S.U. 26724/07 E 26617/2007: IL PERCORSO EVOLUTIVO PERCORSO DAGLI OBBLIGHI COMPORTAMENTALI FRA RISOLUZIONE E NULLITA’ VIRTUALE.
Dopo più di trent’anni dall’affermazione di Rodolfo Sacco secondo cui “la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buna fede nella formazione del contratto è l’invalidità del prodotto lesivo” (Sacco, Il contratto, Torino, 1975, 669 ss.) la questione della patologia del contratto per inosservanza di regole di comportamento, è giunta alle S.U. (Cass, I sez.civ, ord. 16.02.07, n. 3683) sub specie di vaglio critico al disposto in base al quale l’inosservanza degli obblighi informativi previsti dall’art. 6 l. n.1 del 1991, non determinerebbe la nullità del contratto.
Le Sezioni Unite Civili, con la sentenza del 14.12.07, n. 26724 chiariscono definitivamente che, nell’ipotesi di violazione dei doveri d’informazione del cliente da parte dell’intermediario finanziario,due sono le possibili conseguenze. In particolare,la responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, è configurabile solo ove la violazione avvenga nella fase precedente o coincidente alla stipulazione del contratto d’intermediazione. Negli altri casi, le operazioni d’investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria, generano responsabilità contrattuale conducendo alla risoluzione del contratto. In altre parole la sentenza afferma che in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei doveri di comportamento può determinare la nullità del contratto d’intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell’art. 1418, comma 1, c.c.
Gli ermellini confermano, dunque, la perdurante validità del tradizionale insegnamento per cui la violazione delle norme di comportamento, “tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità”.
Risposta simile era già stata data dalle S.U. con la decisione 26617/2007 alla questione ancor più delicata della responsabilità derivante dalla violazione agli obblighi di protezione scaturenti da un rapporto obbligatorio. La sentenza afferma che l’estinzione dell’obbligazione per effetto del pagamento effettuato con assegno circolare è ammissibile in base ad un’interpretazione evolutiva dell’art. 1277 cc, e non certo alla luce di una lettura estensiva del principio di buona fede e correttezza.
Tralasciando la specifica questione, ciò che preme evidenziare è il percorso evolutivo, di cui la Cassazione non nega di essere a conoscenza, che parrebbe condurre, dopo 60 anni di vigenza del nostro codice, a una responsabilità contrattuale orfana del contratto, o come altri affermano ad un sindacato giudiziale basato non più sull’atto, ma sul comportamento.
Si tratta, quindi, e in ogni caso di specificazioni della clausola generale di buona fede;in negativo, quando ad essere tipizzato è il comportamento vietato, in positivo, quando il comportamento doveroso è configurato dalla norma.
E’ un dato incontestabile, infatti, che nel nostro ordinamento si vadano diffondendo fattispecie di nullità testuali caratterizzate dallo spostamento del comportamento precontrattuale fra i requisiti di validità del contratto, dove lo squilibrio contrattuale che per il diritto rileva è quello derivante da un comportamento non corretto in sede di formazione del contratto. Il regolamento ingiusto sarà, perciò, un regolamento illegale solo se posto in violazione della legge della sua formazione; di qui gli orientamenti contrastanti, principalmente nella giurisprudenza di merito, che han condotto agli interventi d’arresto delle sezioni Unite.
In base ad una prima visione, la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative presuppone che siffatta violazione attenga ad elementi estrinseci della fattispecie negoziale, cioè relativi alla struttura o al contenuto del contratto, e quindi l’illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative per la formazione del contratto, o della sua esecuzione, non determina nullità del contratto indipendentemente dalla natura delle norme con le quali sia in contrasto, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista. L’art. 1337 c.c., che impone alle parti l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, sarebbe, quindi, norma meramente precettiva o, tutt’al più, imperativa positiva, dettata a tutela ed a limitazione degli interessi privatistici nella formazione ed esecuzione dei contratti, e non potrebbe essere inclusa fra le norme imperative aventi contenuto proibitivo ( Cass. 07.03.01, n.3272; Cass.15.03.01, n.3653; Cass. 05.04.01, n.5052).
