Società in house: nomina del consiglio di amministrazione, sì alle quote rosa TAR Puglia-Lecce, sez. I, sentenza 24.02.2010 n° 622
Quote rosa: la nomina da parte di un Sindaco dei membri del consiglio di amministrazione di una società in house interamente partecipata dal Comune deve osservare l’art. 51 cost. sul principio di pari opportunità.
E’
questo il principio con cui il TAR Lecce – Sez. I – con sentenza n.
622/2010 è tornato ancora una volta sulla problematica delle c.d.
“quota rosa” negli EE.LL., accogliendo il ricorso proposto da alcuni
consiglieri comunali di minoranza avverso la delibera di nomina del
Collegio sindacale di una società partecipata.
In particolare,
per il GA ciascun consigliere comunale ha un proprio interesse,
differenziato e attuale, a chiedere l’intervento delle autorità
giurisdizionali, al fine di ripristinare la legalità nell’azione degli
organi consiliari, inibendo così anche future violazioni connesse,
consequenziali o dello stesso genere; in tal senso, il consigliere
comunale, da un lato, non è equiparabile al quisque de populo,
dall’altro lato, agisce a tutela (o meglio alla conservazione) della
carica rivestita (c.d. ius ad officium).
Nel merito, secondo il
TAR l’art. 51 Cost. vincola le singole p.a. ed i propri rappresentanti
istituzionali, anche a livello locale, ad agire nel rispetto del
principio di pari opportunità, sicchè ogni statuizione che non tenga
adeguatamente conto del necessario “riequilibrio di genere” costituirà
una violazione di siffatto obbligo costituzionale. Nell’attuale sistema
normativo, è infatti cogente il principio delle pari opportunità nei
confronti di tutti i soggetti istituzionali che compongono
l’ordinamento repubblicano ed in relazione a qualsivoglia tipo di
provvedimento – normativo oppure amministrativo – che si intende
adottare con riguardo ai diversi settori di intervento.
Per il TAR salentino, infine, in forza dell’art. 6, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267
un Sindaco, nell’ambito della procedura svolta per le nomine dei membri
del consiglio di amministrazione e del collegio dei sindaci di una
società in house interamente partecipata dal Comune, deve tener conto
del principio delle pari opportunità, eventualmente riservando una
aliquota dei membri da nominare (la cui consistenza deve a sua volta
formare oggetto di valutazione in concreto, sulla base delle singole
circostanze) al sesso generalmente sottorappresentato, ossia quello
femminile.
T.A.R.
Puglia – Lecce
Sezione I
Sentenza 24 febbraio 2010, n. 622
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce – Sezione Prima
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 1484 del 2009, proposto da:
****,
tutti rappresentati e difesi dall’avv. Valeria Pellegrino, presso il
cui studio in Lecce, via Augusto Imperatore n. 16, sono elettivamente
domiciliati;
contro
Comune di Lecce, rappresentato e
difeso dall’avv. Elisabetta Ciulla, con domicilio eletto presso gli
uffici del Municipio in Lecce;
nei confronti di
****,
rappresentati e difesi dall’avv. Angelo Vantaggiato, presso il cui
studio in Lecce, via Zanardelli n. 7, sono elettivamente domiciliati;
Lupiae Servizi Spa, non costituita;
****, tutti non costituiti;
****,
rappresentato e difeso dall’avv. Fabio Patarnello, presso il cui studio
in Lecce, via 47° Rgt. Fanteria n. 29, è elettivamente domiciliato;
per l’annullamento
previa sospensione dell’efficacia,
dei
Decreti in data 30 giugno 2009, nn. 9 e 10, adottati dal Sindaco del
Comune di Lecce ed aventi ad oggetto, rispettivamente, “nomina di
cinque componenti, di cui due supplenti, del Collegio Sindacale della
Società Lupiae Servizi s.p.a., ai sensi dell’art. 50 comma 8 del T.U.
267/00” e “nomina dei componenti dell’Organo di Amministrazione della
società Lupiae Servizi s.p.a., ai sensi dell’art. 50 comma 8 del T.U.
