Senza notifica della cartella è nullo l’avviso di mora
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Vincenzo CARBONE Presidente Aggiunto, Dott. Gaetano NICASTRO – Presidente di Sezione, Dott. Salvatore SENESE –Presidente di Sezione, Dott. Mario MORELLI– Consigliere, Dott. Francesco BONOMO– Consigliere, Dott. Emilio MALPICA– Consigliere, Dott. Giovanni AMOROSO– Consigliere, Dott. Francesco TIRELLI– Consigliere, Dott. Raffaele BOTTA– Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
F.LLI VELATTA S.D.F., in persona della ex socia Velatta Angela, selettivamente domiciliata in Roma, via Otranto 26, presso l’Avv. Mario Massano, che, unitamente agli avv.ti Edoardo Andreotti-Loria e Angelo Velatta, la rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
Contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLA FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore Generale pro tempore, selettivamente domiciliato in Roma, via dei portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto (Venezia), Sez. 26, n. 11/26/03, del 16 gennaio 2003, depositata il 7 maggio 2003, non notificata;
Udito l’Avv. Diego Giordano per L’Avvocatura Generale dello Stato;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3 luglio 2007 dal Consigliere Dott. Raffaele Botta;
Udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. Domenico Iannelli, che ha chiesto l’accoglimento del primo e del secondo motivo di ricorso, rinvia per il resto ad una sezione semplice.
Svolgimento del processo
La controversia origina dall’impugnazione proposta dalla società contribuente avverso l’avviso di mora emesso dalla GE.RI.CO. S.p.A. (Concessionario del servizio riscossione tributi della provincia di Venezia) con riferimento all’anno d’imposta 1991 e notificato in data 4 dicembre 1998, senza, tuttavia, essere preceduto dalla notifica della cartella esattoriale.
Il ricorso era proposto sia nei confronti dell’Ufficio delle Entrate di Venezia, sia nei confronti del sunnominato concessionario, contestando la legittimità dell’avviso di mora sotto più profili: a) per mancata previa notifica della cartella esattoriale; b) per carenza degli elementi previsti dall’art. 25 del D.P.R. n. 602 del 1973; c) per eseguita notifica alla società di fatto cessata dal 1990 e non ai singoli soci; d) per intervenuta decadenza ex art. 39 della L. n. 413 del 1991 (essendo la società contribuente successivamente venuta a conoscenza che l’avviso in questione concerneva la liquidazione della domanda di condono presentata nel 1992); e) per omessa motivazione; d) per violazione della procedura prevista dall’art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973.
La Commissione adita accoglieva il ricorso ritenendo intervenuta la decadenza ex art. 39 della L. n. 413 del 1991, assorbite tutte le altre censure. La decisione era riformata in appello, con la sentenza in epigrafe, la quale dichiarava legittimo l’operato dell’ufficio, affermando l’infondatezza di tutte le censure mosse dalla società contribuente.
Avverso tale sentenza la società contribuente propone ricorso per cassazione con sei motivi. Resistono con controricorso il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle Entrate. Non è stato, invece, in questa sede evocato in giudizio il concessionario che pur aveva partecipato alle pregresse fasi di merito.
La Sezione tributaria di questa Corte con ordinanza n. 13314 depositata il 7 giugno 2006 ha rimesso la causa al Primo Presidente, che l’ha assegnata alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale circa la legittimità della notifica dell’avviso di mora in assenza della previa notifica della cartella esattoriale.
Motivazione
Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività sollevata dalle parti controricorrenti.
Invero la stessa parte ricorrente ammette di aver proposto il ricorso oltre il termine previsto dall’art. 327 del codice di procedura civile – dato che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 7 maggio 2003 e il ricorso per cassazione notificato il 31 gennaio 2005 -, ma asserisce di aver correttamente agito in ragione della sospensione dei termini di impugnazione disposta dall’art. 16, comma 6, secondo periodo, della L. n. 289 del 2002, il quale ha stabilito, nella sua definitiva formulazione, che “per le liti fiscali che possono essere definite ai sensi del presente articolo sono altresì sospesi, sino al 1 giugno 2004, salvo che il contribuente non presenti istanza di trattazione, i termini per la proposizione di ricorsi, appelli, controdeduzioni, ricorsi per cassazione, controricorsi e ricorsi in riassunzione, compresi i termini per la costituzione in giudizio”.
Alla luce di questa disposizione, ove la lite che oppone la società contribuente all’Amministrazione finanziaria fosse “definibile” ai sensi della medesima disposizione agevolativa, il termine per impugnare la sentenza della Commissione tributaria centrale pubblicata quando ne era stata disposta la sospensione – che operava dal 1 gennaio 2003 al 1 giugno 2004 (vd. Cass. n. 22891 del 2005) -, il ricorso in esame non sarebbe stato proposto tardivamente, decorrendo nel caso di specie il termine ex art. 327 del codice di procedura civile dal 2 giugno 2004.
