Scommesse online: libertà comunitarie ed esigenze nazionali di ordine pubblico Corte di Giustizia UE , sez. Grande, sentenza 08.09.2009 n° C-42/07
Il tema della compatibilità della normativa italiana, in tema di
gioco e scommesse, con i principi comunitari in materia di libertà di
stabilimento e di libera prestazione di servizi è recentemente tornato
alla ribalta a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia delle
Comunità Europee dell’8 settembre
causa C-42/07. Con la citata sentenza i giudici comunitari, nel
ribadire alcuni dei principi già espressi nel corso della lunga
elaborazione giurisprudenziale in materia di limitazioni alle attività
di gioco e scommesse, hanno ritenuto “che la restrizione oggetto
della causa principale [possa] essere considerata, tenuto conto delle
particolarità connesse all’offerta di giochi d’azzardo su Internet,
giustificata dall’obiettivo di lotta contro la frode e la criminalità” (par. 72 della sentenza).
La fattispecie rilevante
La
fattispecie che ha trovato (e trova) sovente ingresso dinanzi ai
tribunali penali italiani può essere sintetizzata come segue.
L’imputato gestisce un’attività di raccolta di scommesse on line,
in ambito nazionale ed internazionale, così strutturata: il giocatore
indica all’operatore la scommessa cui intende partecipare e gli
consegna il denaro necessario; l’operatore provvede ad inviare, per via
telematica, l’ordine ricevuto ai bookmakers stranieri, per i quali svolge la funzione di intermediario nella raccolta delle predette scommesse.[1]
Nel
corso di attività di controllo, agenti di Polizia Giudiziaria
accertano, a seguito di perquisizione dell’esercizio commerciale, che
l’imputato dispone (al massimo) della sola autorizzazione del Ministero
per le Comunicazioni, e non anche della concessione amministrativa e
della licenza di polizia. Segue dunque il sequestro, fra l’altro, di computers, ricevute di scommesse, corrispondenza tra l’imputato ed i bookmakers inglesi, nonché di denaro contante.
Avverso
il provvedimento di sequestro, l’imputato ricorre al Tribunale per il
Riesame competente, il quale, ove ritenga di accogliere il proposto
gravame, dispone il dissequestro di quanto interessato dalla precedente
misura cautelare.
Il contenuto delle principali decisioni di merito in materia
Nel
ripercorrere il cammino della giurisprudenza, italiana e comunitaria,
nella tematica oggetto del presente commento, non può non farsi
riferimento, in primo luogo, alle numerose sentenze di merito
intervenute in subiecta materia.
Le fattispecie di
raccolta abusiva delle scommesse (anche di quelle via Internet) sono
previste dall’art. 4 della Legge 13 dicembre 1989, n. 401 (di seguito,
semplicemente, L. 401/89).
Tale disposizione, cui sono stati
aggiunti, con la Legge 23 dicembre 2000, n. 388, i commi 4 bis e 4 ter
(appositamente introdotti al fine di contrastare l’attività di raccolta
delle scommesse on line), sanziona, rispettivamente, chiunque
eserciti abusivamente l’organizzazione di lotterie o di scommesse
riservate allo Stato o ad altro ente concessionario e chiunque lo
faccia relativamente ad attività sportive gestite dal CONI o dall’UNIRE
(comma 1), nonché chiunque, privo di concessione, autorizzazione o
licenza ai sensi dell’art. 88 TULPS, accetti o raccolga scommesse di
qualsiasi tipo, formalizzate in Italia o all’estero, per via telefonica
o telematica, così come chiunque faciliti tali atti (comma 4 bis) e
chiunque accetti biglietti di lotteria o di altre scommesse attraverso
gli stessi strumenti ove sprovvisto di autorizzazione all’uso di tali
mezzi per detti fini (comma 4 ter).
Inizialmente, le decisioni di condanna, da parte dei giudici di prime cure, hanno rispecchiato il dictum della nota pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. Pen., S.U., sentenza 26 aprile 2004, n. 23271), con la quale
ha stabilito il principio per cui, a fronte della finalità di tutela
dell’ordine pubblico, ed in particolare della necessità di contrastare
l’infiltrazione criminale nel settore dei giochi e delle scommesse, il
regime sanzionatorio previsto dal citato art.
401/89 non è antitetico rispetto alle libertà di stabilimento e di
libera prestazione di servizi, previste rispettivamente dagli artt. 43
e 49 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea (di seguito:
Trattato CE).
Nei casi di condanna, dunque, i giudici di merito
hanno concluso nel senso che il (presunto) contrasto tra la normativa
comunitaria in materia di libertà di stabilimento e di libera
prestazione dei servizi, da un lato, e la normativa italiana in materia
di gioco e scommesse, dall’altro, non integri una questione che possa
riverberarsi a favore di colui che è imputato delle violazioni di cui
all’art.
Sull’opposto
versante, è andato tuttavia affermandosi un diverso, e sempre più
consolidato orientamento, sia nella giurisprudenza de libertate che in quella di merito,[2] volto alla disapplicazione (rectius:
alla non applicazione) della normativa italiana in materia di gioco e
di scommesse, in quanto contrastante con i principi europei della
libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi.
L’imposizione, da parte dell’ordinamento italiano, di una licenza di
polizia vincolata al previo ottenimento di una concessione
amministrativa, configurerebbe – secondo la suddetta corrente
giurisprudenziale – un chiaro ostacolo ai due citati principi cardine
del Trattato CE.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee antecedente la sentenza Placanica
L’orientamento disapplicativo della giurisprudenza de libertate
e di merito ha trovato il proprio fondamento, oltre che negli artt. 43
e 49 del Trattato CE, nella nota sentenza della Corte di Giustizia
delle Comunità Europee del 6 novembre
In essa
normativa nazionale, contenente divieti – penalmente sanzionati – di
svolgere attività di raccolta, accettazione, prenotazione e
trasmissione di proposte di scommessa, relative, in particolare, a
eventi sportivi, in assenza di concessione o autorizzazione rilasciata
dallo Stato membro interessato, costituisce una restrizione alla
libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi. (…) Spetta tuttavia al giudice [nazionale] del
rinvio verificare se tale normativa, alla luce delle sue concrete
modalità di applicazione, risponda realmente ad obiettivi tali da
giustificarla e se le restrizioni che essa impone non risultino
sproporzionate rispetto ai principi comunitari” (punto 76 della sentenza).