267/00”; nonché del parere in data 26 giugno 2009, n. 79164, adottato
dal Dirigente del Settore Affari Generali ed Istituzionali del Comune
di Lecce; di ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e/o
consequenziale.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Lecce;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del sig. ****;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del sig. ****;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del sig. ****;
Viste le memorie difensive rispettivamente prodotte dalle parti costituite;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore
nell’udienza pubblica del giorno 16/12/2009 il dott. Massimo Santini e
uditi per le parti gli Avv.ti Valeria Pellegrino, Ciulla, Vantaggiato e
Patarnello;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
In
data 23 marzo 2009 il Comune di Lecce ha bandito avviso pubblico per la
nomina, rispettivamente, di tre membri del Consiglio di Amministrazione
e dei cinque componenti (di cui due supplenti) del Collegio Sindacale
della società a totale partecipazione pubblica “Lupiae Servizi” (d’ora
in avanti, “la società”).
Le domande a tal fine pervenute sono
poi state esaminate da un apposito collegio di valutazione il quale,
dopo avere escluso quelle carenti dei requisiti formali previsti per la
nomina in seno alla predetta società, ha ritenuto in prima istanza
idonee trentotto candidature (di cui due donne) per il consiglio di
amministrazione e trentanove (di cui due donne) per il collegio
sindacale.
Con i decreti impugnati sono poi stati nominati i
membri dei ridetti organismi, senza tuttavia che al loro interno fosse
contemplata alcuna candidata di sesso femminile.
I ricorrenti,
nelle loro rispettive qualità di consiglieri comunali, interponevano
dunque gravame per violazione del principio delle pari opportunità tra
uomo e donna di cui all’art. 51 Cost., art. 6 del decreto legislativo
n. 267 del 2000, nonché artt. 2, 69 e 109 dello statuto comunale,
nonché per difetto di motivazione ed eccesso di potere per
contraddittorietà dell’azione amministrativa.
Si costituivano in
giudizio il Comune di Lecce, nonché i sigg.ri ****, nella qualità di
controinteressati (in quanto soggetti nominati all’interno dei predetti
organi), per chiedere il rigetto del gravame. In particolare, si
eccepiva la inammissibilità del ricorso: a) per difetto di
giurisdizione, dal momento che il Sindaco del Comune di Lecce avrebbe
provveduto alla scelta dei predetti membri in qualità di socio, ai
sensi dell’art. 2449 c.c. (pure richiamato dallo statuto della società)
e non di autorità pubblica; b) per difetto di legittimazione a
ricorrere in capo ai ricorrenti, sia in quanto consiglieri comunali,
sia in quanto i medesimi non sarebbero comunque beneficiari della
normativa sulle pari opportunità; c) per mancata impugnazione della
precedente deliberazione n. 25 del 22 aprile 2004, la quale, nel
dettare indirizzi e requisiti ai fini della nomina e della revoca dei
suddetti rappresentanti, nulla affermava con riguardo al rispetto del
principio delle pari opportunità; d) ancora, per mancata impugnazione
della delibera assembleare 30 giugno 2009 con la quale i suddetti
soggetti sarebbero stati poi in effetti nominati. Si rilevava inoltre
la infondatezza dello stesso: a) in ragione dell’ampio potere
discrezionale di cui gode in materia il Sindaco, ai sensi dell’art. 50,
comma 8, del TUEL, il quale travalicherebbe il principio delle pari
opportunità; b) per la natura privatistica della società, cui non
andrebbe dunque applicato il principio in esame: la stessa non sarebbe
infatti inquadrabile tra gli “uffici pubblici” di cui all’art. 51
Cost.; c) per la mancanza di precettività in capo alla disposizione di
cui all’art. 6 del TUEL, la quale richiederebbe per la sua concreta
attuazione un adeguamento delle norme statutarie che, al momento in cui
sono stati adottati gli atti gravati, non era ancora stato operato: in
altre parole, in assenza di una norma statutaria (al tempo della
adozione degli atti impugnati) in materia di pari opportunità tra
uomini e donne, alcun obbligo avrebbe gravato sul Sindaco in ordine al
rispetto di siffatto principio.
Alla pubblica udienza del 16
dicembre 2009 le parti costituite rassegnavano le proprie rispettive
conclusioni ed il ricorso veniva infine trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Va preliminarmente affrontata la questione di giurisdizione
Si
eccepisce al riguardo che il Sindaco del Comune di Lecce avrebbe
provveduto alla scelta dei membri del consiglio di amministrazione e
del collegio dei sindaci della società (interamente partecipata dal
comune) in qualità di socio della stessa, ai sensi dell’art. 2449 c.c.,
e non di autorità pubblica. In tale veste, non sarebbe stato pertanto
tenuto al rispetto del principio delle pari opportunità.
