osservano tuttavia i ricorrenti, era da
individuare non tanto nella “carenza della terapia” nella fase
prenatale, bensì nell’avere l’ente ospedaliero trattenuto per lungo
tempo la paziente, pur essendo esso privo di tutte le strutture
necessarie per prevenire prevedibili danni al nascituro ed alla stessa
puerpera.Con il secondo motivo i due ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 62, 115, 132, 191 e 194 c.p.c., artt. 1176, 1218, 1223 e 2043 c.c.,
nonchè carente, illogica e contraddittoria motivazione su un punto
decisivo della causa, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.La
Corte territoriale aveva escluso qualsiasi negligenza o imperizia dei
sanitari, tenendo conto solo di alcune delle osservazioni formulate dal
consulente tecnico di ufficio (e trascurandone altre).In
realtà, l’ausiliare del giudice aveva posto in evidenza che “pur non
rilevandosi errore tecnico, qualificabile alla stregua di autentica
imperizia, alcune scelte compiute segnatamente nella fase precedente il
parto appaiono criticabili sotto il profilo della prudenza”.Il Prof. M.L. aveva definito la gravidanza della V. ad “alto rischio”.
Per
questo motivo, aveva rilevato che sarebbe stato più che opportuno
disporre il ricovero della puerpera presso il Centro Regionale di
riferimento competente per territorio, ovvero l’Ospedale regionale ****.I
giudici di appello non avevano poi considerato le gravi omissioni di
una serie di complessi accertamenti diagnostici che, se compiuti dopo
la nascita, avrebbero – con ogni probabilità – ridotto i danni
riportati dal neonato.Con il terzo motivo i due ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 43 c.p. e degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2727 c.c., nonchè motivazione illogica e carente su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
I
sanitari avevano omesso di trasferire la puerpera in un presidio
ospedaliero idoneo, per strutture e mezzi, ad affrontare una eventuale
nascita prematura.Tale condotta, unitamente al ritardo
nell’intervento per il parto cesareo, era da porre in rapporto di causa
ad effetto, con le lesioni gravissime riportate dal neonato.I
giudici di appello avevano escluso il nesso di causalità, ricordando
che il consulente tecnico di ufficio aveva sottolineato che “alla
condizione di prematurità si associano notoriamente un elevato rischio
di emorragia cerebrale perinatale, fenomeno che si è verificato nel
caso di specie, causando altresì l’instaurazione di un idrocefalo e di
gravissimi danni cerebrali”.Tale osservazione, ad avviso dei
ricorrenti, si pone in insanabile contrasto con le conclusioni – cui
pure era pervenuto il consulente di ufficio – secondo le quali non era
possibile affermare che “detti elementi siano da considerare
indifferenti nel configurare lo stato invalidante nella sua forma
gravissima e irreversibile di oggi”.Nessuna prova era stata
fornita dai sanitari degli enti ospedalieri in ordine alla prudenza e
diligenza ed idoneità dei mezzi e tempestività degli interventi
adottati.Osserva il Collegio:
i tre motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, sono fondati nei limiti di seguito indicati.
1.
La Corte territoriale ha escluso qualsiasi rilevanza alla osservazione
del consulente tecnico “secondo cui il parto anzichè in una struttura
ospedaliera – solo in parte attrezzata allo scopo – avrebbe potuto
avvenire presso un centro regionale di più alto livello organizzativo”
per la ragione che “ciò non serve ad escludere lo sviluppo negativo
degli eventi connessi dallo stesso c.t.u. alla patologia originaria del
caso da trattare”.In tal modo, ad avviso del Collegio, la
motivazione della sentenza impugnata finisce per adottare un criterio
para-penalistico, che esige una condizione di certezza “oltre il
ragionevole dubbio” in applicazione del principio di causalità proprio
di quella materia.Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra
omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo
coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla
stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicchè esso è
configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta
l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di
decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità
razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca
significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. (Cass.
S.U., 10 luglio 2002, n. 30328, imp. Franzese).Nel
sistema civilistico, invece, il nesso di causalità (materiale) – la cui
valutazione in sede civile è diversa da quella penale (ove vale il
criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo
alla “certezza”) – consiste anche nella relazione probabilistica
concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio
(ispirato alla regola della normalità causale) del “più probabile che
non” (Cass. 16 ottobre 2007 n. 21619, Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n.