Infatti,
secondo la giurisprudenza della Corte, le restrizioni ai richiamati
principi sono configurabili solo se vengono rispettati determinati
criteri, quali la presenza di motivi imperativi di interesse generale,
l’idoneità a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e, in
terzo luogo, la proporzionalità delle misure adottate per il
raggiungimento di questo, dovendo in tal caso peraltro essere applicate
in modo non discriminatorio.
ha precisato che è in ogni caso da escludere che considerazioni di
ordine fiscale, esplicitamente presenti in molti interventi legislativi
e regolamentari dello Stato italiano, possano giustificare le
restrizioni alla normativa comunitaria, legittimabili, per contro, in
base ad esigenze di carattere sociale o di contrasto del crimine, quali
la tutela del consumatore, la prevenzione alla frode, il contenimento
dei fenomeni di ludopatia.
Per converso, sempre secondo
lussemburghese, l’idoneità delle restrizioni, nonché la coerenza e la
sistematicità delle stesse rispetto all’indirizzo politico-normativo
espresso dallo Stato italiano devono tuttavia escludersi, ove si tenga
conto della politica di espansione del gioco, perseguita nei tempi più
recenti da alcuni legislatori nazionali, proprio per fini fiscali.
La risposta delle Sezioni Unite della Cassazione alla sentenza Gambelli
a Sezioni Unite, ha tentato di comporre il contrasto tra la normativa
italiana e quella comunitaria, dimostrando tuttavia – a parere di chi
scrive – di avere mal interpretato i criteri che
A
tal proposito, la discrasia più evidente sembrerebbe sorgere dal fatto
che, contraddittoriamente, il giudice di legittimità, pur ammettendo
che il legislatore italiano da vari anni persegue una politica di
espansione del settore dei giochi e delle scommesse (essenzialmente per
incrementare il gettito fiscale), arriva ugualmente a ritenere
compatibile la normativa nazionale, in quanto la stessa si proporrebbe “non
già di contenere la domanda e l’offerta del gioco, ma di canalizzarla
in circuiti controllabili al fine di prevenirne la possibile
degenerazione criminale”(punto 12.2.3. della sentenza).[4]
Tuttavia,
se da un lato il subordinare l’esercizio dell’attività di scommesse al
preventivo rilascio della licenza di polizia potrebbe apparire
giustificabile per finalità di tutela dell’ordine pubblico, d’altro
lato, il condizionare il rilascio della licenza al preventivo
ottenimento della concessione o autorizzazione statale è circostanza
difficilmente giustificabile sotto il profilo dell’ordine sociale, ed
anzi evidentemente rappresentativa di un intento monopolistico.[5]
Le
precedenti valutazioni, naturalmente, potrebbero valere anche con
riferimento alla valutazione della congruità della sanzione penale
prevista dal nostro ordinamento. Sul punto,
ha riservato al legislatore ogni valutazione al riguardo. Ma è evidente
che, in siffatta maniera, ha finito per disattendere la precisa
indicazione della Corte di Giustizia, che espressamente imponeva al
giudice nazionale di “esaminare se la sanzione penale
irrogata non sia sproporzionata, soprattutto dal momento che la
partecipazione alle scommesse viene incoraggiata allorché si svolge nel
contesto di giuochi organizzati da enti nazionali autorizzati”.
La
motivazione fornita dalla Cassazione era (ed è) pertanto da ritenersi
inidonea a superare del tutto il rilievo di incompatibilità della
normativa nazionale. Nel senso della disapplicazione dell’art. 4, comma
4 bis, L. 401/89, si sono pronunciati molti giudici di merito, anche
successivamente alla citata sentenza delle Sezioni Unite.
La giurisprudenza italiana successiva a Cass. pen., S.U., 26 aprile 2004, n. 23271
I
tribunali di merito hanno continuato per lo più a disattendere
l’orientamento della Suprema Corte, risolvendo in modo contrastante con
quest’ultima il conflitto insorto tra la fattispecie penale di cui
all’articolo 4, Legge 401/89 – incriminante la raccolta abusiva di
scommesse – ed i principi comunitari di libertà di stabilimento e di
libera prestazione di servizi.
In primo luogo, i giudici di
prime cure hanno rilevato una sostanziale assenza di finalità di ordine
pubblico nella disciplina vigente.
A tal proposito, tra le
altre, si segnala la pronuncia con la quale il Tribunale della libertà
di Catania, con ordinanza depositata il 7 luglio
disapplicato la fattispecie contravvenzionale di cui all’articolo 4,
comma 4 bis, Legge 401/89, in quanto ritenuta non finalizzata a
soddisfare esigenze di tutela della pubblica sicurezza, “atteso che
l’attuale disciplina non prevede particolari controlli e limitazioni
volti ad impedire infiltrazioni criminali tra concessionari”.[6]
Altre
pronunce hanno invece posto l’accento sulla discriminazione che la
normativa italiana in materia di gioco e scommesse opera nei confronti
degli operatori esteri di scommesse on line. Da un lato,
infatti, si è sottolineata la contrarietà del regime di concessione ai
principi comunitari, nella parte in cui esso riserva l’attività di
gioco e scommesse ai soli concessionari italiani di pubblico servizio,
e non anche agli intermediari di bookmakers stranieri. In
questo modo, si crea infatti una situazione di monopolio che contrasta,
oltre che con la libertà di stabilimento e la libera prestazione di
servizi, anche con gli artt. 31 e 86 Trattato CE, i quali vietano
qualsiasi discriminazione fra cittadini degli Stati membri,
prescrivendo altresì la sottoposizione delle imprese monopoliste alle
regole della concorrenza, in modo che lo sviluppo degli scambi non sia
compromesso in modo contrario agli interessi della Comunità.
La
predetta discriminazione ha dato adito anche a questioni di legittimità
costituzionale, con particolare riferimento al requisito della licenza
di polizia, obbligatoriamente prevista dall’art. 88 TULPS per
l’esercizio dell’attività di raccolta di scommesse on line.
Da
un lato, infatti, potrebbe astrattamente configurarsi un contrasto con
il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., in ragione di
un’ingiustificata discriminazione, a danno di titolari di concessioni
rilasciate in altro Stato dell’Unione Europea, impedendo loro, pur in
possesso degli altri requisiti, di conseguire la predetta licenza.