Per
rafforzare tale tesi si allegano una serie di pronunzie
giurisprudenziali che il collegio, tuttavia, non ritiene adattabili al
caso di specie.
Ed infatti: da un lato, le decisioni del TAR
Campania n. 2252 del 2008 e n. 1184 del 2008 riguardano organismi di
diritto pubblico; dall’altro lato, quella affrontata dalla Corte di
Cassazione (n. 7799 del 2005) concerne una ipotesi di “assoluta
autonomia” tra società ed ente locale (tra i quali non sussiste “alcun
collegamento”).
Nel caso di specie, al contrario, si tratta di
una società “in house” (che è qualcosa di diverso rispetto
all’organismo di diritto pubblico, connotandosi per una maggiore
aderenza organizzativa rispetto all’ente pubblico controllante). Ed
infatti, da un esame del suo statuto si rileva che la medesima:
a) è a totale partecipazione pubblica;
b)
realizza la propria attività esclusivamente in favore dei soci (ossia
il Comune di Lecce), ai sensi dell’art. 3 dello statuto;
c) è
sottoposta a controllo sia “strutturale” (mediante nomina degli organi
amministrativi e di controllo, rispettivamente ai sensi degli artt. 13
e 18 dello statuto) sia “funzionale” (sull’attività svolta, ai sensi
dell’art. 4 dello statuto) da parte del Comune di Lecce. In altre
parole, l’azionista pubblico esercita un controllo analogo a quello
svolto nei confronti dei propri servizi.
Quanto alla proprietà
delle azioni – e al di là del fatto che esse sono interamente
possedute, al momento, dal Comune di Lecce – il loro eventuale
trasferimento potrà essere operato, ai sensi dell’art. 6 dello statuto,
“esclusivamente in favore di altri enti pubblici territoriali”.
Pertanto,
come affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza 26 agosto 2009, n.
5082 (che sul punto ha tratto a sua volta ispirazione dalla sentenza
della Corte di Giustizia 13 novembre 2008, in causa C-324-07, sulla
vicenda “Coditel Brabant SA”), anche in caso di proprietà eventualmente
ripartita tra più enti pubblici il controllo analogo, sebbene non
esercitabile individualmente dai singoli soci pubblici, potrà comunque
essere svolto in modo effettivo, ossia congiuntamente e facendo ricorso
al criterio della maggioranza.
In buona sostanza ricorrono,
nella specie, tutti i requisiti dell’in house providing e, in
particolare, la mancanza di una relazione intersoggettiva, trattandosi
piuttosto di delegazione interorganica: la società si pone infatti
quale “longa manus” o, se si preferisce, quale mero plesso
organizzativo dello stesso ente locale.
Sussiste in questo modo
un rapporto non di autonomia tra i due soggetti (comune e società)
quanto piuttosto, in chiave sostanziale, di subordinazione gerarchica:
il modello dell’in house, infatti, implica che la società di gestione
sia priva di una propria autonomia imprenditoriale e di capacità
decisionali distinte da quelle della pubblica amministrazione di cui
costituisce, come efficacemente descritto da parte della dottrina, un
“prolungamento organizzativo”.
Gli estremi dell’ingerenza
pubblica sono tali da considerare la società alla stregua di parte
integrante dell’amministrazione controllante, la quale esercita i
propri poteri (formalmente) di azionista mediante gli schemi di diritto
amministrativo dell’autoritatività e della unilateralità: non si tratta
di semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di
maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario, ma di un
assoluto potere – come peraltro evidenziato dalla Commissione UE nella
nota 26 giugno 2002 diretta al Governo Italiano – di direzione,
coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato.
In
sintesi, mentre nella citata sentenza della Corte di cassazione si fa
riferimento ad un rapporto di “assoluta autonomia” tra ente locale e
società, le quali si trovano in una situazione priva di alcun
“collegamento”, nel caso di specie si verifica il contrario, dovendosi
parlare di due soggetti in posizione di stretta dipendenza funzionale e
strutturale, ossia di subordinazione gerarchica.