Orbene, la società contribuente afferma, e le amministrazioni controricorrenti confermano, di aver presentato in data 20 aprile 2004 domanda di definizione della lite ai sensi dell’art. 16 della L. n. 289 del 2002 e che la predetta istanza stata “rigettata” con provvedimento n. 15278 del 12 novembre 2004 – del quale è preannunciata l’impugnazione in altra sede (poiché il diniego è intervenuto prima che fosse pendente il giudizio innanzi a questa Corte) -, avendo l’Amministrazione ritenuto inammissibile un cosiddetto “condono di condono”, ossia la definibilità secondo la legge premiale del 2002 di una controversia relativa ad una fattispecie per la quale il contribuente si fosse già avvalso della procedura di definizione prevista da un precedente provvedimento legislativo (nel caso di specie, rappresentato dalla L. n. 413 del 1991, in base alla quale la società contribuente aveva avviato una “procedura di condono”).
La valutazione della tempestività del ricorso impone, quindi, di verificare se la lite in questione sia “astrattamente” definibile a norma dell’art. 16 della L. n. 289 del 2002, tanto essendo sufficiente ai fini dell’applicabilità’ della sospensione del termine di impugnazione, rimanendo, invece, riservato al giudice investito del ricorso avverso il diniego di condono il giudizio sulla definibilità “in concreto” della controversia de qua.
In proposito questa Corte ha, in linea generale, rilevato che “le disposizioni dell’art. 16 della L. 27 dicembre 2002, n. 289, ispirate all’esigenza di liberare rapidamente risorse umane ed economiche, da destinare ad altre attività, e di abbattere il contenzioso assicurando all’Erario un gettito immediato e sicuro, vanno coerentemente interpretate, con la conseguenza che non può ritenersene legittima una lettura che individui fatti preclusivi della fruizione del beneficio ulteriori e diversi rispetto alle specifiche previsioni ivi contenute” (Cass. n. 22870 del 2006).
Sul punto più specifico, riguardante la fattispecie di “condono di condono”, la Corte ha stabilito una regola generale secondo la quale “il condono fiscale, essendo un accertamento straordinario o eccezionale, in deroga alle norme generali ed ordinarie, di un rapporto giuridico tributario, non è ammissibile, in mancanza di un’esplicita disposizione legislativa, relativamente a un altro condono: consentire un ulteriore accertamento straordinario, derivante da una legge successiva, di un rapporto già accertato in via straordinaria, equivarrebbe, infatti, ad ammettere un’eccezione di secondo grado” (Cass. n. 21238 del 2006).
A questa regola generale sono state, tuttavia, individuate alcune eccezioni
E’ stato così stabilito che “non rientrano nel concetto di lite pendente, e non sono pertanto suscettibili di definizione agevolata ai sensi dell’art. 16 della L. 27 dicembre 2002, n. 289, le controversie aventi ad oggetto esclusivamente la liquidazione, senza applicazione di sanzioni, di dichiarazioni integrative presentate dal contribuente in occasione di un precedente provvedimento di condono (nella specie, quello previsto dal D.L. 10 luglio 1982, n. 429, convertito in L. 7 agosto 1982, n. 516), a meno che la controversia non investa l’interpretazione e la portata applicativa della domanda di condono originariamente presentata: in tal caso, infatti, non esaurendosi la lite nell’esatta determinazione delle somme dovute dal contribuente ai fini della definizione agevolata, oggetto della controversia non è esclusivamente l’attività vincolata volta alla mera applicazione della legge attraverso l’esecuzione di operazioni di calcolo sulla base degli importi dichiarati dal contribuente” (Cass. n. 15843 del 2006).
Ed ancora, pur confermandosi la non ammissibilità, di regola, dell'”applicabilità di un condono ad una controversia concernente una cartella di pagamento relativa ad un precedente condono”, “ciò non toglie, però”, ad avviso della Corte, “che in un momento successivo possa insorgere una nuova controversia, effettiva e non meramente apparente, relativa all’applicazione della normativa di condono oppure all’interpretazione o alla valutazione della dichiarazione integrativa.
In tal caso, pertanto, si è in presenza di una lite pendente suscettibile di definizione ai sensi dell’art. 16, comma 3, lettera a), della L. 27 dicembre 2002, n. 289, con conseguente sospensione dei termini di impugnazione in base al disposto dal comma 6 del citato art. 16 (nella fattispecie, si trattava di controversia concernente una cartella di pagamento relativa alla dichiarazione integrativa presentata ai sensi della L. 30 dicembre 1991, n. 413, che l’ufficio aveva ritenuto potesse valere soltanto come dichiarazione integrativa semplice e non come istanza di definizione automatica)” (Cass. n. 20785 del 2005; nello stesso senso, se pur con riferimento ad altra fattispecie concreta, Cass. n. 8591 del 2006).