Dall’altro,
il contrasto potrebbe sorgere in riferimento all’art. 41 Cost., laddove
l’art. 88 TULPS ostacola la libertà di iniziativa economica, non
consentendo al titolare di altro Stato membro di svolgere l’attività di
raccolta delle scommesse.[7]
Ulteriori
questioni sono sorte poi con riferimento ai requisiti e alle modalità
di partecipazione al bando che l’AAMS periodicamente indice per
l’affidamento in concessione dell’attività di gioco e di scommessa.
Sul
punto si è pronunciato il G.u.p. del Tribunale di Mantova, con sentenza
del 25 novembre 2004, n. 332, il quale ha assolto un imputato dal reato
di cui all’articolo 4, comma 4 bis, Legge 401/89, perché “il fatto non
costituisce reato”.
Con la Legge 27 dicembre 2002, n. 289
(c.d. “finanziaria”) era stato infatti stabilito che alle procedure
concorrenziali potessero partecipare, a differenza di quanto previsto
in passato, anche le società di capitali. Inoltre, a partire dal 1°
gennaio 2004, la riforma del diritto societario italiano aveva
perfezionato la parificazione giuridica del regime delle società
italiane a quello delle altre società europee “aperte” (cioè con azioni
anonime) e, dunque, in nessun caso avrebbe potuto – in astratto – dirsi
che queste ultime fossero svantaggiate rispetto alle prime nel concorso
per le concessioni.
In realtà, l’Italia si è poi adeguata
soltanto apparentemente a tali principi, perché l’ostacolo che aveva
precluso, anche a società estere, l’accesso al mercato italiano delle
scommesse, in condizioni paritetiche con gli altri aspiranti, avrebbe
potuto essere definitivamente rimosso solo nel 2012, data in cui
sarebbero scadute le precedenti concessioni del 1999, ed i
provvedimenti di rinnovo automatico (le concessioni sono andate a
regime tra il 2000 e il 2001). In questo modo, secondo il G.u.p.
mantovano, l’Italia “ha perpetuato un regime protezionistico
illegittimo, perché incidente sui diritti di stabilimento e di libera
prestazione di servizi, senza disporre la correzione in autotutela dei
provvedimenti emessi illegittimamente (…)”.
Non solo. Continua infatti il giudice virgiliano: “perseguendo
coloro che operano in collegamento con quei soggetti, abilitati a tale
attività nello Stato membro di origine, esclusi dalla precedente gara
in base ad una preclusione poi rimossa, e non procedendo alla revoca
delle concessioni rilasciate sulla base di un precedente regime
normativo dichiarato illegittimo in sede comunitaria (ma anche solo
basterebbe escludere l’automatico rinnovo alla prima scadenza
sessennale), lo Stato italiano si pone chiaramente in contrasto con il
diritto comunitario vigente, assicurando di fatto l’ultrattività di un
regime protezionistico riconosciuto dallo stesso Stato illegittimo
perché contrario alle libertà fondamentali fissate in sede comunitaria”.
In altre parole, secondo il G.u.p. del Tribunale di Mantova, “la
discriminazione, rimossa in forma solo apparente, resiste tuttora,
operando in danno delle società estere in forma indiretta e
dissimulata, a fronte viceversa di un’applicazione immediata di norme
comunitarie del più elevato livello (Trattato) che, fissando libertà
“fondamentali”, non possono in nessun caso essere derogate dal singolo
Stato membro con disposizioni di fatto preclusive”.[8]
Ma
il vero punto di rottura tra la normativa italiana ed i principi
comunitari – così come precisati nella sentenza Gambelli – è costituito
dalle già ricordate finalità di natura fiscale, sottese alla disciplina
nazionale. A tal proposito va segnalata un’altra assoluzione nel
merito, questa volta con formula piena (cioè per insussistenza del
fatto di reato), pronunciata dal Tribunale di Ragusa con sentenza n. 46
del 25 gennaio
una politica di espansione delle scommesse e dei giochi pronostici
basta alla Corte lussemburghese per giudicare contraddetto dal diritto
positivo l’asserito scopo sociale di limitare la propensione al gioco,
ciò deve indurre a ritenere l’incompatibilità con l’ordinamento
comunitario delle norme penali nazionali che regolano la materia, e
pertanto ad escluderne [mediante l’istituto della disapplicazione] l’applicabilità al caso concreto”.
Tuttavia,
sembrerebbe non potersi affermare che lo Stato italiano abbia
successivamente manifestato l’intenzione di adeguarsi, con appropriate
modifiche legislative, alle ragioni contenute nelle considerazioni che
precedono.
Infatti, con la L. 23 dicembre 2005, n. 266
(c.d. legge finanziaria 2006), ha previsto espressamente, all’art. 1,
commi 535-536, fermi i poteri dell’autorità e della polizia giudiziaria
ove il fatto costituisca reato, un inedito potere dell’AAMS di imporre
ai gestori della rete Internet l’oscuramento dei siti che offrono la
possibilità di effettuare scommesse on line con operatori esteri.
L’intento
monopolistico su cui sono fondate tali disposizioni emerge ancor più
chiaramente leggendo il decreto del 7 febbraio 2006, n. 4249, con il
quale la stessa AAMS, in attuazione delle norme contenute nella
Finanziaria
dei casi di offerta in assenza di autorizzazione, attraverso rete
telematica, di giochi, lotterie, scommesse o concorsi pronostici con
vincite in denaro. L’ultimo “ritenuto” del suddetto decreto fa infatti
riferimento, in modo inequivocabile, alla finalità di “salvaguardare le entrate erariali dello Stato”,
come se un siffatto obiettivo non fosse stato già riconosciuto dal
giudice comunitario in palese contrasto con gli scopi del Trattato CE,
ed in particolare con le libertà di stabilimento e di prestazione dei
servizi che, di quel Trattato, rappresentano il fulcro indiscusso.[9]
La giurisprudenza amministrativa italiana antecedente la sentenza Placanica
Sul
versante della giurisprudenza amministrativa in materia, è appena il
caso di ricordare che, nella maggior parte dei casi, i TAR aditi hanno
per lo più deciso in favore degli imputati dei reati previsti e puniti
dall’art. 4, commi 1, 4 bis e 4 ter, L. 401/89. Ad esempio, è stato
ritenuto che gli art. 88, TULPS e art.