L’argomento del superamento del principio di non interferenza delle regole di comportamento con le regole di validità, ai fini del riconoscimento dell’esistenza nell’ordinamento di nullità virtuali, è, secondo tale tesi, tautologico, in quanto prova solo ciò che è autoevidente, e, cioè, che è il legislatore che incorpora nella regola di validità la regola di comportamento. L’effetto della norma imperativa, nella specie, è quello della instaurazione ex lege di un rapporto obbligatorio. L’imperatività risiede nel carattere indisponibile del diritto a pretendere una determinata condotta. Se gli obblighi di contrarre di cui agli art. 1679 e 2597 c.c. sono espressione del tradizionale ordine pubblico economico, gli obblighi di cui all’art. 21 TUIF e 26 e ss. del Regol. Consob 11522/98 sono proiezione di un nuovo ordine pubblico di protezione. L’art. 1418 c.c. presuppone un contratto non un comportamento, contrario a norma imperativa
I principi enunciati si pongono in contrasto con l’orientamento secondo cui la nullità del contratto può derivare anche dalla violazione di norme imperative che non attengono ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura ed al contenuto del contratto, ma che pongono limiti all’autonomia negoziale delle parti sotto il profilo delle qualità soggettive di determinati contraenti e dell’esistenza di specifici presupposti. Per i sostenitori di tale orientamento, è irrilevante in caso di contrarietà a norme imperative, la mancata previsione normativa di un’espressa sanzione di nullità, sopperendo a tale mancanza il disposto dell’art. 1418, 1^co, c.c.
Nella moderna legislazione, anche per incidenza della normativa europea, gli indici normativi sono sintomatici del supermanto della tradizionale distinzione tra norme di validità e norme di comportamento, conseguente ad un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto. L’art. 9 L. 18.06.98 n.192 nel disciplinare l’abuso di dipendenza economica, stabilisce la nullità del patto attraverso il quale detto abuso si realizza, qualora ricorra il duplice presupposto delle condizioni contrattuali gravose o discriminatorie e della loro imposizione da parte di un’impresa contraentenei confronti di altra dipendente economicamente. In materia di contratti a distanza, con particolare riguardo al caso di comunicazioni telefoniche l’art. 53, 3^co, D.lgs. 206/05 stabilisce, a pena di nullità, che l’identità del fornitore e lo scopo commerciale della telefonata devono essere dichiarati in modo inequivocabile all’inizio della telefonata. Con riferimento ai contratti dei consumatori, la vessatorietà e la conseguente nullità della clausola, ex art. 34 Cod. Consumo, restano escluse in caso di trattativa specifica sulla stessa e, quindi, in ipotesi di specifico dato comportamentale. L’art. 7 del D.L. 9.10.02, che nello stabilire la nullità dell’accordo sulla data del pagamento che risulti gravemente iniquo in danno al creditore, considera gravemente iniquo, tra l’altro, l’accordo con il quale l’appaltatore imponga al proprio fornitore termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai termini ad esso concessi, così attribuendo rilevanza ai fini della invalidità del negozio ad un comportamento rilevante in sede di formazione dell’accordo. Lo stesso dicasi per l’abuso di posizione dominante previsto dalla normativa antitrust di cui all’art. 31.10.90 n. 287, si configura il concorso di posizioni contrattuali ingiustificatamente gravose e della condotta impositiva della clausola.
In ultimo, la fattispecie dubbia della circonvenzione di incapace di cui agli artt. 643 c.p. e 428 c.c.. Il precetto penale postula la conclusione di un contratto, onde per cui il momento consumativo del reato coincide con il compimento dell’atto dannoso. Di qui le controversie, mai risolte, se il precetto integri una sanzione sull’atto o sul comportamento formativo dello stesso (Realmonte, La rilevanza del “dolus bonus”: un’altra occasione perduta, in Contratti, 1994, 129; Mariconda, Quale invalidità contrattuale nel caso di circonvenzione di incapace?, Corriere giuridico, 1995, 217)
Sembra, dal legislatore, definitivamente abbandonata l’opinione riduttiva che relegava la buona fede a mero correttivo del giudizio formale di conformità del comportamento alla legge, escludendo l’attitudine della stessa a prescrivere doveri di condotta.