Così anche, ribadendo che “le controversie aventi ad oggetto la mera liquidazione delle dichiarazioni integrative accolte in virtù di un precedente condono non rientrano nel concetto di lite pendente, ai sensi dell’art. 16 della L. 27 dicembre 2002, n. 289, e non sono pertanto suscettibili di definizione agevolata, né di sospensione ai sensi del comma sesto della medesima disposizione (come sostituito dall’art. 5-bis, lettera l), n. 8), del D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, convertito in L. 21 febbraio 2003, n. 27)”, si è escluso che tale regola potesse valere se la controversia investe “un provvedimento che, pur se originato dall’applicazione di una precedente normativa di condono, ha natura impositiva, o perchè costituisce l’unico atto con cui l’Amministrazione esercita la pretesa tributaria, o perchè la vis impositiva è resa evidente dall’applicazione di sanzioni” (Cass. n. 8275 e n. 2962 del 2006).
Fino ad affermare che “non può escludersi la sussistenza di una lite pendente in riferimento all’impugnazione di una cartella esattoriale, qualora nel relativo giudizio si discuta dell’applicazione di una precedente normativa di condono” (Cass. n. 10537 del 2006; vd. anche in una prospettiva analoga Cass. n. 10539 del 2006).
Si è così formato, pur non senza qualche incertezza, un orientamento che privilegia un’interpretazione favorabilis della normativa premiale, tesa a ridurre al minimo le situazioni “astrattamente” preclusive della possibilità del contribuente di potersi avvalere della procedura di definizione della lite fiscale prevista dalla legge e ad assumere come “criterio guida” per un giudizio sulla definibilità della specifica controversia l’analisi “caso per caso” delle singole fattispecie litigiose.
In questa prospettiva, il giudizio relativo all’applicabilità della sospensione dei termini di impugnazione ex art. 16 della L. n. 289 del 2002 ad una determinata controversia – che richiede una valutazione ex ante della definibilità della lite, la quale non può sovrapporsi alla valutazione dell’Amministrazione finanziaria destinataria della domanda di condono, quando ne sia in corso l’istruttoria o quando la domanda stessa sia stata respinta con provvedimento impugnato innanzi al giudice competente (come è nel caso di specie) – deve necessariamente risolversi in un’indagine su fatti “astrattamente” preclusivi della definibilità della lite.
Sicché, con riferimento alla fattispecie in esame, deve ritenersi “astrattamente” condonabile la lite e, quindi, applicabile la sospensione dei termini disposta dalla legge premiale, con la conseguente ammissibilità del ricorso per cassazione in esame: a) tenuto conto, secondo gli orientamenti giurisprudenziali surriportati, che il fatto che la controversia in atto concerna l’applicazione di una precedente normativa di condono, non preclude di per definizione della lite prevista dall’art. 16 della L. n. 289 del 2002 (vd. Cass. n. 10537 del 2006), b) e considerato che la controversia de qua non appare prima facie relativa ad una mera liquidazione di imposta sulla base della dichiarazione del contribuente, stante la non irrilevante differenza tra la pretesa tributaria azionata dall’Amministrazione finanziaria e quanto pagato direttamente dal contribuente medesimo in sede di presentazione della precedente domanda di condono. Resta salva la valutazione, riservata al giudice competente, se, nel caso di specie, la lite sia “definibile” anche “in concreto”.
Tanto stabilito, è possibile passare all’esame della questione per la quale la causa è stata sottoposta alla valutazione delle Sezioni Unite della Corte e, cioè, se, nel vigore della disciplina del procedimento di riscossione mediante ruoli anteriore al D.Lgs. n. 46 del 1999, l’avviso di mora notificato al contribuente sia nullo a causa della mancata prevista notifica, al medesimo contribuente, della cartella di pagamento.
La questione che certamente può ritenersi questione di massima di rilevante importanza è rimessa all’esame delle Sezioni Unite per il rilevato contrasto esistente in proposito all’interno della Corte, e specialmente nella Sezione tributaria, contrasto che fa riferimento ad un triplice orientamento: a) un primo, secondo il quale la mancata previa notifica della cartella sarebbe sostanzialmente irrilevante, stante la possibilità, normativamente prevista, che il contribuente impugni, insieme all’avviso di mora, anche l’atto presupposto omesso, opponendo tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre nell’impugnare quest’ultimo, ove esso gli fosse stato regolarmente notificato (in particolare, Cass. n. 7533 e n. 16464 del 2002); b) un secondo, secondo il quale la mancata previa notifica della cartella determinerebbe in ogni caso la nullità dell’avviso di mora (in particolare, Cass. n. 2798 e 7649 del 2006); c) un terzo, secondo il quale l’avviso di mora non preceduto dalla notifica della cartella sarebbe valido solo a condizione che esso contenga tutti gli elementi propri della cartella ed utili all’individuazione della specifica pretesa tributaria e delle relative ragioni (in particolare, Cass. n. 1430 del 2003; nello stesso senso, anche se in relazione a fattispecie parzialmente diversa, Cass. n. 15858 del 2005).
La soluzione della questione richiede un’attenta interpretazione di una serie di norme di diritto sostanziale e processuale, nella loro formulazione previgente alla riforma disposta dal D.Lgs. n. 46 del 1999, che ha, tra l’altro, soppresso l’avviso di mora.