401/89 contrastano con le libertà comunitarie di stabilimento e di
prestazione di servizi, in quanto, generando una disparità di
trattamento, impediscono a coloro che svolgono l’attività di gestione
delle scommesse sulla base di una concessione rilasciata da uno Stato
dell’Unione europea di gestire scommesse in Italia, perché non muniti
del titolo rilasciato dallo Stato italiano, il che preclude di
richiedere e ottenere la conseguente licenza di polizia anche ove
sussista il possesso di tutti i requisiti prescritti per conseguire
detta autorizzazione, sia da parte della Società di altro paese, sia da
parte di soggetti intermediari.[10]
Diversamente
si è pronunciato il Consiglio di Stato, il quale ha preferito
trincerarsi dietro posizioni assolutamente antitetiche rispetto a
quelle assunte dai giudici amministrativi di primo grado, adducendo per
lo più, nelle motivazioni, le stesse considerazioni a suo tempo
effettuate dalla Cassazione a Sezioni Unite con la già ricordata
sentenza del 2004.[11]
La sentenza Placanica della Corte di Giustizia delle Comunità Europee
Fra le ultime rilevanti pronunce nazionali in materia di scommesse on line,
precedenti la sentenza Placanica, vi è stata quella della Corte
Costituzionale la quale, con ordinanza n. 454 depositata il 28 dicembre
avrebbero sufficientemente motivato circa l’applicabilità in concreto
delle disposizioni di diritto interno. Da un lato, qualcuno ha voluto
scorgere, nella citata decisione, la volontà della Corte Costituzionale
di ritenere preminente la disapplicazione della normativa interna per
contrasto con quella comunitaria, rispetto alla disamina dei profili di
contrarietà con i principi fondamentali dell’ordinamento
costituzionale. Dall’altro, tuttavia, sembra più ragionevole pensare
che
abbia semplicemente inteso prendere tempo, in attesa della decisione
della Corte lussemburghese sul caso Placanica, la quale – nelle
aspettative degli operatori di scommesse su Internet – avrebbe avuto
finalmente il compito di sancire l’incompatibilità del regime
sanzionatorio previsto dalla normativa italiana in materia di gioco e
scommesse con i principi comunitari della libertà di stabilimento e
della libera prestazione di servizi.
Orbene, il perdurante
contrasto tra normativa italiana e comunitaria in materia di gioco
d’azzardo è stato dunque oggetto della sentenza della Corte di
Giustizia delle Comunità Europee Placanica, emessa il 6 marzo 2007,
relativa ai procedimenti riuniti C-338/04, C-359/04 e C-360/04.
infatti – attenendosi per lo più alle conclusioni rese dall’avvocato
generale Dámaso Ruiz-Jarabo Colomer nell’udienza del 16 maggio 2006 [13]
– ha giudicato incompatibili con il diritto comunitario le sanzioni
penali italiane, applicate alla raccolta di scommesse da parte di
intermediari che operano per conto di società straniere, atteso che “uno
Stato membro non può applicare una sanzione penale per il mancato
espletamento di una formalità amministrativa, allorché l’adempimento di
tale formalità viene rifiutato o è reso impossibile dallo Stato membro
interessato in violazione del diritto comunitario” (punto n. 69 della sentenza).
Prima di giungere alla suddetta conclusione,
ha innanzitutto proceduto alla verifica della sussistenza delle
condizioni di proporzionalità delle restrizioni alla libertà di
stabilimento ed alla libera prestazione di servizi stabilite dalla
normativa italiana. Conducendo una siffatta analisi, essa ha ammesso
che il sistema italiano di concessioni amministrative può costituire un
meccanismo efficace, che consente di controllare coloro che operano nel
settore del gioco e delle scommesse; d’altro canto, ha tuttavia
rimandato ai giudici nazionali il compito di accertare, nel caso
concreto, se la normativa nazionale, in quanto limitativa del numero di
soggetti che operano nel settore dei giochi d’azzardo, miri realmente a
prevenire l’esercizio delle attività in tale settore per fini criminali
o fraudolenti, o se essa abbia unicamente lo scopo di garantire
cospicue entrate erariali allo Stato italiano.
Per quanto concerne il problema della ritenuta discriminazione degli operatori esteri di scommesse nel mercato italiano,
ha affermato con chiarezza che l’esclusione totale delle società di
capitali dalle gare per l’attribuzione delle concessioni è
sproporzionata rispetto all’obiettivo di evitare che soggetti, che
operano nel settore dei giochi d’azzardo, siano implicati in attività
criminali o fraudolente. I giudici comunitari hanno pertanto chiamato
lo Stato italiano a stabilire modalità procedurali tali da garantire la
tutela dei diritti che spettano a tali operatori in virtù degli artt.
43 e 49 del Trattato CE (prevedendo, ad esempio, la revoca e la
redistribuzione delle precedenti concessioni).
L’illegittimità
del regime di distribuzione delle concessioni amministrative per
l’attività di gioco e scommessa ha inficiato automaticamente, secondo
88, TULPS, dato che la mancanza di autorizzazione non può certo essere
addebitata a soggetti che non hanno potuto ottenere tali licenze, in
quanto esclusi dall’attribuzione di una concessione, in violazione del
diritto comunitario.
La sentenza Placanica ha indubbiamente
avuto il pregio di mettere in luce, una volta per tutte, la
sproporzione sussistente nel nostro ordinamento tra il mancato rispetto
delle norme a tutela del corretto svolgimento dell’attività di gioco e
scommessa e la previsione di sanzioni penali, comportanti una pena
detentiva fino a tre anni. E’ anche vero, tuttavia, che la stessa
sentenza è intervenuta in un contesto normativo sostanzialmente mutato
rispetto a quello in cui furono sollevate le relative questioni di
pregiudizialità comunitaria: da allora infatti lo Stato italiano ha
attuato una progressiva apertura del sistema delle concessioni
amministrative anche in favore di società di capitali quotate in
mercati regolamentati che, prima del 2004, venivano tassativamente
escluse dalla possibilità di operare legittimamente in Italia nel
settore del gioco e delle scommesse.
