Scuola, se il diritto ai bermuda diventa un caso per la polizia
La circolare è di dieci giorni fa, quando in realtà a Trieste c’era ancora una bora da 100 km orari. Ma sembra che il preside Raffaele Marchione sia persona previdente. E infatti: «Con l’approssimarsi della bella stagione – è scritto su quel foglio che gira di classe in classe – si invitano allieve e allievi a indossare un abbigliamento adeguato durante le lezioni». Cosa vuol dire adeguato? Sembra che il preside Marchione sia anche un po’ pignolo. E infatti: «Non saranno accolti studenti con abbigliamento da spiaggia (spalle scoperte, pantaloni corti o a mezza gamba)».
È a fine maggio, in tutte le città di mare, la campanella annuncia in un suono solo la fine delle lezioni e il trasferimento in spiaggia. Un po’ di sole, due chiacchiere, un panino e poi a casa: che c’è di meglio? A Trieste i ragazzi si trovano ai Topolini, le piattaforme sul lungomare di Barcola. Ed è forse questo il doposcuola che hanno in mente i 30 studenti che l’altra mattina si presentano al portone del Tommaso di Savoia, Istituto tecnico navale. Sono in maglietta (ok), scarpe da tennis (ok), e bermuda (ahi), cioè i pantaloni a mazza gamba messi al bando dalla circolare. Il preside è sicuro, si tratta di una protesta organizzata. E spedisce il bidello Francesco a sbarrare la strada agli studenti in «abbigliamento non adeguato». Non è certo il primo caso, con le circolari delle scuole in tema di «abbigliamento adeguato» si potrebbe riempire una rivista di moda.
Da Trieste in giù sono state vietate le infradito, vietati i pantaloni a vita bassa (con relativo sondaggio durante Domenica in), vietate le minigonne, il piercing, gli abiti sexy e pure i mini top. Altro che Mohammed al Shribini – rettore dell’Università di Tanta, delta del Nilo – che ha messo fuori legge solo i pantaloni aderenti. La vera novità, a Trieste, sta nella reazione dei ragazzi che non vanno direttamente al mare e non provano nemmeno a forzare il blocco del bidello Francesco. Ma, nientemeno, chiamano la polizia. Gli agenti arrivano, ascoltano i ragazzi, parlano con il vice preside mentre le trasmittenti gracchiano lungo i corridoi del Tommaso di Savoia. Una trattativa vera e propria che arriva a un compromesso: in bermuda può entrare solo chi mette il proprio nome e cognome sul foglio che tiene in mano il bidello Francesco, sempre fermo lì davanti al portone. Entrano in otto, quelli che hanno una prova pre esame che non possono mancare. Ma hanno paura perché con il 5 in condotta si viene bocciati e a cosa serve quel foglio che il bidello Francesco sta portando al preside? Gli altri ragazzi si dividono: chi torna a casa, chi va ai Topolini di Barcola. Almeno una decina, però, si fermano davanti alla scuola, lì in piazza Hortis, a ripassare il programma con un professore di buon cuore.
Cosa faranno adesso? Qualcuno vorrebbe tornare a scuola di nuovo con i bermuda. Forse potrebbero prendere esempio da Chris Whitehead, studente dell’Impington Village College, vicino a Cambridge. Anche lì il preside aveva vietato di entrare in classe con i pantaloni corti. Lui si è presentato con la divisa femminile, gonna e camicetta, parlando di discriminazione nei confronti degli studenti maschi. La sua mamma ha detto di essere «molto orgogliosa del suo coraggio».