Responsabilità del medico, posizione apicale, primario, decorso post operatorio
Il primario ospedaliero non può addurre a discolpa che al reparto sono assegnati altri medici o che il suo intervento è dovuto solo in casi di particolari difficoltà o di complicazioni; ciò perché il medico appartenente alla posizione apicale ha il potere di impartire istruzioni e direttive in ordine alle cure e di verificarne l’attuazione.
Peraltro, se è vero che gli obblighi di garanzia connessi all’esercizio della professione sanitaria possono essere delegati, con conseguente esclusione della responsabilità del titolare originario della posizione di garanzia, è però necessario che:
il delegato sia persona capace e competente nel settore;
il delegante tenga sempre conto della peculiarità del caso in esame, dell’eventuale carattere di urgenza che lo stesso presenta e della gravità dello stato di salute del paziente.
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 12 febbraio – 1 giugno 2010, n. 20584
Con sentenza del 15/2/2006 il Tribunale in composizione monocratica di Lecce ha dichiarato T. G., C. C., C. M. e D. L. colpevoli del reato di cui all’art. 589 cp in pregiudizio di D. F. R. e, concesse le attenuanti generiche, li ha condannati alla pena di anni uno, mesi sei di reclusione ciascuno, nonché, in solido tra loro e con il responsabile civile Azienda Ospedaliera Vito Fazzi, al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili, al pagamento di provvisionali alle stesse ed alla rifusione delle spese dalle parti medesime sostenute.
Il Tribunale ha pure assolto per non avere commesso il fatto M. F. dal reato ex art. 589 cp ascritto al T. ed agli altri coimputati.
A seguito di impugnazioni dei prevenuti e del responsabile civile nonché di gravame del Pubblico Ministero il quale si è doluto dell’assoluzione del M., la Corte di Appello di Lecce in data 10/12/2008 ha confermato la sentenza di primo grado.
La vicenda in cui il T., il C., la C. e la D. erano rimasti coinvolti è stata così ricostruita dai giudici del merito.
Il D. il 17/1/2001 era stato sottoposto presso la Divisione di Chirurgia Maxillo Facciale dell’Ospedale Vito Fazzi di Lecce ad intervento chirurgico per disarmonia dentoscheletrica dei mascellari con asimmetria mandibolare.
L’intervento era stato eseguito da un’equipe operatoria a capo della quale era il Dr. T., Primario del reparto di chirurgia maxillo facciale, e di cui faceva parte il C. quale terzo chirurgo. Dopo l’intervento, conclusosi intorno alle ore 13, si era verificata intorno alle ore 14 una emorragia. Il paziente era stato visitato dal Dr. S. M. (assolto dal Tribunale per non avere commesso il fatto) il quale, dopo avere consultato i colleghi M., C. e T. che avevano eseguito l’intervento, aveva disposto la somministrazione di due fiale di Tranex, un antiemorragico a seguito della quale era cessata la perdita ematica, peraltro definita di lieve entità. Il D. poi era stato visitato per due volte, intorno alle ore 15 e verso le ore 16,40, dal Dr. C. che aveva prescritto in quest’ultima occasione l’emocromo ed era andato via senza rilevare alcun sintomo che potesse fare ritenere a rischio il decorso postoperatorio. Il giovane, invece, secondo quanto riferito dai genitori, aveva subito lamentato difficoltà respiratorie; inoltre, già nel pomeriggio del 17 gennaio, presentava un rigonfiamento del viso e del collo. Alle ore 5 del 18/1/2001, quando nel reparto prestavano servizio le infermiere professionali C. e D., si accertava un aggravamento delle condizioni del giovane, essendosi presentata una insufficienza respiratoria acuta, tanto che era stato chiamato il medico rianimatore, la Dr. Mastria, ed il medico reperibile. Nonostante i tentativi fatti alle ore 6,15 il D. moriva. Il decesso era avvenuto per insufficienza respiratoria progressiva. La causa della morte era da ricercare nell’infarcimento emorragico dei tessuti molli della lingua della mucosa orale e dell’orofaringe nonché dei tessuti molli adiposi ghiandolari e muscolari del pavimento buccale. La emorragia, che era da ritenere causata dalla lesione di un vaso sanguigno, aveva provocato un aumento di volume progressivo del pavimento orale e della lingua ed il loro sollevamento contro la parte posteriore della faringe con conseguente obliterazione dello spazio aereo orale ed orofaringeo.