Si pensi in particolare
alle misure adottate nel c.d. decreto Bersani, in merito al bando
indetto dall’AAMS relativo all’apertura ed alla conduzione di circa
16000 nuovi punti per l’accettazione di scommesse (articolo 38, comma
2, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni ed integrazioni nella legge 4 agosto 2006, n. 248).
Nella predetta sentenza,
di Lussemburgo non ha invece completamente risolto una delle questioni
che più interessavano gli operatori esteri (soprattutto inglesi) di
scommesse on line alla vigilia della pronuncia: può un bookmaker
di un altro Stato membro, qualora soddisfi i requisiti previsti dalla
sua normativa, legittimamente esercitare la medesima attività in un
altro Stato in forza della sola licenza ottenuta nel Paese d’origine?
Volendo, in generale, rispondere positivamente a tale affermazione, le
autorità dello Stato nel quale viene prestato il servizio dovrebbero
prendere atto della presenza, a monte, della garanzia di “rettitudine”
dell’operatore straniero, evitando così su questi un inutile e
discriminante meccanismo di doppio controllo (in applicazione del
principio – di derivazione comunitaria – del home country control).
Gli sviluppi giurisprudenziali in Italia successivi alla sentenza Placanica
In recepimento dei contenuti della sentenza Placanica,
di Cassazione ha sostanzialmente mutato il proprio orientamento in
materia di reati relativi a gioco e scommesse (quanto meno con
riferimento a quella parte della decisione comunitaria, in cui i
giudici affermavano la sostanziale incongruità dell’attuale sistema
sanzionatorio).
Ed infatti il giudice italiano di legittimità, in una fondamentale pronuncia di poco successiva alla sentenza Placanica,[14]
ha riconosciuto la rilevanza e la forza cogente dell’interpretazione
pregiudiziale, dettata dalla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234
del Trattato CE.
Per citare le parole della Cassazione, “è
fuori dubbio che limiti ingiustificati sono esistenti nei confronti
delle società quotate che hanno sede nei Paesi membri e che non hanno
potuto partecipare alle gare per l’attribuzione delle licenze sebbene
fossero in possesso delle necessarie forme di autorizzazione che il
Paese ove sono stabilite richiede per la gestione organizzata di
scommesse in ambito nazionale e europeo. Parimenti, limiti
ingiustificati sono esistenti nei confronti delle persone operanti in
Italia che sono escluse dal rilascio delle autorizzazioni ai sensi del
R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 88 per il solo fatto di che la
richiesta di autorizzazione sia finalizzata all’attività di raccolta
delle scommesse per conto delle società quotate e prive di concessione,
menzionate al punto che precede”.
Ne consegue che, secondo i
giudici di Piazza Cavour, è da ritenersi non (più) sussistente il reato
di cui all’art. 4, commi 1 e 4 bis, L. 401/89 e, in ossequio al
principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., deve pertanto disporsi
l’assoluzione con formula piena, nei confronti di quei soggetti che
operano, nel nostro Paese, per conto di società quotate, aventi sede
legale in Stati membri dell’Unione Europea, ove tali società siano
state escluse dalla partecipazione alla gara per l’aggiudicazione delle
concessioni, in Italia, per la raccolta di scommesse, ed ove – per
converso – esse siano autorizzate, per l’esercizio della medesima
attività, nel rispettivo Paese di provenienza.
Allo stesso modo,
deve escludersi la responsabilità penale in capo al soggetto che si
limiti, tramite postazione internet, a fornire il supporto tecnico per
l’inoltro dei dati, dallo scommettitore al concessionario, in tal modo
rimanendo estraneo al rapporto di scommessa (nel caso di specie,
l’imputato aveva soltanto trasferito materialmente sul terminale quanto
il giocatore gli dettava, senza interferire nelle scelte di gioco di
quest’ultimo).[15]
Quanto
sopra detto non toglie, peraltro, che la condotta di raccolta di
scommesse su competizioni sportive, in assenza di autorizzazione di
pubblica sicurezza, continui a costituire fatto illecito, allorchè
l’autorizzazione non sia stata richiesta con riferimento ad altre e
diverse forme di raccolta che vengono effettuate. In altri termini, la
condotta di raccolta di scommesse conserva la propria illiceità, ove
l’autorizzazione ex art. 88 TULPS sia stata negata per ragioni
diverse dalla assenza di valida concessione, legata esclusivamente alla
posizione della società di bookmaker di diritto estero.[16]
E’ appena il caso di rilevare che il revirement
della Cassazione ha costituito un vero e proprio passaggio obbligato.
Ed infatti, come di recente affermato dalla stessa Corte di Giustizia,[17]
ove i giudici di legittimità non si fossero conformati
all’interpretazione pregiudiziale della sentenza Placanica, lo Stato
italiano avrebbe potuto essere ritenuto, in ipotesi, responsabile dei
danni cagionati ad un singolo, per violazione manifesta del diritto
comunitario. La suddetta responsabilità – come affermato dalla Corte di
Lussemburgo – non avrebbe potuto neppure essere limitata ai soli casi
di dolo o colpa grave del giudice. Ed anzi, essa avrebbe potuto
ravvisarsi anche laddove la violazione manifesta del diritto
comunitario fosse risultata da un’interpretazione delle norme di
diritto, o da una valutazione dei fatti e delle prove, oggetto del
giudizio in corso in uno Stato membro.
In sostanziale
controtendenza, rispetto alle posizioni della Cassazione, si è invece
espresso il Consiglio di Stato, in relazione alla liceità o meno del
regime autorizzatorio previsto in Italia dall’art. 88 TULPS.[18]
Il
Supremo consesso di giustizia amministrativa, infatti, anche
successivamente alla sentenza Placanica, è rimasto orientato in favore
di una posizione restrittiva circa la possibilità, per gli allibratori
esteri di scommesse, di poter esercitare in Italia la propria attività,
ove tale esercizio avvenga in assenza della necessaria licenza di
polizia.
Tale autorizzazione, infatti, anche alla luce del dictum della
Corte di Giustizia, avrebbe mantenuto un ruolo di centrale importanza
rispetto all’esigenza, prevista dagli artt. 46 e 55 del Trattato CE, di
garantire che, nel territorio degli Stati membri, l’esercizio
dell’attività di raccolta delle scommesse avvenga con modalità tali da
consentire di canalizzare la domanda degli scommettitori in circuiti
controllabili, e – conseguentemente – di evitare infiltrazioni da parte
della criminalità organizzata, nazionale ed internazionale.