Sotto il primo profilo (diritto sostanziale) sono da considerare: a) l’art. 25 del D.P.R. n. 602 del 1973 che nel testo applicabile ratione temporis, disponeva: “L’esattore, non oltre il giorno cinque del mese successivo a quello nel corso del quale il ruolo gli è stato consegnato, deve notificare al contribuente la cartella di pagamento.
La cartella deve indicare il tributo, il periodo d’imposta, l’imponibile, l’aliquota applicata e l’ammontare della relativa imposta, l’importo dei versamenti diretti effettuati, le somme dovute dal contribuente a titolo di imposta nonché per interessi, sopratasse e pene pecuniarie, la ripartizione in rate, la specie del ruolo, e ogni altro elemento in conformità ai modelli approvati con decreto del Ministro per le finanze, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale”; b) gli artt. 45, comma 1, e 46, comma 1, del medesimo decreto che, sempre nel testo applicabile ratione temporis, disponevano rispettivamente: “Per la riscossione delle imposte non pagate nei modi e nei termini stabiliti l’esattore procede all’espropriazione forzata in virtù del ruolo, previa notificazione dell’avviso di mora”, e “L’esattore prima di iniziare l’espropriazione forzata nei confronti del debitore moroso deve notificargli un avviso contenente l’indicazione del debito, distintamente per imposte, sopratasse, pene pecuniarie, interessi, indennità di mora e spese, e l’invito a pagare entro cinque giorni”; c) infine, l’art. 30, comma 3, del medesimo decreto (nel testo modificato dall’art. 5, comma 4, lettera a), del D.L. n. 669 del 1996, convertito con L. n. 30 del 1997, applicabile ratione temporis), che disponeva: “L’indennità’ di mora è dovuta dopo il decorso di sedici giorni, ovvero sessanta giorni se l’imposta è stata liquidata ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 dalla notificazione dell’avviso di mora quando l’esattore non abbia notificato la cartella di pagamento…”.
Sotto il secondo profilo (diritto processuale) sono da considerare: a) l’art. 16, comma 3, del D.P.R. n. 636 del 1972, come sostituito dall’art. 7 del D.P.R. 739 del 1981 (previgente contenzioso), a norma del quale “Il ricorso contro l’ingiunzione, il ruolo e l’avviso di mora è ammesso anche per motivi diversi da quelli relativi a vizi loro propri soltanto se tali atti non siano stati preceduti dalla notificazione dell’avviso di accertamento o dell’avviso di liquidazione della imposta o del provvedimento che irroga la sanzione”; b) l’art. 19, comma 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992 (vigente sistema processuale tributario), a norma del quale “Gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente. Ognuno degli atti autonomamente impugnabili (tra i quali è elencato, al comma 1, lettera e), l’avviso di mora) può essere impugnato solo per vizi propri. La mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo”.
Dall’esame delle norme di diritto sostanziale emerge con evidenza una differenza strutturale e funzionale tra i due atti: la cartella è inquadrata nella disciplina della riscossione mediante ruoli; l’avviso di mora è inquadrato nella disciplina della riscossione coattiva mediante espropriazione forzata.
Il primo atto costituisce il presupposto per la notifica del secondo, serve a portare a diretta conoscenza dell’interessato la pretesa tributaria iscritta nei ruoli ed ha, quindi, un contenuto necessariamente più ampio dell’altro, la cui notifica è – a differenza della notificazione della cartella – meramente eventuale, essendo prevista per il caso in cui il contribuente, reso edotto dell’imposta dovuta, non ne abbia eseguito spontaneamente il pagamento nei termini indicati dalla legge.
Tanto basta per escludere che l’avviso di mora possa legittimamente essere utilizzato in funzione di (ossia come atto sostitutivo o equivalente della) cartella di pagamento (della quale sia stata omessa la notificazione): ammettere l’equipollenza tra avviso di mora e cartella di pagamento comprometterebbe, d’altro canto, in modo serio la doverosa tutela dei diritti del contribuente – garantita dallo “statuto del contribuente”, al quale va riconosciuto un “valore forte” nella gerarchia materiale delle fonti del diritto -, per il diverso, più ridotto, termine (cinque giorni), assegnato dall’avviso di mora per assolvere il debito tributario (anche se le conseguenze di un'”arbitraria” sostituzione della cartella non notificata con l’avviso di mora risulterebbero attenuate dalla modifica introdotta al comma 3 dell’art. 30 del D.P.R. n. 602 del 1973, dall’art. 5, comma 4, lettera a), del D.L. n. 669 del 1996, convertito con L. n. 30 del 1997 – che nel caso di specie è applicabile ratione temporis – che ha elevato il termine per la mora a sedici giorni o a sessanta se la cartella omessa si riferisca ad una delle ipotesi di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600 del 1973).