Hanno proposto ricorso per cassazione, per mezzo dei loro difensori di fiducia, i prevenuti dolendosi della decisione adottata.
Motivi della decisione
I gravami vanno dichiarati inammissibili.
Quanto al T., questi ha innanzitutto mosso doglianza perché non sarebbero stati esaminati i contenuti di una memoria difensiva connotata dall’indicazione del numero, circa 200 interventi operatori effettuati nel reparto di cui era primario, che avevano comportato l’applicazione ai pazienti del bloccaggio intermascellare. Ne derivava che la gestione del decorso post operatorio del D. era del tutto analoga a quella già affrontata numerose volte dal personale infermieristico, da ritenersi dunque competente e preparato. Inoltre, per il T., la responsabilità andrebbe individuata a carico della D.ssa Mastria, medico rianimatore dell’Ospedale. per non avere effettuato un intervento più adeguato e tempestivo ed, in specie, una tracheotomia che avrebbe salvato la vita al paziente. Al riguardo, si osserva che le memorie che sono volte a dimostrare le opinioni e le ragioni della difesa devono essere semplicemente valutate senza necessità di specifica delibazione. Vi è dunque un generale obbligo del giudice di tenerne conto nell’apprezzamento da compiere ai fini della decisione di merito. Ciò è avvenuto nella specie in cui il collegio non era tenuto a compiere un’analisi formale degli atti di parte ma ha provveduto ad una valutazione globale di deduzioni difensive e di risultanze processuali nel contesto delle quali è del tutto evidente che siano ricomprese anche quelle sopra dette che attengono al tentativo del T. di escludere ogni propria responsabilità, assumendo che essa andava fatta ricadere su infermieri e su altri medici. La corte del merito ha spiegato in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento espresso, dimostrando di avere tenuto presente ogni fatto decisivo. Devono, pertanto, ritenersi implicitamente superate dalla decisione impugnata le deduzioni difensive che, anche se non espressamente esaminate, sono state logicamente delibate, come per l’appunto verificatosi nel caso di specie.
Il T. con il ricorso ha poi evidenziato la contraddittorietà della sentenza impugnata laddove si afferma nello stesso tempo il profilo di colpa individuato a suo carico e quello addebitato alle due infermiere, ritenute colpevoli di non avere fatto ciò che la loro qualifica e preparazione imponeva di fare in favore della vittima. Nella fattispecie, sarebbe evidente una responsabilità esclusiva delle due infermiere professionali D. e C., del tutto in grado di prestare l’assistenza post operatoria necessaria ad un paziente sottoposto ad un intervento come quello praticato nei confronti del D.. Nessuna responsabilità sarebbe a carico del T. per il ritardo con il quale le due infermiere avevano percepito il peggioramento delle condizioni della vittima, omettendo di avvisare il medico reperibile. Il T. ha poi sostenuto che, nonostante fosse il capo equipe ed il primario del reparto ove l’intervento era stato eseguito, egli era solo tenuto ad effettuare un controllo iniziale ed a ripetere lo stesso, in seguito, ad intervalli di tempo, il che sarebbe accaduto nel caso in esame. Egli, pertanto, avrebbe assolto a tutti gli obblighi gravanti sicché null’altro gli poteva essere richiesto nella sua posizione di primario, non certo la presenza costante nel reparto.
Secondo quanto sostenuto, quindi, la posizione di garanzia del T. sarebbe stata trasferita sul coimputato Dr. C. e sulle due infermiere C. e D..
Al riguardo, va osservato che la decisione impugnata ha sottolineato il dato dell’assoluta prevedibilità della rottura di un vaso sanguigno conseguente ad un intervento del tipo di quello effettuato ed il dato della conseguente emorragia che rendeva indispensabile “sbloccare il paziente”, tentare di intubarlo ed effettuare una tracheotomia.