La licenza ex art.
88 TULPS, infatti, risponde alla finalità di verificare la sussistenza,
in capo agli operatori di scommesse, dei requisiti di moralità ed
affidabilità, anche nel caso in cui questi agiscano per conto di
società che godono di idonea autorizzazione, nell’ambito degli Stati
membri ove hanno sede legale.
L’esigenza di tutela dell’ordine
pubblico, sottesa alle motivazioni delle pronunce del Consiglio di
Stato sopra richiamate, trova perfetta corrispondenza – secondo i
giudici di Palazzo Spada – nella Costituzione della Repubblica
italiana, e più precisamente nell’art. 41, comma secondo, nella parte
in cui esso in tanto prevede ed acconsente alla libera iniziativa
economica privata, in quanto questa non sia esercitata in contrasto con
l’utilità sociale. Appare evidente che, nel caso in esame, tale utilità
consiste nella necessità di combattere le possibili operazioni di
riciclaggio di “denaro sporco”, attuate da parte delle principali
organizzazioni criminali del nostro Paese, all’interno del circuito
delle scommesse, e segnatamente di quelle on line.
Per
contro, è lo stesso Consiglio di Stato ad ammettere che, nel settore
delle scommesse, in tanto l’esigenza di lotta alla criminalità
organizzata può ritenersi compatibile con le libertà comunitarie di
stabilimento e di libera prestazione di servizi, in quanto le
restrizioni poste all’esercizio dell’attività di allibratore siano
rispondenti ai principi di non discriminazione, di necessità e di
proporzione.
Ne consegue che la licenza di polizia provoca, in
ogni caso, un’illegittima restrizione delle libertà comunitarie, ove
subordini “il rilascio della autorizzazione o licenza al previo ottenimento della concessione, [portando] ad ulteriori conseguenze le ingiustificate limitazioni derivanti dal regime concessorio, ed in particolare [precludendo]
alle società quotate di porre rimedio alla esclusione dal mercato
italiano attraverso l’apertura di punti di raccolta dati gestiti da
persone domiciliate in Italia” (Cons. Stato, sez. VI, n. 2827 cit.).
In
linea generale, non vi è, dunque, portata discriminatoria in una
restrizione – quale quella prevista dall’art. 88 TULPS – che risulta
essere indistintamente applicabile a tutti gli operatori di scommesse
che agiscono sul territorio italiano, a prescindere dalla loro origine
e nazionalità.
La sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee dell’8 settembre 2009: un netto revirement?
E
veniamo dunque alla recentissima pronuncia del settembre 2009, con la
quale i giudici della Corte di Lussemburgo sembrerebbero aver
ulteriormente confermato il limite dell’ordine pubblico, nell’esercizio
dell’attività di raccolta delle scommesse tramite Internet, nel
territorio degli Stati membri dell’Unione.
Nella fattispecie,
è stata chiamata ad intervenire a seguito di domanda di pronuncia
pregiudiziale, proposta dal Tribunale penale di prima istanza di Porto
(Portogallo).
Nel merito, la vicenda traeva origine da ammende,
inflitte dalla direzione della Santa Casa (istituzione statale
portoghese che gestisce, in via esclusiva, le scommesse ed i giochi
d’azzardo) alla Liga (Lega Calcio Professionisti portoghese) e alla
Bwin (operatore estero di scommesse) per il fatto di aver violato la
normativa nazionale che disciplina l’offerta di taluni giochi d’azzardo
su Internet.
Con essa, il giudice portoghese ha dunque chiesto alla Corte di Giustizia “se il regime di esclusività concesso alla Santa Casa e opposto alla [Bwin], (…) stabilito
in un altro Stato membro in cui effettua legalmente servizi analoghi,
senza essere fisicamente stabilito in Portogallo, costituisca un
ostacolo alla libera prestazione di servizi, in violazione dei principi
della libertà di prestazione di servizi, della libertà di stabilimento
e della libertà di pagamento, sanciti rispettivamente dagli artt. 49,
43 e 56 Trattato CE” (punto 28 della sentenza).
Preliminarmente,
ha correttamente ritenuto di dover limitare il campo della propria
pronuncia al solo art. 49 Trattato CE, in considerazione del fatto che,
nel caso devoluto alla sua attenzione, non rilevavano profili di
incompatibilità della normativa portoghese con la libertà di
stabilimento e con la libertà di movimento dei capitali nell’ambito
dell’Unione Europea.
Ed infatti,
nel proporre giochi d’azzardo organizzati esclusivamente via internet,
operava in Portogallo senza aver ivi previamente costituito una sede,
principale o secondaria. In secondo luogo,
non ha ritenuto rilevante, ai fini della richiesta pronuncia
pregiudiziale, la valutazione della possibile restrizione alla libera
circolazione di capitali, atteso che quest’ultima si poneva comunque in
posizione secondaria rispetto alla (ritenuta) violazione della libertà
di stabilimento.
Orbene, dopo aver constatato che la disciplina
portoghese configura effettivamente una restrizione alla libera
circolazione dei servizi nell’Unione Europea, i giudici comunitari
hanno tuttavia rinvenuto la giustificazione a tale restrizione
nell’esigenza, per il governo nazionale portoghese, di preservare
l’ordine pubblico e di combattere la criminalità.
In particolare, per
limitata dei giochi in un ambito esclusivo presenta il vantaggio di
incanalare la gestione dei giochi medesimi in un circuito controllato,
e di prevenire il rischio che tale gestione sia diretta a scopi
fraudolenti e criminosi” (punto 64 della sentenza).
Ciò in
quanto, non esistendo una uniforme disciplina comunitaria nel settore
dei giochi d’azzardo, ogni Stato membro deve – ad oggi – ritenersi
libero di fissare, alla luce della propria scala di valori, regole
poste a tutela dei consumatori, contro i rischi di frode e di
criminalità, con l’unico limite della proporzionalità di tali regole
rispetto agli obiettivi stabiliti.
A nostro parere, la sentenza in commento potrebbe essere inquadrata secondo due distinte chiavi di lettura.