Può dirsi, quindi, che la legge non consente all’Amministrazione finanziaria di scegliere se utilizzare (indifferentemente) l’uno o l’altro strumento (di riscossione), che operano su piani nettamente distinti – la riscossione mediante ruoli tramite la cartella, la riscossione mediante espropriazione forzata per mezzo dell’avviso di mora -, ma detta una precisa sequenza procedimentale, nella quale l’esercizio della pretesa tributaria si dipana dall’atto impositivo alla cartella di pagamento (che in alcuni casi, quali quelli previsti dagli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600 del 1973, è essa stessa atto impositivo, non essendo necessario che sia preceduta da alcun altro atto) all'(eventuale) avviso di mora. Il mancato rispetto della precisata sequenza determina sicuramente un vizio della procedura di riscossione, in quanto essa verrebbe a svolgersi in modo difforme dallo schema normativo.
Diverso discorso è, invece, quello se tale vizio si traduca (o meno) nella nullità dell’atto non preceduto dalla notifica dell’atto presupposto. Un’interpretazione che si arrestasse alla lettera della ricordata disposizione di cui al comma 3 dell’art. 30 del D.P.R. n. 602 del 1973 potrebbe condurre a ritenere che l’omessa notifica della cartella di pagamento non determini la nullità dell’avviso di mora, ma realizzi una causa di giustificazione dell'(apparente) “morosità” del contribuente, prevedendo che l’indennità di mora possa essere posta a carico di quest’ultimo solo dopo il decorso di sedici giorni dalla notificazione dell’avviso di mora, ovvero, se trattasi di imposta liquidata ai sensi degli artt. 36-bis e 36-ter D.P.R. n. 600 del 1973, dopo il decorso di sessanta giorni dalla stessa data (la differenza del termine trova spiegazione nella considerazione che, nel primo caso, il contribuente dovrebbe già aver ricevuto l’avviso di accertamento o di liquidazione ed aver, quindi, preso conoscenza della pretesa tributaria svolta nei suoi confronti, mentre nel secondo caso, la cartella ha funzione di “primo” atto impositivo).
La previsione normativa di cui al comma 3 dell’art. 30 del D.P.R. n. 602 del 1973 non è, tuttavia, determinante per escludere la nullità dell’avviso di mora non preceduto dalla notifica della cartella di pagamento, perchè tale disposizione deve essere letta nel quadro di un’interpretazione sistematica e (soprattutto) costituzionalmente conforme della disciplina sostanziale e processuale della fattispecie in esame.
In particolare assume notevole importanza il fatto che alla cartella di pagamento è stata attribuita la fondamentale funzione di rendere conoscibile al contribuente la pretesa tributaria entro un tempo predeterminato normativamente (tanto più nel caso in cui essa costituisca l’atto impositivo con il quale la pretesa si manifesta per la prima volta nella sfera di conoscenza del contribuente, come nelle ipotesi regolate dagli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600 del 1973), con la conseguenza che l’omessa notifica della cartella può determinare la decadenza dell’Amministrazione dalla stessa pretesa tributaria.
Di questa realtà normativa non può dubitarsi dopo la sentenza n. 280 del 2005 della Corte Costituzionale – con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 del D.P.R. n. 602 del 1973 (come modificato dal D.Lgs. n. 193 del 2001) nella parte in cui non prevede un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 – e l’intervento legislativo realizzato con l’art. 1, commi 5-bis e 5-ter, del D.L. n. 106 del 2005, convertito nella L. n. 156 del 2005, con il quale è stata esplicitata la regola secondo la quale la legittimità della pretesa erariale ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 è subordinata alla notificazione della cartella di pagamento al contribuente entro un termine di decadenza, dovendo l’ordinamento garantire l’interesse del medesimo contribuente alla conoscenza, in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni.
Siffatta regola, secondo questa Corte, “è applicabile anche per i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della detta legge di conversione n. 156 del 2005 che concernono le dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001 (art. 36, comma 2, lettera b), del D.Lgs. n. 46 del 1999), salvo che si tratti di dichiarazioni per la cui liquidazione i ruoli siano stati formati e resi esecutivi entro il 30 settembre 1999.
In questo caso occorre distinguere: a) le ipotesi di “rettifica cartolare” (o formale), per le quali la cartella di pagamento deve essere notificata al contribuente, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ai sensi dell’art. 43, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis); b) le ipotesi di “controllo formale” (o, più rettamente, cartolare), per le quali, a pena di decadenza, deve provvedersi sia all’iscrizione a ruolo entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (secondo il combinato disposto degli artt. 17, comma 1, del D.P.R. n. 602 del 1973 e 43, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, entrambi nel testo vigente ratione temporis), sia alla notifica della cartella di pagamento al contribuente entro il giorno cinque del mese successivo a quello nel quale il ruolo sia stato consegnato al concessionario a norma dell’art. 24 del D.P.R. n. 602 del 1973″ (Cass. n. 16826 del 2006, seguita da altre conformi).