In questa
direzione, la società di cui si controverte è da qualificare alla
stregua di “ente strumentale” del comune, con ogni conseguenza in
merito alla natura sostanzialmente pubblicistica della medesima.
Ora,
poiché – come affermato dalla giurisprudenza amministrativa (T.A.R.
Reggio Calabria, 9 maggio 2005, n. 387; Cons. Stato, sez. V, 12 agosto
2002, n. 5552) – il potere attribuito al sindaco di provvedere alla
nomina, ai sensi dell’art. 50, comma 8, del decreto legislativo n. 267
del 2000, dei rappresentanti del comune presso enti, aziende ed
istituzioni, sussiste innanzitutto nelle ipotesi di rapporto di
“strumentalità” o “subordinazione” esistente tra il comune e l’ente nei
cui confronti la nomina ha effetto, ne deriva che nel caso di specie il
comune ha correttamente fatto ricorso – come si evince dal preambolo
dei due atti gravati – a tale specifico potere.
Il comune ha in
particolare agito, in occasione della nomina dei predetti organismi
societari, non come socio ma come autorità pubblica preposta al
controllo ed al coordinamento della società, a nulla rilevando il
richiamo nella disposizioni statutarie della norma di cui all’art. 2449
c.c., la quale costituisce peraltro disposizione di carattere
sostanziale e non processuale, o meglio decisiva ai fini del riparto di
giurisdizione.
Risponde inoltre a canoni di coerenza e logicità
il fatto che, se il rapporto tra i due enti deve essere ricondotto ad
un modello organizzativo di dipendenza organica (simile a quello che
normalmente si realizza nell’organizzazione burocratica di una pubblica
amministrazione) e dunque di derivazione pubblicistica, allo stesso
modo gli atti organizzativi, ossia quegli atti attraverso i quali tale
rapporto va regolato (e tra questi le nomine dei membri della società),
debbono essere concepiti secondo analoghi schemi di diritto pubblico.
Del
resto, appare ormai radicata la tendenza a sottoporre alle regole del
diritto amministrativo organismi formalmente privati ma sostanzialmente
pubblicistici: e ciò per quanto riguarda il rispetto sia dei criteri di
evidenza pubblica per la scelta dei contraenti, sia del principio di
concorsualità per il reclutamento del personale (cfr. art. 18 del
decreto-legge n. 112 del 2008). Pertanto, è da ritenere coerente con
siffatto orientamento la scelta di procedere alla nomina dei membri
degli organi di amministrazione e di controllo delle stesse società
mediante l’utilizzo di schemi decisionali propri del diritto
amministrativo, ossia attraverso l’adozione di atti provvedimentali ed
autoritativi.
Da quanto sopra detto deriva che, poiché gli
atti di nomina di cui al citato art. 50 sono pacificamente annoverati
tra gli atti c.d. di alta amministrazione (cfr. TAR Puglia Bari, sez.
II, 15 maggio 2006, n. 1759), le sottese posizioni eventualmente
vantate dai singoli interessati avranno consistenza di interesse
legittimo, con ogni conseguenza in termini di giurisdizione del GA.
Alla luce di quanto appena rilevato l’eccezione suddetta deve così essere respinta.
2.
Si affronta ora l’ulteriore eccezione di inammissibilità concernente la
legittimazione ad agire in capo ai ricorrenti, i quali tutti agiscono
nella veste di consiglieri comunali.
Il collegio ritiene al
riguardo di non avere motivo di discostarsi dagli indirizzi
precedentemente espressi, sul tema, da questo stesso tribunale
amministrativo.
È stato affermato, in particolare, che “oltre al
tradizionale riconoscimento della legittimazione dei consiglieri
comunali ad agire in giudizio ove vengano in rilievo atti incidenti in
via diretta sul diritto all’ ufficio, deve riconoscersi loro un’analoga
potestà nei casi in cui venga contestata sotto altri profili … la
legittimità dell’azione degli organi politici dell’ente di
appartenenza” (T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 21 febbraio 2005, n. 680).
“I rimedi giurisdizionali, in tal caso, doppiano quelli
politico-amministrativi, presupponendo come questi ultimi la medesima
funzione di controllo, tipica del consiglio comunale e riguardante casi
di vera e propria legittimità e non di mera opportunità politica
latamente intesa” (T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 26 ottobre 2005, n.