Secondo i giudici, una volta conclusa l’operazione, si erano manifestate circostanze che palesavano possibili complicanze, tali da escludere l’assoluta normalità del decorso post operatorio. A avviso del collegio, la vittima, già dopo l’intervento, aveva avuto difficoltà respiratorie ed i non allarmanti valori dell’emocromo e l’arrestarsi della prima emorragia non erano idonei ad escludere un sanguinamento interno con un progressivo infarcimento dei tessuti del cavo orale con eventuale edema della lingua. Tali conclusioni trovano fondamento nelle affermazioni contenute nella relazione dei periti Cortellazzi Borrelli, nominati dal GIP, alle quali rimanda il complesso motivazionale della sentenza del Tribunale e quello della decisone di secondo grado che si integrano, formando un tutto inscindibile. Secondo gli esperti citati, l’episodio di sanguinamento, sia pure giudicato di lieve entità, avvenuto nell’immediato post operatorio, avrebbe dovuto allertare i sanitari incaricati del reparto quale spia di un possibile sanguinamento anche interno. Inoltre, l’emorragia non era stata riconosciuta ed arrestata e la situazione critica era stata sottovalutata. Ciò nonostante il dato pacifico (cfr. sentenza Trib.) della continua aspirazione di sangue dalla cavità orale del malato sia nella serata che durante la notte e le difficoltà respiratorie dello stesso attribuite invece ad uno stato di agitazione. In tale situazione, trovano applicazione i principi di diritto affermati da questa corte di legittimità secondo cui, in tema di responsabilità professionale del medico, il capo dell’equipe operatoria è titolare di un’ampia posizione di garanzia nei confronti del paziente che si estende alla fase dell’assistenza post operatoria che il chirurgo ha il dovere di controllare e seguire direttamente anche attraverso interposta persona (Sez. 4, Sent. n. 9739 dell’1/12/2004 Ud, Rv 230820 che ha ritenuto il capo equipe, primario chirurgo, insieme agli altri operatori sanitari imputati, responsabile del decesso successivo all’intervento chirurgico proprio in quanto, nella sua qualità, avrebbe dovuto assicurarsi che la vittima fosse adeguatamente assistita dopo l’operazione non solo da personale idoneo e presente in numero adeguato ma anche da personale cui egli avrebbe dovuto anche fornire tutte le indicazioni terapeutiche necessarie). Tale insegnamento è stato ripreso ribadendo che la posizione di garanzia dell’equipe chirurgica nei confronti del paziente non si esaurisce con l’intervento ma riguarda anche la fase post operatoria, gravando sui sanitari un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato (Sez. 4, Sent. n. 12275 dell’8/2/2005 Ud, Rv 231321). Alla luce di tali principi, corretta è la decisione impugnata quanto alla conferma della responsabilità del Dr. T. sul quale, nella qualità di primario capo dell’equipe chirurgica, incombeva il dovere di tenere anch’egli sotto diretto controllo il decorso post operatorio del paziente, in presenza di un intervento comunque delicato, e di vigilare affinché il personale medico e paramedico del turno controllasse in maniera compiuta i parametri vitali della vittima. Il T. doveva impartire disposizioni al personale medico o paramedico cui il D. veniva affidato in ordine alla gestione post operatoria. E nella violazione di tali doveri, concretanti la posizione di garanzia del T., si fonda la responsabilità del detto imputato. Questi, concluso l’intervento, nel trasferire a terzi la sua posizione di garanzia, non aveva curato di fornire le necessarie indicazioni terapeutiche in ordine al paziente appena operato né si era preoccupato di seguire direttamente il decorso post operatorio, limitandosi a sporadici contatti a distanza sicché il D., lasciato ad un personale paramedico rivelatosi negligente ed assente, si era spento progressivamente fino ad una condizione di irreversibilità. Né può farsi questione di principio di affidamento in quanto, secondo l’insegnamento di questa corte (cfr. Sez. 4, Sent. n. 1126 del 7/12/1999 Ud, Rv 215660), il primario ospedaliero non può addurre a discolpa che al reparto sono assegnati altri medici o che il suo intervento è dovuto solo in casi di particolari difficoltà o di complicazioni, come assume il ricorrente, e ciò perché il medico appartenente alla posizione apicale ha il potere di impartire istruzioni e direttive in ordine alle cure e di verificarne l’attuazione. E, per l’appunto, i giudici di merito muovono al Dr. T. il rimprovero di non avere tenuto il comportamento collegato alla posizione di garanzia che gli era propria, in vista della fase post operatoria, trasferendo tale posizione a personale paramedico svelatosi, indipendentemente dalla competenza posseduta, non in grado di fare fonte all’assistenza dei pazienti appena sottoposti ad interventi di chirurgia e ad un medico reperibile solo dietro chiamata. Peraltro, se è vero che gli obblighi di garanzia connessi all’esercizio della professione sanitaria possono essere delegati, con conseguente esclusione della responsabilità del titolare originario della posizione di garanzia, è però necessario perché ciò avvenga non solo che il delegato sia persona capace e competente nel settore ma anche che il delegante tenga sempre conto della peculiarità del caso in esame, dell’eventuale carattere di urgenza che lo stesso presenta e della gravità dello stato di salute del paziente (Sez. 4, Sent. n. 39609 del 28/6/2007 Ud, Rv 237832).