Peraltro, questa Corte, sulla scorta della sentenza del giudice delle leggi n. 107 del 1993, aveva già avuto modo di stabilire il carattere perentorio del termine per la notifica della cartella previsto dall’art. 25 del D.P.R. n. 602 del 1973 (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dall’art. 11 del D.Lgs. n. 46 del 1999, con efficacia dal 1 luglio 1999, e poi dall’art. 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs n. 193 del 2001, con efficacia a partire dal 29 giugno 2001), il quale stabiliva che “l’esattore, non oltre il giorno cinque del mese successivo a quello nel corso del quale il ruolo gli è stato consegnato, deve notificare al contribuente la cartella di pagamento”.
“A tale conclusione”, secondo la Corte, “concorrono sia l’interpretazione letterale e logica della disposizione che quella teleologica, formulata in ragione della necessità di non lasciare il contribuente esposto indefinitamente all’azione esecutiva del Fisco” (Cass. n. 10 e n. 15059 del 2004, n. 5097 del 2005).
La descritta situazione è fortemente ostativa ad un’interpretazione che consenta di ritenere funzionalmente “equivalente” la notifica dell’avviso di mora alla notifica della cartella per il solo fatto che la norma processuale consentirebbe al contribuente, in caso d’omessa notificazione della cartella, di impugnare congiuntamente avviso e cartella: la decadenza della pretesa tributaria, connessa all’omissione della notifica della cartella entro il termine perentorio fissato dalla legge, esclude in radice la legittimità di un recupero strumentale dell’inosservanza procedimentale mediante la notifica dell’avviso di mora.
Tanto, sotto il profilo del diritto sostanziale. Passando, ora, all’esame della normativa processuale, viene in evidenza l’art. 19, comma 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992, in relazione al significato da attribuire alla possibilità – espressamente prevista, come si è visto – di impugnare congiuntamente l’avviso di mora (atto consequenziale) e la cartella di pagamento (atto presupposto) non notificata (parzialmente difforme era la formulazione dell’art. 16 del previgente contenzioso, che prevedeva l’impugnazione dell’atto successivo per vizi relativi agli atti precedenti dei quali fosse stata omessa la notificazione).
La norma, definita “infelicissima” da un’autorevole dottrina, è frutto di un affrettato compromesso redazionale dopo che la Commissione parlamentare, chiamata ad esprimere il parere sul progetto di decreto legislativo per la riforma del processo tributario, n’aveva modificato il testo originario, invero assai più chiaro di quello definitivamente approvato.
Nella formulazione che fu sottoposta all’esame parlamentare, quel che oggi è il comma 3 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, si limitava a prevedere la non autonoma impugnabilità degli atti diversi da quelli indicati dal comma 1, stabilendo anche che ognuno di tali atti potesse essere impugnato “solo per vizi propri o per la mancata notificazione degli atti autonomamente impugnabili che per legge avrebbero dovuto precederli”: ad una parte della dottrina è sembrato che con la predetta formulazione si volesse (correttamente ed efficacemente, sotto il profilo della tutela del contribuente) equiparare l’omissione della notifica dell’atto presupposto ad un vizio “proprio” dell’atto successivo da far valere mediante l’impugnazione di quest’ultimo teso ad ottenerne l’annullamento.
Sarebbe errato, tuttavia, credere che nella diversa formulazione della norma, poi in concreto inserita nel testo di legge, siffatto significato sia “scomparso”. Invero, nonostante l’indubbia insufficienza redazionale, il risultato normativo, se rettamente inteso, è, sotto il profilo del significato, più ampio, cosi’ da includere quel contenuto di senso attribuito all’originaria stesura.
La disposizione in esame innanzi tutto non impone al contribuente, come emerge con chiarezza dall’uso del verbo “consentire”, alcun onere di impugnare cumulativamente l’atto successivo e l’atto presupposto del quale sia stata omessa la notificazione e nemmeno suggerisce un simile percorso di contestazione: una siffatta interpretazione sarebbe in patente contraddizione con la ratio del nuovo processo tributario, che è ispirato alla tutela dei diritti del contribuente (e in particolare dell’inalienabile diritto di difesa), nel quadro di un’assimilazione ai caratteri del processo civile, nonché con i principi “forti” che, alla luce L. n. 212 del 2000, caratterizzano l’attuale sistema tributario nella direzione di un “riequilibrio” delle posizioni delle parti in contraddittorio.
Imporre al contribuente l’impugnazione cumulativa dell’atto successivo e dell’atto presupposto del quale sia stata omessa la notificazione, significherebbe privilegiare immotivatamente l’Amministrazione finanziaria, recuperandone in via processuale l’azione impositiva esercitata in violazione della specifica scansione procedimentale dettata dalle regole di diritto sostanziale: sarebbe un modo per togliere sostanza e vigore a quelle regole e per rendere, in ultima analisi, assolutamente “libero” l’agire dell’Amministrazione.
