Ridusse stipendi minacciando licenziamenti: condannato
Può essere condannato per estorsione il datore di lavoro che minaccia i
suoi dipendenti di licenziarli se si rifiutano di ricevere una
retribuzione mensile inferiore a quella pattuita. La Cassazione ha
confermato la condanna a due anni e 4 mesi di reclusione e al pagamento
di una multa di un milione di vecchie lire, inflitta ad un imprenditore
sardo dalla Corte d’appello di Cagliari. L’uomo, secondo l’accusa,
aveva minacciato licenziamenti ai dipendenti della sua azienda se non
avessero accettato di percepire una paga inferiore ai minimi sindacali.
L’imputato si era rivolto alla Suprema Corte, ma i giudici (sentenza
48868/09) hanno dichiarato inammissibile il suo ricorso: «integra il
delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che
approfittando della situazione del marcato di lavoro a lui favorevole
per la prevalenza dll’offerta sulla domanda costringa i lavoratori con
la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di
trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni
effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle
leggi ed ai contratti collettivi». Un «accordo contrattuale tra datore
di lavoro e dipendente, nel senso del’accettazione da parte di
quest’ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o
non parametrata alle effettive ore lavorative non esclude di per sè la
sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia», in
quanto «anche uno strumento teoricamente legittimo – osserva la
Cassazione – può essere usato per scopi diversi da quelli per cui
èapprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una
minaccia ingiusta, perchè ingiusto è il fine a cui tende e idonea a
condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad
assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per
le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche
di un particolare settore di impiego della manodopera».