Sotto tale profilo, la motivazione della sentenza si è soffermata sull’assenza di assistenza e di controllo del malato, pur in presenza di numerose segnalazioni di dati allarmanti sul decorso post operatorio da parte dei familiari del D.. Tali successive e gravi omissioni, specificamente imputabili alla C. ed alla D., non possono scusare la condotta omissiva del T. in quanto chi versa in colpa non può invocare a propria scusante la condotta colposa altrui. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti ex lege portatori di una posizione di garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex artt. 2 e 32 Costituzione, nei confronti dei pazienti la cui salute essi devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità (Sez. 4, Sent. 9638 del 2/3/2000 Ud, Rv 217477; Sez. 4, Sent. n. 33619 del 12/7/2006 Ud, Rv 234971; Sez. 4, Sent. n. 24036 del 2/3/2004 Ud, Rv 228577).
Quanto alla posizione delle due infermiere C. e D., questa ultima con il ricorso ha prospettato che nessun rimprovero poteva essere mosso a lei ed alla coimputata perché il gonfiore del viso e del collo del D., ritenuto sintomo del decorso post operatorio irregolare, era manifesto fin dai momenti immediatamente successivi all’intervento chirurgico ed era stato rilevato anche dai medici che avevano visitato la vittima nel pomeriggio. Sarebbe, perciò, intrinsecamente contraddittoria la sentenza impugnata nell’attribuire la responsabilità alle infermiere che non avrebbero dato adeguata importanza al gonfiore del viso e del collo, sintomatico di una progressiva riduzione delle vie respiratorie. In tale modo, i giudici avrebbero attribuito alle infermiere una competenza diagnostica che era invece da escludere. Inoltre, secondo le consulenze mediche di parte, il gonfiore del viso e del collo non sarebbe stato sintomatico dell’emorragia interna responsabile dell’edema della lingua e della conseguente ostruzione delle vie respiratorie ma sarebbe consistito in una normale tumefazione tipica ed ordinariamente presente in interventi invasivi della bocca, come quello cui era stato sottoposto il D., dunque in un sintomo aspecifico ed equivoco, tale da escludere il nesso causale tra le condotte omissive ascritte alle ricorrenti e l’evento morte. Incerto, inoltre, sarebbe stato anche il momento nel quale la generica difficoltà respiratoria del D. che aveva caratterizzato l’intero decorso post operatorio si era trasformata in una vera e propria crisi respiratoria, tale da portare a morte il giovane nel volgere di pochi minuti con la conseguenza che tale lacuna della decisione impugnata renderebbe impossibile individuare una responsabilità delle due infermiere.
Quanto alla ricorrente C., si sostiene che la stessa non sarebbe responsabile perché nessuna disposizione era stata a lei impartita nel registro infermieristico né per le vie brevi dal personale medico.
In ordine alle doglianze delle due imputate, va osservato che i giudici non hanno posto a carico delle stesse una non esigibile competenza medica. La responsabilità della D. e della C. è stata individuata nella negligenza nel compimento di quanto rientrava nella specifica competenza infermieristica. Infatti, a fronte delle reiterate richieste di intervento della madre del D., in presenza di evidenti difficoltà respiratorie che avrebbero dovuto indurre entrambe le imputate a ricorrere alle altrui competenze, le stesse hanno assunto un atteggiamento distratto, manifestando fastidio per le continue richieste di intervento ed, infine, sono state negligenti nell’informare il personale medico della reale situazione in atto. La D. e la C. non hanno dato adeguato valore al gonfiore del viso e del collo del D., divenuto di dimensioni tali da necessariamente richiamare la loro attenzione, tenuto conto che erano in possesso di sufficienti cognizioni tecniche per comprendere la gravità della situazione. L’anomalo gonfiore avrebbe dovuto indurle a informare subito il medico reperibile, senza attendere ulteriormente. D. F. è morto anche perché le due infermiere non hanno raccolto le preoccupazioni reiteratamente espresse dai familiari del giovane nell’attesa che qualcuno comprendesse il grave evolversi della situazione.