Da
un lato, infatti, essa potrebbe apparire, al primo impatto, quale mero
intervento confermatorio, da parte della Corte di Lussemburgo, rispetto
ai fondamentali principi già enunciati nella storica sentenza
Placanica. Ed in effetti, i giudici comunitari hanno di certo
contribuito a chiarire cosa debba intendersi, in concreto, per esigenza
di ordine pubblico, nel quadro dell’attività di raccolta delle
scommesse via Internet. Del resto, non si può che convenire con
nella parte in cui afferma che i giochi d’azzardo accessibili via
internet implicano rischi di natura differente e di maggiore
importanza, rispetto ai mercati tradizionali dei giochi medesimi, per
quanto attiene ad eventuali frodi commesse dagli operatori nei
confronti dei consumatori.
Ed infatti, a differenza della maggior parte dei giochi organizzati a livello nazionale, nei giochi on line lo scommettitore non ha modo di venire “fisicamente” a conoscenza delle caratteristiche complessive dell’allibratore.
A ben vedere, tuttavia, la pronuncia de qua potrebbe
leggersi – e sembra questa l’interpretazione preferibile – nel senso
che, ad oggi, i governi nazionali potrebbero, in generale, mantenere un
vero e proprio monopolio statale anche per i giochi on line, o per quelli offerti con altri mezzi di comunicazione.
Si tratterebbe, insomma, di un chiaro revirement rispetto
a quanto previsto dalla sentenza Placanica, ove invece, in sostanza,
veniva privilegiata una visione “liberalizzata” del settore dei giochi
e delle scommesse.
A tal proposito, è infatti sufficiente ricordare che, al punto 72 della sentenza Placanica,
se la normativa nazionale, in quanto limita il numero di soggetti che
operano nel settore dei giochi d’azzardo, risponda realmente
all’obiettivo mirante a prevenire l’esercizio delle attività in tale
settore per fini criminali o fraudolenti”.
Con la pronuncia in commento, invece, è lo stesso giudice comunitario ad aver, in un certo senso, “autorizzato” ex ante qualsiasi restrizione alla libera circolazione dei servizi offerti dagli operatori di scommesse on line,
purchè non apertamente discriminatoria. Affinché, dunque, la
limitazione prevista dalla normativa nazionale possa ritenersi
compatibile con l’interpretazione pregiudiziale della Corte, occorre
che essa colpisca, indistintamente, tutti gli operatori del settore
interessato, a prescindere dal loro Paese di provenienza e/o
nazionalità.
La decisività del carattere non discriminatorio
delle restrizioni nazionali, in materia di gioco e scommesse, viene
ancor più chiaramente alla luce dell’analisi di un’altra recente
sentenza della Corte lussemburghese, in parte legata alla tematica di
cui al presente commento.[19]
Nella suddetta sentenza,
di Giustizia ha infatti sottolineato che gli obiettivi di tutela dei
consumatori, sottesi alle limitazioni relative all’attività di raccolta
delle scommesse via Internet, non possono essere invocati da uno Stato
membro, ove tali limitazioni abbiano natura palesemente
discriminatoria, e finalizzata unicamente ad aumentare il gettito
fiscale nazionale (punto 36 della sentenza).
Pertanto – conclude
– deve ritenersi in contrasto con il principio di libera circolazione
dei servizi una normativa tributaria nazionale (quale quella, nel caso
di specie, del Regno di Spagna), volta ad accordare l’esenzione fiscale
unicamente ad attività connesse all’organizzazione di giochi e
scommesse, gestiti da organismi con sede nello Stato impositore, e non
anche a società stabilite in altri Stati dell’Unione Europea.
Resta da vedere, a questo punto, come i tribunali penali italiani, sia quelli de libertate che
quelli di merito, da sempre orientati – per la maggior parte – nel
senso della non punibilità dei soggetti dediti al libero esercizio
dell’attività di raccolta delle scommesse on line, recepiranno, nei prossimi mesi, il brusco arresto giurisprudenziale registrato con la sentenza in epigrafe.
(Altalex, 21 gennaio 2010. Nota di Davide Galasso)
____________
[1]
A tal proposito, ed in estrema sintesi, occorre precisare che, in base
alla vigente normativa italiana, l’attività di raccolta delle scommesse
può essere legittimamente esercitata solo quando il soggetto
interessato abbia previamente ottenuto: A) il rilascio della
concessione per l’esercizio dell’attività di gioco e di scommessa, da
parte del CONI o dell’UNIRE. Tali soggetti sono a loro volta
autorizzati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze –
Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS) ad organizzare le
scommesse e ad affidare la loro gestione a terzi, in eventi posti sotto
il loro controllo; B) il rilascio dell’autorizzazione alla trasmissione
di dati per via telematica da parte del Ministero per le Comunicazioni;
C) il rilascio della licenza di polizia ex art. 88 R.D. 18
giugno 1931 n. 773, o Testo Unico delle Leggi Pubblica Sicurezza (in
prosieguo: TULPS), la quale, da un lato, presuppone il previo
ottenimento della concessione amministrativa; dall’altro, viene negata
a chi ha subito una condanna a determinate pene o per particolari
delitti, ad esempio, per reati contro la moralità pubblica ed il buon
costume o per violazione della normativa relativa ai giochi d’azzardo.
[2]
Tale orientamento si è sviluppato già prima della citata sentenza delle
Sezioni Unite. Si vedano, in particolare, tra le tante: Tribunale del
Riesame di Napoli, 26 aprile 2004; Riesame di Santa Maria Capua Vetere,
24 febbraio 2004; Riesame di Pistoia, 19 febbraio 2004; Riesame di
Campobasso, 12 febbraio 2004; Riesame di Pisa, 29 dicembre 2003; Gip
del Tribunale di Nicosia, 18 febbraio 2004; Gip Pisa, 12 febbraio 2004;
Gip Catania, 9 febbraio 2004; Gip Pescara, 4 febbraio 2004; Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Chieti, 17 febbraio 2004;
Procura Lamezia Terme, 12 febbraio 2004; Procura Reggio Calabria, 2
febbraio 2004; Procura Avellino, 23 gennaio 2004; C. App. Milano, 27
novembre 2003, n. 5203; Trib. Teramo, 14 novembre 2003, inedite a
quanto consta, nonché Trib. Viterbo 5 giugno
[3] In realtà, già a partire dalla sentenza Schindler (24 marzo
In dottrina, circa l’esigenza di una legge organica che, oltre alle
sanzioni penali, preveda concreti rimedi di natura amministrativa, che
inibiscano in via immediata l’esercizio di attività svolte da soggetti
privi delle necessarie autorizzazioni, si veda Migliorelli, Brevi
note in tema di compatibilità con le norme comunitarie delle
disposizioni nazionali restrittive in materia di giochi e scommesse, su http://ssai.interno.it.