1306).
L’orientamento appena segnalato si fonda in sintesi sui seguenti presupposti:
In
primo luogo, l’abolizione del controllo dei controlli preventivi di
legittimità per mano della novella costituzionale del 2001 indurrebbe a
prefigurare, quasi in via di compensazione, un ampliamento del
controllo in sede giurisdizionale, attraverso un più esteso
riconoscimento della legittimazione a ricorrere dei consiglieri di
minoranza.
In particolare, l’eliminazione dei controlli
eteronomi – pur dovuta al sostanziale fallimento legato alla loro
esperienza – non esclude secondo autorevole dottrina che, in un’ottica
di riorganizzazione e riassestamento del sistema delle autonomie
locali, non possano essere individuate “forme di controllo diverse ed
ulteriori, purché per queste ultime sia rintracciabile in Costituzione
un adeguato fondamento normativo o un sicuro ancoraggio a interessi
costituzionalmente protetti” (cfr. Corte cost., sent. n. 29 del 1995).
Fondamento che, nella specie, sarebbe senz’altro rinvenibile negli
artt. 97, 113 e 125 Cost.
D’altra parte, se l’obiettivo è quello
di reperire in questa fase di transizione istituzionale ulteriori
modalità di sindacato (risultando impensabile che la suddetta
eliminazione comporti altresì una indefinita sottrazione degli enti
locali da qualsivoglia forma di controllo esterno), tra queste ben
possono annoverarsi i rimedi esercitabili davanti agli organi di
giustizia amministrativa.
Al collegio non sfugge l’esistenza di
forme di controllo già codificate, quali quelle di cui all’art. 138
TUEL ed all’art. 120 Cost., quest’ultimo come procedimentalizzato
dall’art. 8 della legge n. 231 del 2003. E tuttavia, l’applicazione di
tali meccanismi – al di là della sussistenza o meno dei necessari
presupposti per la loro attivazione – è così complessa da non potere
consentire sistematicamente il ricorso ai medesimi per ogni fattispecie
che presenti possibili profili di illegittimità.
Si vuole
conseguentemente evitare – al di là della peculiarità del caso di
specie – che si vengano a creare zone franche di illegittimità,
soprattutto laddove determinati provvedimenti, per la difficoltà
connessa alla individuazione dei potenziali diretti interessati, si
rivelino di fatto scarsamente suscettibili di gravame.
In
secondo luogo, ciascun consigliere comunale conserva uno specifico
interesse personale ad impedire, con ogni mezzo consentito
dall’ordinamento, a che l’organo politico di riferimento istituzionale
non agisca, formalmente o sostanzialmente, in violazione di legge.
Un
tale interesse risulta peraltro strettamente connesso con quello alla
conservazione dell’ufficio, atteso che una sistematica, grave e
persistente, violazione di legge, può essere causa di rimozione del
sindaco e dunque di scioglimento dei consigli comunali, ai sensi
dell’articolo 141 del decreto legislativo n. 267 del 2000.
Sicché,
ciascun consigliere ha un proprio interesse, differenziato e attuale, a
chiedere l’intervento delle autorità giurisdizionali, al fine di
ripristinare la legalità nell’azione degli organi consiliari, inibendo
così anche future violazioni connesse, consequenziali o dello stesso
genere (Tar Lecce, prima sezione, 12 maggio 2006, n. 2573).
Nei
termini anzidetti, il consigliere comunale: da un lato, non è
equiparabile al quisque de populo; dall’altro lato, agisce a tutela (o
meglio alla conservazione) della carica rivestita (c.d. ius ad
officium).
In terzo ed ultimo luogo, mediante la pretesa alla
legittimità dell’azione degli organi comunali il singolo consigliere
agisce altresì a tutela della propria immagine, così coltivando
l’interesse morale a ricorrere quale componente di una istituzione che
– nel complesso – opera nel rispetto della legge (Tar Lecce, prima
sezione, 12 maggio 2006, n. 2573).
Come affermato dalla
giurisprudenza amministrativa, “deve riconoscersi l’interesse dei
componenti un collegio amministrativo ad operare in una struttura che
verso l’esterno si presenti con i necessari crismi di legittimità e
quindi di credibilità; e ciò nel quadro dei principi generali indicati
dall’art. 97 Cost.” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20 ottobre 1978, n.