Pur tenendo conto dell’infelice ed approssimativa formulazione, la norma appare, tuttavia, manifestamente animata da una volontà di favorire una più rapida soluzione delle controversie, offrendo al contribuente l’opportunità affidata alla sua libera scelta – di contrastare con un solo atto la pretesa tributaria ed ottenere così una pronuncia che non esaurisca propri effetti nella dichiarazione d’annullamento dell’atto successivo, a si estenda anche all’atto presupposto, investendo radicalmente e per intero la pretesa dell’Amministrazione finanziaria.
Si tratta, tuttavia, solo di una facoltà riconosciuta al contribuente, al quale – coerentemente con il “principio della domanda” che caratterizza il processo tributario riformato – è lasciata la elenio tra l’uno o l’altro percorso di contestazione: impugnare il solo atto successivo (notificatogli) facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto – che costituisce vizio procedurale per interruzione della sequenza procedimentale caratterizzante l’azione impositiva e predisposta dalla legge a garanzia dei diritti del contribuente (e per questo vincolante per l’Amministrazione, ma disponibile da parte del garantito mediante l’esercizio dell’impugnazione cumulativa) -, oppure impugnare con l’atto consequenziale anche l’atto presupposto (non notificato) facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo e contestando alla radice il debito tributario reclamato nei suoi confronti.
Il giudice tributario investito dell’impugnazione, per conseguenza, dovrà verificare la scelta operata dal contribuente, interpretandone la domanda. Ove questi, impugnando l’atto successivo notificatogli, abbia contestato la pretesa dell’Amministrazione finanziaria, la pronuncia del giudice dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa.
Al contrario, se il contribuente abbia fatto valere il vizio della procedura consistito nell’omessa notifica dell’atto presupposto (e tale vizio risulti effettivamente sussistente in esito all’istruttoria processuale), per questo solo vizio l’atto consequenziale impugnato dovrà essere annullato.
A tale annullamento potrà (o meno) conseguire la definitiva estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza (eventualmente) previsti dall’ordinamento siano già decorsi o siano ancora pendenti: in questo secondo caso, infatti, l’Amministrazione potrà rinnovare la procedura secondo la corretta sequenza procedimentale e provvedere alla notifica dell’atto precedentemente omessa.
Si pone a questo punto il problema – dato che l’avviso di mora è un atto dell’esattore, al quale è anche rimessa l’attività’ di notificazione della cartella di pagamento – se l’azione del contribuente debba essere svolta (esclusivamente o indifferentemente) nei confronti dell’Amministrazione finanziaria o del concessionario o necessariamente nei confronti di entrambi.
Tenendo presente l’art. 19, comma 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992, potrebbe dirsi, in prima approssimazione, che l’individuazione del legittimato passivo dipende dalla scelta in concreto effettuata dal contribuente nell’impugnare l’avviso di mora: ossia dal fatto se egli abbia dedotto l’omessa notifica dell’atto presupposto, o abbia contestato, in via mediata, la stessa pretesa tributaria azionata nei suoi confronti. In questo secondo caso, infatti, non potrebbe esservi dubbio che spetti all’Amministrazione, e non al concessionario, la legittimazione passiva, essendo la stessa titolare del diritto di credito oggetto di contestazione nel giudizio, mentre il secondo è, come è stato rilevato da questa Corte, un (mero) destinatario del pagamento (vd. sia pur in una diversa fattispecie, ma con enunciazione di principi che possono ritenersi rilevanti nel caso de quo, Cass. n. 11746 del 2004), o, piu’ precisamente, con riferimento allo schema dell’art. 1188, comma 1, del codice civile, il soggetto (incaricato dal creditore e) autorizzato dalla legge a ricevere il pagamento (vd. Cass. n. 21222 del 2006).
Vi è, peraltro, da rilevare che a norma dell’art. 40 del D.P.R. n. 43 del 1988, prima, e dell’art. 39 del D.Lgs. n. 112 del 1999, poi, “il concessionario, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, deve chiamare in causa l’ente creditore interessato; in mancanza, risponde delle conseguenze della lite”: in buona sostanza, se l’azione del contribuente per la contestazione della pretesa tributaria a mezzo dell’impugnazione dell’avviso di mora e’ svolta direttamente nei confronti dell’ente creditore, il concessionario è vincolato alla decisione del giudice nella sua qualità di adiectus solutionis causa (vd. Cass. n. 21222 del 2006); se la medesima azione è svolta nei confronti del concessionario, questi, se non vuole rispondere dell’esito eventualmente sfavorevole della lite, deve chiamare in causa l’ente titolare del diritto di credito.
In ogni caso l’aver il contribuente individuato nell’uno o nell’altro il legittimato passivo nei cui confronti dirigere la propria impugnazione non determina l’inammissibilità’ della domanda, ma puo’ comportare la chiamata in causa dell’ente creditore nell’ipotesi d’azione svolta avverso il concessionario, onere che, tuttavia, grava su quest’ultimo, senza che il giudice adito debba ordinare l’integrazione del contraddittorio.
La risposta non può essere diversa per il caso in cui il contribuente, a fondamento dell’impugnazione dell’atto consequenziale, abbia dedotto l’omessa notificazione dell’atto presupposto.