576, Cass. 17 gennaio 2008 n. 867).Anche con riferimento
alla individuazione del nesso di causalità fra la condotta omissiva del
medico e l’evento dannoso, la giurisprudenza di questa Corte ha
superato la concezione tradizionale, passando dal criterio della
certezza degli effetti della condotta omessa a quello della probabilità
di essi e dell’idoneità della condotta stessa ad evitarli, ove posta in
essere.Va rilevato che, ove le nozioni di patologia
medica e di medicina legale non forniscano un grado di certezza
assoluta, il ricorso al criterio della probabilità costituisce una
necessità logica in quanto si tratta di accettare o rifiutare l’assunto
secondo il quale il danno si è verificato a causa del fatto che non è
stato tenuto il comportamento atteso.2. In tema di
responsabilità civile, dunque, il giudice del merito deve accertare
separatamente dapprima la sussistenza del nesso causale tra la condotta
illecita e l’evento di danno, e quindi valutare se quella condotta
abbia avuto o meno natura colposa o dolosa (Cass. 26 giugno 2007 n.
14759).In altre parole, solo dopo aver riscontrato l’esistenza di un nesso eziologico deve essere affrontato il tema della esistenza della colpa e dell’onere della prova.
Va
anche in questa sede ribadito che è configurabile il nesso causale fra
il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal
paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico
si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente
prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il
danno verificatosi (Cass. 4 marzo. 2004, n. 4400; Cass. 23 settembre
2004, n. 19133; Cass. 11 novembre 2005, n. 22894; Cass. 21 gennaio
2000, n. 632).Erratamente, al riguardo, i due ricorrenti si
richiamano alla presunzione di colpa lieve, posta a carico del
prestatore d’opera, la quale attiene al profilo soggettivo della
condotta, ed è destinata ad operare solo dopo che sia stato accertato
il nesso causale tra la condotta stessa e l’evento, e dunque, su un
piano diverso e non confondibile.Secondo i principi generali di cui all’art. 2697 c.c.,
l’onere di provare l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e
la condotta del medico, indipendentemente dal grado di difficoltà
dell’intervento medico chirurgico, grava sul danneggiato (Cass. 23
febbraio 2000, n. 2044; Cass. 18 aprile 2005, n. 7997).3. Nel
caso di specie, il consulente tecnico nominato dal primo giudice ha
affermato che la gravidanza della V. presentava un elevato tasso di
rischiosità per complicanze, sia per l’anamnesi positiva per un
precedente aborto, sia per la minaccia di aborto manifestatasi (che
aveva reso necessario il ricovero fin dal ****), sia per la condizione
di fibromatosi uterina.A questa condizione di rischio
preesistente, si era aggiunta la presentazione podalica, ulteriore
elemento sfavorevole che aveva reso obbligatorio il taglio cesareo.Per
tali tipologie di gravidanza, i protocolli di condotta e la buona
prassi medica invitano con chiarezza (ed invitavano già sin dall’anno
****) a non ricoverare le pazienti presso ospedali periferici, ma ad
indirizzarli opportunamente al centro regionale di riferimento
competente per territorio (che nel caso di specie avrebbe dovuto essere
l’Ospedale di ****).“La gestione di un parto che si manifestava
“ab initio” come prevedibilmente complesso – ha osservato il c.t.u. –
certamente avrebbe potuto essere meglio affrontata in un ospedale
dotato – per esempio – di una terapia intensiva neonatale”.In
altre parole, ad avviso dell’ausiliare del giudice, nessun addebito
poteva essere mosso al ginecologo ed ai due pediatri che avevano
seguito puerpera e neonato negli Ospedali di ****: questi, infatti,
avevano praticato tutta l’assistenza possibile con la struttura ed i
mezzi a loro disposizione.La divisione pediatrica non disponeva
di una terapia intensiva per immaturi e neppure di tutto l’apparato di
diagnostica per immagini, atto a meglio monitorare la evoluzione
dell’emorragia cerebrale.Il trasferimento del neonato ad altro
Ospedale, subito dopo la nascita, sotto altro profilo era decisamente
sconsigliato a causa delle condizioni instabili del neonato sotto il
profilo neurologico.Il consulente tecnico nominato dall’ufficio
ha sottoposto ad attenta indagine la condotta dei detti sanitari allo
scopo di verificare se la stessa fosse stata improntata alle regole di
buona prassi medica e se vi fossero state eventuali carenze tali da
giocare un qualche ruolo nel determinismo del gravissimo stato
invalidante del quale il C. è irreversibilmente portatore.La risposta a tale quesito è stata in tutto favorevole ai tre sanitari.
4.
Per costante giurisprudenza (ex plurimis, Cass. 6 marzo 1997 n. 2009),
l’accertamento del nesso di causalità è riservato al giudice del
merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se
esso sia sorretto (come nel caso di specie) da motivazione congrua ed
immune da vizi.Pertanto, infondate sono le censure formulate dai ricorrenti con riferimento alle condotte imputate ai medici ospedalieri.
