Riammesso in servizio il lavoratore che si è licenziato in un momento di confusione mentale
Il sonno della ragione crea danni a volte riparabili. Il lavoratore si
licenzia con un gesto inconsulto, ma ottiene la riammissione in
servizio provando di aver dato le dimissioni in un momento in cui era
incapace di intendere e volere. Il diritto agli arretrati sulla
retribuzione, però, scatta dalla data del ricorso giudiziario e non
dall’offerta della prestazione lavorativa. È quanto emerge dalla
sentenza 8886/10, emessa dalla sezione lavoro della Cassazione. Le
dimissioni possono essere annullate anche se l’incapacità risulta solo
temporanea: chi chiede l’annullamento dell’atto ex articolo 428 Cc deve
provare di averlo compiuto in uno stato di incapacità naturale e di
avere subito un grave danno. Il medico legale, nella specie, conferma
le tesi del lavoratore, soggetto a stati passeggeri di confusione
mentale di fronte a sollecitazioni emotive: l’atto è annullato per
vizio della volontà senza che il dimissionario dimostri la malafede del
datore che accettò le dimissioni. E’ stato accolto, contro le
conclusioni del pm, un motivo di ricorso del datore. Resta da capire
perché sbagli il giudice del merito a riconoscere gli arretrati dalla
data in cui il dipendente offrì di nuovo le sue prestazioni
all’azienda. L’annullamento di un negozio giuridico ha effetto
retroattivo, ma la retribuzione presuppone lo svolgimento della
prestazione: il pagamento della prima in assenza della seconda deve
essere previsto in modo esplicito dalla legge ome nel caso di malattia
o licenziamento illegittimo. La sentenza 8886/10, comunque, si discosta
dall’orientamento secondo cui il diritto agli arretrati decorre dalla
data della sentenza che dichiara legittimo il ritiro delle dimissioni :
la durata del processo non deve mai penalizzare la parte vincitrice.
Causa decisa nel merito: gli arretrati saranno versati a partire dalla
domanda giudiziale di annullamento delle dimissioni.