Invero il “vizio” in questione non può essere ridotto alla (mera) dimensione di “vizio proprio dell’atto”, come se fosse, ad esempio, analogo ad un vizio riferito alla (pretesa) difformità del contenuto dell’atto rispetto allo schema legislativo: si tratta di qualcosa di piu’ rilevante, come in precedenza si è cercato di illustrare.
Si tratta di un “vizio procedurale” che, incidendo sulla sequenza procedimentale stabilita dalla legge a garanzia del contribuente, determina l’illegittimità’ dell’intero processo di formazione della pretesa tributaria, la cui correttezza è assicurata mediante il rispetto dell’ordinato progredire delle notificazioni degli atti, destinati, con diversa e specifica funzione, a portare quella pretesa nella sfera di conoscenza del contribuente e a rendere possibile per quest’ultimo un efficace esercizio del diritto di difesa.
Si tratta, quindi, pur sempre di un vizio che ridonda sulla stessa sussistenza della pretesa tributaria, potendone determinare l’eventuale decadenza: tanto più quando sia impugnato un avviso di mora facendo valere l’omessa notificazione di una cartella emessa ai sensi degli artt. 36-bis o 36-ter del D.P.R. n. 600 del 1973, la quale ha valore di vero e proprio atto d’esercizio del potere impositivo, essendo il primo atto notificato al contribuente in relazione alla pretesa erariale.
Sicché la legittimazione passiva resta in capo all’ente titolare del diritto di credito e non al concessionario il quale, se fatto destinatario dell’impugnazione, dovrà chiamare in giudizio il predetto ente, se non vuole rispondere dell’esito della lite, non trattandosi nella specie di vizi che riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti
esecutivi: l’enunciato principio di responsabilità esclude, come già detto, che il giudice debba ordinare ex officio l’integrazione del contraddittorio, in quanto non sussiste tra ente creditore e concessionario una fattispecie di litisconsorzio necessario, anche in ragione dell’estraneità’ del contribuente al rapporto (di responsabilità) tra l’esattore e l’ente impositore.
A conclusione di tutte le considerazioni svolte duo essere formulato il seguente principio di diritto: “La correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa.
Nella predetta sequenza, l’omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta o di impugnare, per tale semplice vizio, l’atto consequenziale notificatogli – rimanendo esposto all’eventuale successiva azione dell’amministrazione, esercitatile soltanto se siano ancora aperti i termini per l’emanazione e la notificazione dell’atto presupposto – o di impugnare cumulativamente anche quest’ultimo (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria: con la conseguenza che spetta al giudice di merito – la cui valutazione se congruamente motivata non sarà censurabile in sede di legittimità – interpretare la domanda proposta dal contribuente al fine di verificare se egli abbia inteso far valere la nullità dell’atto consequenziale in base all’una o all’altra opzione.
L’azione può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell’ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi un’ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l’ente creditore”.
Valutando il caso di specie alla luce di tale principio, deve, in primo luogo prendersi atto che l’impugnazione originaria è stata proposta tanto avverso l’Amministrazione, quanto avverso il concessionario, il quale ha partecipato ad entrambi i gradi del giudizio di merito e che la sua mancata evocazione in giudizio avanti a questa Corte non impone, per quanto detto, l’integrazione del contraddittorio.
In secondo luogo, deve riconoscersi il valore assorbente del primo motivo di ricorso, con il quale si censura la sentenza impugnata per violazione di legge proprio con riferimento al denunciato vizio dell’avviso di mora, oggetto del ricorso introduttivo del giudizio, per essere stato lo stesso notificato senza che fosse stata previamente notificata al contribuente la cartella di pagamento.
Questa circostanza l’essere stata omessa la notifica della cartella – non è oggetto di contestazione, cosi’come non vi è dubbio che la società. contribuente abbia inteso far valere tale omessa notifica a fondamento dell’impugnazione dell’avviso di mora notificatole: ciò emerge non solo dalla formulazione del primo motivo del ricorso per cassazione, ma dalla stessa sentenza impugnata che rigetta la censura fatta valere dalla società contribuente con la motivazione, inadeguata ma rivelatrice della sostanza del ricorso originario, che “l’avviso di mora è autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992”.
Tanto comporta che, nel caso di specie, alla luce del principio di diritto dapprima affermato, non è necessario alcun altro accertamento di fatto, risultando chiaro tanto il vizio procedimentale consistente nell’avvenuta notifica dell’avviso di mora senza la previa notifica della cartella di pagamento, quanto la volontà della società contribuente di far valere tale vizio al fine di ottenere la dichiarazione di nullità dell’atto impugnato.
Sicché il ricorso in esame deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata e non essendo necessario alcun altro accertamento di merito, stante il carattere assorbente della nullità dell’avviso di mora impugnato, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento del ricorso originario della società contribuente.
La complessità della vicenda e l’esistenza del contrasto di giurisprudenza giustificano la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della società contribuente. Compensa le spese dell’intero giudizio.
sentenza cassazione