Senza consenso informato del paziente c’è il risarcimento anche quando l’intervento è stato eseguito bene
L’intervento terapeutico (o chirurgico) era
necessario ed è stato correttamente eseguito, ma c’è ugualmente spazio
per il risarcimento al paziente se mancò il consenso informato. La
violazione del diritto all’autodeterminazione dell’ammalato comporta la
risarcibilità di ogni danno non patrimoniale che ne è derivato. Ma se
il cliente del medico lamenta anche la lesione alla salute per il
mancato consenso dovrà dimostrare che, messo al corrente dei rischi
collegati, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento. Basta la
sola diagnosi del professionista, poi, a instaurare un rapporto
contrattuale con l’assistito e, dunque, a configurare l’obbligo di
illustrare le potenziali conseguenze della prestazione sanitaria. È una
vera e propria sentenza-manifesto la 2847/10, emessa dalla terza
sezione civile della Cassazione. Tra medico e paziente – osservano gli
“ermellini” – serve un’«alleanza terapeutica». Il diritto alla salute e
quello all’autodeterminazione del paziente, tuttavia, viaggiano su
piani diversi. Anche il secondo costituisce una prerogativa
fondamentale della persona e la violazione che si è consumata rispetto
al dovere d’informazione nel campo della tutela terapeutica fa scattare
la risarcibilità del danno non patrimoniale costituito, ad esempio,
dalle sofferenze determinate dalle conseguenze dell’intervento subite
dal paziente che non sono state prospettate dal medico. A patto che
l’offesa vada oltre un livello minimo di tollerabilità. Non giova al
sanitario eccepire che la prova del fatto illecito, nella specie del
mancato consenso, dovrebbe essere fornita dal creditore: basta il mero
intervento del medico in funzione diagnostica a far scattare il
contratto con il paziente e se quest’ultimo allega l’inadempimento del
professionista spetta al camice bianco dimostrare di avere onorato
l’obbligazione.
Il caso
E’ stato accolto parzialmente,
contro le conclusioni del pm, il ricorso del chirurgo: nonostante
l’intervento fosse stato realizzato a regola d’arte, la paziente ha
subito gravi complicanze. Sbaglia però il giudice del merito a
liquidare il danno morale soggettivo correlato esclusivamente al danno
alla salute: certo, la Corte d’appello avrebbe dovuto verificare se il
paziente, adeguatamente informato della pericolosità, si sarebbe poi
sottratto all’intervento. Ma soprattutto spetta all’ammalato dimostrare
il proprio eventuale rifiuto della prestazione: si tratta pur sempre di
stabilire in quale senso si sarebbe orientata la sua scelta personale e
dunque la distribuzione dell’onere probatorio risulta influenzata dal
principio della «vicinanza» al fatto da documentare. Sarà allora il
giudice del rinvio a mettere la parola “fine” alla vicenda. Intanto, in
tema di medici e perizie, compete soltanto al giudice del merito la
scelta delle risultanze probatorie cui conferire un rilievo
determinante; unicamente a lui, insomma, spetta interpretare il
risultato di una complessa attività intellettiva come quella affidata
al consulente tecnico d’ufficio.