Se il mittente è Equitalia la cartella non è valida
C’è uno scoglio normativo che rischia d’invalidare le notifiche delle cartelle esattoriali inviate da Equitalia via posta, in genere per raccomandata con ricevuta di ritorno. E attenzione, che se da una parte questo giornale ha sempre rimarcato la necessità che la società incaricata della riscossione dei tributi inevasi tenga in maggior considerazione le specifiche situazioni – e ci si riferisce ai casi in cui i mancati pagamenti son dovuti a disavventure personali o accertate crisi aziendali e via dicendo – d’altra parte non si vuol certo indicare ai furbetti della tassa non pagata la strada per sfangarla. Resta il fatto che il problema esiste. Ed è peraltro già noto alle commissioni tributarie di tutta Italia.
Il fatto è che, in sostanza, la notifica della cartella esattoriale effettuata da Equitalia per posta rischia di non esser valida. Lo dice la legge. O meglio, lo si evince. Nel senso: è vero che la norma 890/82, quella che si applica al’Amministrazione finanziaria dello Stato, all’art. 14 prevede gli avvisi possano esser notificati al contribuente anche a mezzo della posta. E però questa disposizione è riservata agli uffici che esercitano la potestà impositiva, non agli agenti di riscossione. D’altro canto – come peraltro rimarcato proprio da una sentenza della Commissione tributaria di Lecce dello scorso anno e confermata tra le altre da un altro verdetto emesso da quella di Foggia il 13 maggio – l’art. 26 della legge 602/73 inizialmente prevedeva sì la notifica per posta anche da parte dell’esattore, facoltà però revocata dal decreto legge 46/99, in base al quale (art. 12) «la cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale convenzione tra Comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della Polizia municipale». Ragion per cui, dunque, i giudici tributari concludono che tale facoltà è riservata «agli uffici che esercitano potestà impositiva, e quindi solo all’Agenzia delle Entrate, la possibilità di notificare avvisi e altri atti a mezzo posta». Conclusione: le notifiche inviate direttamente da Equitalia sono nulle.
Ambiguità – come detto – da risolvere in fretta. Anche perché, delle 34 milioni di cartelle Equitalia notificate ai contribuenti negli ultimi due anni, quelle inviate via raccomandata rappresentano il 40-50 per cento: se tutti facessero ricorso sarebbe un disastro per la società in questione, e in ultima analisi anche per l’Erario. E però le contestazioni, proprio basandosi sull’impossibilità di notifica, si stanno moltiplicando, con le Commissioni tributarie a dar ragione ai ricorrenti: per fare solo qualche esempio, è successo a Vicenza il 13 aprile, poi come detto a Foggia il 13 maggio, a Campobasso l’11 giugno e a Genova il 27 dello stesso mese, e ancora Milano, Catanzaro, Parma, Roma. Dappertutto. Le sentenze delle Commissioni tributarie non fanno in genere giurisprudenza su tutto il territorio nazionale, ma in questo caso tutte le sezioni locali arrivano alla stessa conclusione. C’è però da dire che al contrario la Corte di Cassazione, con la sentenza del 2011, ha stabilito che invece la notifica postale di Equitalia può esser considerata valida. Pronunciamento che però non convince i giudici tributari che dopo quel verdetto hanno continuato a dar ragione ai ricorrenti.
Scritto questo, che il sistema di riscossione fiscale sia quantomeno da riorganizzare, ecco, questo è un fatto. Allora cambiamo (parzialmente) discorso e passiamo ai contenziosi tributari, persone e imprese che portano il fisco – o chi per esso – davanti al giudice poiché si ritengono vittime d’una qualche ingiustizia o sopruso. E anche qui, non si tratta di dare addosso all’Erario in quanto tale: errori e disservizi e assurdi burocratici non sono certo esclusiva di questo o quell’ufficio. Ma insomma, i numeri fanno impressione. Perché i contenziosi fiscali pendenti davanti alle Commissioni tributarie – a tutto il 31 dicembre 2009 – s’avvicinano al milione. Per la precisione: 945mila e 295. E già questo è un problema mica da ridere. In questo senso l’attuale governo, per la verità, ha introdotto l’istituto della mediazione per le liti in cui è in ballo una cifra che non superi i 20mila euro: in caso di accordo, è prevista una riduzione del 40% della sanzione. I dati aggiornati alla fine dello scorso maggio parlano di oltre 125mila istanze di mediazione presentate, e però solo 14mila andate a buon fine.
Per quanto riguarda invece i verdetti relativi ai contenziosi: il primo grado di giudizio (che si svolge presso la Commissione provinciale), nel 35,6% dei casi il giudice dà ragione del tutto al contribuente. Significa che una volta su tre il Fisco ha cercato d’incassare dal contribuente soldi non a lui dovuti, e scusate ma – in tempi di pressione fiscale così alta – l’umore non ne giova. Senza contare che c’è un altro 25% di procedimenti in cui il magistrato propende per, diciamo così, una soluzione di compromesso. La percentuale di sentenza favorevoli al ricorrente addirittura sale – e arriva al 44,2% – nel secondo grado di giudizio, quello su cui decidono le Commissioni regionali.
Numeri sui quali, qualche mese fa, s’è innescata una piccola polemica. Con il direttore generale dell’Agenzia delle Entrate Attilio Befera a rivendicare un numero sempre più elevato di sentenza favorevoli all’Erario. E la risposta del centro studi torinese Eutekne, vicino alla categoria dei commercialisti, secondo il quale invece il 40% dei ricorsi si è concluso a favore dell’ente impositore (lo Stato, per l’appunto) e il 36,08% a favore del contribuente, mentre il resto va in estinzioni, verdetti di compromesso, conciliazioni. Ma anche questi dati sarebbero da correggere a favore dei contribuenti. Perché se si tolgono i ricorsi rigettati per via di vizi procedurali e si considerano solo quelli arrivati a sentenza di merito, ecco che – sostiene Eutekne – «i contribuenti si vedono dar ragione, in tutto o in parte, il 60,98% delle volte».