La buona fede rappresenta, dunque, uno strumento di integrazione della disciplina giuridica che governa l’attività negoziale dalla fase delle trattative a quella dell’esecuzione, laddove da un lato la volontà imperativa o dispositiva della legge, per sua natura rivolta al generale, e dall’altro la volontà delle parti consacrata nelle clausole del contratto, risulti insufficiente.
L’ordinamento normativo, ontologicamente incompleto, tende, infatti, alla completezza prevedendo, al suo interno, strumenti di integrazione che attingono o alla stessa dimensione ordinamentale, come accade col procedimento analogico, o a principi generali o, infine, ad ordinamenti esterni, quale ad es. quello morale, e secondo alcuni il c.d. diritto naturale.
Le clausole generali di buona fede e correttezza, artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1375 cc, offrono al giudice i criteri per individuare la norma applicabile, qualora essa non risulti specificamente dall’ordinamento; tale attività creativa, però, non potrà avere un valore generale, ma dovrà limitarsi alla disciplina del caso di specie sottoposto all’attenzione dell’interprete.
L’argomentazione storica chiarisce il perché di questo limite: nel diritto romano la buona fede oggettiva, trovava applicazione nei c.d. iudicia bonae fidei, quale strumento per attribuire rilevanza, attraverso l’opera creativa del diritto, alle regole della prassi degli scambi, più agili e concrete dell’antico ius civile.
L’attività di integrazione evolutiva svolta dal principio della buona fede, è dissonante, nella visione degli ermellini, con un sistema improntato sulla signoria della legge e sull’esigenza di certezza dei rapporti giuridici giacchè “il dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite”. L’ancoraggio ai principi di solidarietà sociale, espresso dall’art. 2 Cost, e di libera iniziativa economica, di cui all’art. 41 della Carta fondamentale, rappresenta, in quest’ottica, il contrappeso all’opera di emancipazione dal diritto positivo vigente.
La violazione dei precetti derivanti dal principio generale di buona fede sarà, dunque, secondo il Consesso, sanzionabile solo mediante gli strumenti rimediali della responsabilità o della risoluzione, ma mai potrà riverberarsi sulla validità del negozio, sub specie di nullità, così evitando che dalle inosservanze dei doveri imposti per mezzo della buona fede derivino conseguenze drastiche che mettano in discussione la stessa validità dei rapporti giuridici formalmente creati secondo diritto.
È evidente che passaggio obbligato sarà l’individuazione di una serie di fatti generatori di obbligazioni diversi dal contratto, utilizzando le tradizionali formule di quasi-contratto e quasi-delitto. La soluzione, quindi, consiste nel ricondurre gli obblighi di protezione nell’alveo dell’art. 1173 cc, partendo da una lettura precettiva della clausola generale di buona fede, che genererebbe, anche al di fuori di un sinallgma, obblighi di protezione reciproci tra soggetti relazionanti. Per cui, in ipotesi di trattative contrattuali o di cosiddetto contatto sociale, tali obblighi agirebbero al di fuori del principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 cc, e nell’alveo del 1218 cc, il tutto in una prospettiva protezionistica, con evidenti vantaggi sul piano probatorio e prescrizionale, che pone a vaglio critico anche la natura riparatoria o sanzionatoria del rimedio risolutivo. Per le Sezioni Unite, di conseguenza, i casi di nullità da violazione di norme comportamentali, non ricavati in via interpretativa, ma disposti ex lege, come sopra visto, superano per definizione il problema della certezza del diritto; in quest’ottica le recenti sentenze si pongono non come un arresto, ma come cauto riconoscimento di un percorso evolutivo lento, ma inesorabile.