Come si vede, i giudici del merito con le argomentazioni svolte hanno compiuto una corretta individuazione dei profili di colpa ravvisabili a carico del T., della D. e della C. ritenendo che sia il primo che le altre avessero inserito nella eziologia del fatto una condotta che, per la parte relativa, aveva costituito utile elemento ai fini della determinazione dell’evento. Né è possibile, a fronte della ricostruzione storica della vicenda processuale, una rivisitazione del giudizio di fatto espresso che non si presta a censure in ordine all’apparato argomentativo che giustifica la decisione. Ogni altra alternativa lettura degli elementi probatori valutati ovvero non apprezzati perché implicitamente ritenuti non meritevoli di rilievo non può costituire motivo di impugnazione in sede di legittimità.
Manifestamente infondate sono pure le doglianze del T. e della D. in ordine al trattamento sanzionatorio. I giudici hanno dato conto delle ragioni per le quali la pena base andava individuata in misura superiore al minimo edittale, avendo chiarito che la sanzione era il frutto di una valutazione complessiva degli elementi tutti indicati dall’art. 133 cp ed, in particolare, di quello concernente la gravità del reato desunta dal grado della colpa ravvisabile nel comportamento rispettivamente tenuto e dalle modalità della condotta posta in essere, essendone derivata la morte di un giovane di 19 anni. È stata, quindi, data congrua giustificazione dell’esercizio del potere discrezionale in ordine alla determinazione della pena.
Quanto al ricorso del C., questi era responsabile nella sua qualità di chirurgo che aveva fatto parte dell’equipe e di medico reperibile nella notte tra il 17 e il 18 gennaio. Il prevenuto, in precedenza, aveva visitato due volte il D. limitandosi a controllare l’emorragia ed a verificare la frequenza cardiaca senza rilevare e considerare il significativo rigonfiamento del viso. Egli, però, non poteva ignorare che una complicanza frequente dell’intervento in questione era rappresentata dall’edema della lingua e dei tessuti molli del cavo orale. Pertanto, si doveva rappresentare l’eventualità di una difficoltà respiratoria che poteva in via progressiva occludere le vie respiratorie. Al ricorrente, in sostanza è addebitata l’assenza di controllo quale componente dell’equipe chirurgica, come tale investito della verifica del decorso post operatorio, verifica effettuata optando per una valutazione diagnostica del tutto imperita. Né il ricorrente può rimettere in discussione in sede di ricorso tale valutazione con prospettazioni in fatto, rimanendo la circostanza oggettiva che era comunque intervenuto presso il D., anche se fuori dall’orario di reperibilità. Il C., una volta deciso di operare una verifica del suo stesso operato chirurgico, attesa la posizione di garanzia specifica che egli, come medico, aveva nei confronti dei pazienti a lui affidati, non può certo fare riferimento ad obblighi di orario su di lui gravanti. Il ricorrente è poi responsabile come medico di turno nella notte tra il 17 ed il 18 gennaio. Egli si era limitato, nel corso delle sue visite pregresse, alla gestione ordinaria del fenomeno emorragico e, come sopra detto, alla sola rilevazione della frequenza cardiaca, omettendo di soffermarsi sull’edema della lingua e dei tessuti molli del cavo orale, una delle complicazioni più frequenti di quel tipo di intervento e, dunque, successivamente astenendosi, durante l’orario notturno, dal prevedere qualsivoglia intervento. Sul C., che era di turno durante la notte, gravava l’obbligo di previa verifica e di informazione quanto meno delle situazioni di emergenza esistenti al momento della sua assunzione di responsabilità e di garanzia e certamente tale era la situazione del D. per la delicatezza del subito intervento e per la necessità di essere seguito con attenzione nella fase post operatoria. Né può scusare il C. il fatto che le infermiere non avevano richiesto durante la notte il suo intervento. Era dovere e scrupolo del C., che era il medico reperibile per un tempo lungo, di prendere immediata visione delle specifiche situazioni dei malati, a partire da quelle più delicate, assicurandosi della corretta instaurazione delle terapie prescritte o ritenute necessarie, seguendo di persona l’evolversi della situazione fino al cessare della condizione di rischio.
Segue, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e di ciascuno al versamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma di euro 500,00 a titolo di sanzione pecuniaria. I ricorrenti vanno altresì condannati, in solido, alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite, liquidate in euro 2500,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i riC. e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di euro 500,00 a favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite e liquida le stesse in euro 2500,00, oltre accessori come per legge.