[4] In senso conforme si pongono diverse altre pronunce di legittimità successive. Ex multis si segnala Cass. pen., sez. III, 23 giugno 2004, n. 36038, secondo cui “(…) la
giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ammesso
la legittimità del regime concessorio degli Stati membri, purchè
giustificato da motivi imperativi di interesse generale” (tra i quali rientra appunto la tutela dell’ordine pubblico).
[5] In questo senso anche Guastella, Gioco e scommesse on line: la normativa italiana contrasta con i principi europei…ma non troppo!, p. 3, su www.diritto.it.
[6]
Nello stesso senso si è successivamente espresso il Tribunale di
Viterbo, nell’ordinanza del 2 novembre 2004 – 25 ottobre 2005,
denotando come “l’affidamento in concessione da parte del Coni non
prevede verifiche, indagini o accertamenti di qualsivoglia natura in
ordine alla personalità del soggetto istante, non rilevano gli
eventuali precedenti penali, non vengono richieste certificazioni
antimafia né attestazioni di altra natura, sicché in definitiva difetta
nel sistema normativo qualsivoglia verifica posta a garanzia
dell’ordine pubblico sotto il profilo della sicurezza pubblica, della
prevenzione dei reati o dell’impedimento di infiltrazione della
criminalità organizzata nell’esercizio delle scommesse, richiedendosi
agli aspiranti concessionari esclusivamente adeguate garanzie sotto il
profilo economico”.
[7] Su tali basi, il Tribunale di Sassari, con ordinanza depositata il 19 novembre
ritenuto non manifestamente infondata la questione di illegittimità
costituzionale dell’art. 88 TULPS nella parte in cui chiede, quale
condizione indispensabile per il rilascio della licenza di polizia, il
previo conseguimento della concessione.
[8] Si veda Monti, Perri, La concessione di giochi d’azzardo e del gioco lecito on line, p. 18, da Ciberspazio e diritto, vol. 6, n. 4, dicembre
seguito, sul problema della discriminazione degli operatori esteri, si
è pronunciato il Tribunale di Macerata, con ordinanza del 20 marzo
2006, sollevando questione di illegittimità costituzionale dell’art.
401/89, per violazione degli artt. 3, 10, 11 e 41 Cost., in relazione
all’art. 88 TULPS, nella parte in cui tale normativa, ponendo
limitazioni alla libertà d’impresa, di stabilimento e di libera
prestazione di servizi, opera una disparità di trattamento nei
confronti dell’operatore economico che esercita, per conto di un bookmaker inglese, l’attività di ricevitoria di scommesse, in difetto di concessione o autorizzazione.
[9] Si veda Pascerini, Giochi e scommesse on line: la finanziaria contro
[10] Così si è espresso, fra gli altri, il TAR Abruzzo, 26 luglio 2005, n. 661.
[11] Ex multis,
Cons. Stato, sez. IV, 29 settembre 2005, n. 5203; sez. VI, 24 ottobre
2005, n. 5898; sez. VI, 14 luglio 2006, n. 5644; sez. VI, udienza del
13 febbraio 2007.
[12]
Il Tribunale del riesame di Teramo, con ordinanza pronunciata il 25
ottobre 2004, aveva infatti trasmesso gli atti alla Corte
Costituzionale affinché valutasse la legittimità costituzionale, in
riferimento agli articoli 3 e 41 Cost., dell’articolo 88 TULPS, nella
parte in cui tale norma limita il rilascio della licenza di polizia,
necessaria per l’apertura di una sala-scommesse, unicamente a coloro
che siano in possesso di concessione dello Stato italiano. Già in
passato
contestualmente questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia
(al fine di accertare la compatibilità della normativa de qua con
l’ordinamento comunitario e dunque la sua applicabilità in quello
italiano) e questione di legittimità costituzionale, presupponendo
necessariamente la sua applicabilità. Pertanto, i giudici della
Consulta dichiaravano la manifesta inammissibilità della questione, con
ciò lasciando alla Corte di giustizia la decisione in merito (poi
avutasi con la citata sentenza Gambelli).
[13]
Nel corso di tale udienza, l’avvocato generale Dàmaso Ruiz‑Jarabo
Colomer aveva infatti proposto alla Corte di giustizia di risolvere le
questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Teramo – con
ordinanza del 23 luglio 2004 – e dal Tribunale di Larino – con analoga
ordinanza depositata l’8 luglio 2004 – dichiarando che «Gli articoli
43 e 49 CE devono essere interpretati nel senso che si oppongono ad una
normativa nazionale che vieta, sanzionando con pene detentive fino a
tre anni, di raccogliere, accettare, registrare o trasmettere
scommesse, senza concessione né autorizzazione dello Stato membro di
cui trattasi, per conto di un’impresa, alla quale non viene consentito
di ottenere tale concessione o autorizzazione nel detto Stato, ma che
possiede una licenza per fornirli, rilasciata da un altro Stato membro,
nel quale è stabilita».
[14] Cass. pen., sez. III, 28 marzo 2007, n. 16928; in senso conforme, Cass. pen., sez. III, 27 aprile 2007, n. 25170.
[15] Trattasi della soluzione adottata da Cass. pen., sez. III, sentenza 5 maggio 2009, n. 26912.
[16]
Così Cass. pen., sez. III, 22 ottobre 2008, n. 2417: come si vedrà
appresso, tale posizione avvicina la giurisprudenza della Cassazione a
vedute analoghe a quelle del Consiglio di Stato e (alla luce della
sentenza in commento) della stessa Corte di Giustizia delle Comunità
Europee, circa la centrale valenza da attribuire alla licenza di
polizia di cui all’art. 88, TULPS.
[17] Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee del 13 giugno 2006, nella causa C-173/03 Traghetti del Mediterraneo Spa/Repubblica italiana.
[18]
Vedi, fra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 18 marzo 2008, n. 1108; sez.
VI, 16 gennaio 2009, n. 208; sez. VI, 7 maggio 2009, n. 2827.
[19] Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 6 ottobre