A
diverse conclusioni, tuttavia, deve giungersi con riferimento alla AUSL
Lecce **** e al direttore generale della stessa anche in qualità di
commissario liquidatore della soppressa USL Lecce ****.Infatti,
secondo i rilievi dello stesso consulente tecnico di ufficio, deve
darsi per acquisito che il decorso e la terapia – durante tutto il
ricovero ospedaliero – fossero corrette, ma da essi si trae la
considerazione di un prevedibile parto “a rischio” il che non è certo
indifferente ai fini del giudizio di esattezza delle scelte
successivamente operate (il ricovero della V. era stato disposto sin
dal ****, quindi tre mesi prima del parto).Il consulente
nominato dall’ufficio ha fatto esplicito riferimento a scelte nella
fase precedente il parto “criticabili sotto il profilo della prudenza”
con la precisazione che sarebbe stato quanto mai opportuno il ricovero
presso una struttura diversa e meglio attrezzata per la situazione
(nell’Ospedale di **** non vi era il reparto di terapia intensiva per
il reparto immaturi, neppure la diagnostica per immagini tanto che si
era fatto ricorso ad una struttura esterna).A monte vi era la
prematurità, con tutti i rischi ad essa connessi, ma il nucleo della
controversia sta nella previsione e gestione di un parto prematuro ed a
rischio, come elemento di concausa aggravatrice delle lesioni
gravissime e della invalidità conseguente riportate in occasione della
nascita prematura.Di tali rilievi del consulente tecnico di
ufficio, la sentenza impugnata non risulta aver tenuto conto (con
riferimento alla posizione della AUSL Lecce **** e del direttore
generale della stessa), trascurandone la possibile incidenza causale
sulla patologia poi riscontrata.Del tutto priva di motivazione
appare la osservazione conclusiva della Corte territoriale secondo la
quale “l’osservazione del predetto consulente, secondo cui il parto
anzichè in una struttura ospedaliera solo in parte attrezzata allo
scopo, avrebbe potuto avvenire presso un centro regionale di più alto
livello organizzativo, appare priva di concreto rilievo causale, posto
che ciò non serve ad escludere lo sviluppo negativo degli eventi
connessi dallo stesso c.t.u. alla patologia originaria del caso da trattare” (p. 12 sentenza impugnata).E’
appena il caso di osservare che il rigetto della domanda di
risarcimento nei confronti di un medico non è sufficiente ad escludere
la responsabilità del presidio ospedaliere.E’ infatti
pur sempre configurabile una responsabilità autonoma e diretta della
struttura ospedaliera ove il danno subito dal paziente risulti
causalmente riconducibile ad una inadempienza alle obbligazioni ad essa
facenti carico, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze
(Cass. 1 luglio 2002 n. 9556, 14 luglio 2004 n. 13066, v. anche Cass.
28 novembre 2007 n. 24759).Una responsabilità
dell’ospedale può configurarsi anche nella insufficienza delle
apparecchiature a disposizione per affrontare la prevedibile emergenza,
ovvero nel ritardo nel trasferimento del paziente in un centro
ospedaliero attrezzato.Sotto tale profilo, la motivazione
della sentenza impugnata è del tutto carente non avendo esaminato la
presumibile (probabile) qualità del trattamento più efficace, sotto il
profilo della precocità diagnostica e tempestività delle scelte
terapeutiche, a fronte della prevedibile emergenza neonatale, poi
effettivamente manifestatasi (p. 14 del ricorso).Conclusivamente
il ricorso deve essere accolto nei confronti della AUSL Lecce **** e
del direttore generale della stessa, nella qualità di commissario
liquidatore della soppressa USL Lecce **** e delle rispettive compagnie
di assicurazione, UNIPOL ed ASSITALIA. Il giudice di rinvio dovrà
procedere a nuovo esame, provvedendo anche in ordine alle spese del
presente giudizio.Il ricorso è rigettato invece nei confronti
dei tre sanitari, A.M., L.G. e Lo.Ra. e delle rispettive compagnie di
assicurazione (con integrale compensazione della spese, in
considerazione della complessità delle questioni trattate).P.Q.M.
La
Corte accoglie il ricorso nei confronti del Direttore Generale della
AUSL Lecce **** e della stessa AUSL Lecce **** e delle rispettive
compagnie di assicurazione, ASSITALIA e UNIPOL. Rigetta il ricorso nei
confronti degli altri intimati (compensando le spese tra questi e le
altre parti).Cassa e rinvia anche per le spese nei
confronti delle parti per le quali il giudizio prosegue – alla Corte di
Appello di Potenza.Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 febbraio 2009.
Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2009.