1053).
Per tutte le ragioni sopra evidenziate, anche tale eccezione di inammissibilità non può trovare ingresso.
3.
Si affronta ora l’eccezione di inammissibilità per mancata impugnazione
della deliberazione n. 25 del 2004, contenente indirizzi applicativi
circa le modalità di nomina dei membri degli organismi societari in
questione.
Ad avviso del collegio, il silenzio operato dalla
suddetta delibera in ordine al rispetto del principio di pari
opportunità non costituisce ragione idonea a giustificare la sua omessa
applicazione da parte dei competenti uffici comunali; e ciò dal momento
che l’obbligo di cui si controverte deriva direttamente – come più
avanti si avrà modo di osservare – da disposizioni costituzionali,
legislative e statutarie. In altre parole, la deliberazione non è da
ritenersi lesiva soltanto perché non contiene alcune riferimento al
rispetto di siffatto obbligo.
Decisiva, poi, è la constatazione
che alcuna deroga al medesimo principio viene anche solo genericamente
affermata nel richiamato atto di indirizzo del 2004: il che conferma la
validità della tesi sopra sostenuta circa la mancata volontà, in capo
alla suddetta delibera, di obliterare siffatto obbligo.
Da quanto detto deriva il rigetto della dedotta eccezione di inammissibilità.
4.
Con ulteriore eccezione di inammissibilità si contesta la mancata
impugnazione della delibera dell’assemblea della società in data 30
giugno 2009, con la quale si prende atto della nomina dei suddetti
soggetti anche ai fini della corresponsione dei relativi compensi.
La
richiamata delibera assembleare costituisce tuttavia una mera presa
d’atto rispetto al decreto di nomina, non aggiungendo alcunché in
termini di effetti costitutivi (e dunque di lesività), e ciò dal
momento che tali effetti sono stati già posti in essere dai due decreti
sindacali.
D’altra parte, il potere di nomina è in capo al
Sindaco, ossia all’azionista di maggioranza (comune di Lecce), non
anche in capo alla assemblea che alcun potere esercita in tal senso, se
non in relazione alla determinazione del compenso da attribuire.
Il
c.d. provvedimento di “presa d’atto” non costituisce pertanto
determinazione amministrativa impugnabile, atteso che si tratta di mera
attestazione, o dichiarazione di scienza, circa l’esistenza di un
provvedimento che rientra nella competenza di altri e che rileva, per
quanto di interesse, ai soli fini degli emolumenti economici da
corrispondere (cfr. T.A.R. Sicilia Palermo, 10 luglio 1985, n. 916).
Anche tale eccezione deve essere dunque disattesa.
5. Nel merito, il ricorso è fondato per le ragioni così gradatamente evidenziate.
Ritiene
preliminarmente il collegio che, ricondotte le vicende di cui si
discute nell’alveo della norma di cui all’art. 50, comma 8, del TUEL
(nomina da parte del sindaco dei membri degli enti strumentali del
comune, cfr. punto n. 1), il rispetto del principio delle pari
opportunità, nel caso di specie, sia da ricondurre ad obblighi
derivanti da un complesso di norme di matrice costituzionale, ordinaria
e statutaria.
5.1. Si rammenta, in primo luogo, che l’art. 51
Cost., come novellato sul punto dalla legge costituzionale n. 1 del
2003, prevede al primo comma che “tutti i cittadini dell’uno o
dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche
elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti
dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi
provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Come
efficacemente sostenuto dai primi commentatori della nuova
disposizione, quella apportata dalla legge costituzionale del 2003
rappresenta non tanto una “modifica” quanto, piuttosto, una vera e
propria “attuazione” del dettato di cui all’art. 51 Cost. (che a sua
volta costituisce specificazione del principio di eguaglianza di cui
all’art. 3 Cost.).
Con particolare riferimento ad alcune locuzioni contenute nella predetta disposizione si osserva tra l’altro che:
a)
il termine “Repubblica” deve essere letto alla luce della nuova
formulazione di cui al primo comma dell’art. 114 Cost., in forza del
quale “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle
Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Pertanto, tutti gli
enti territoriali, compresi comuni e province, sono tenuti alla
realizzazione dell’obiettivo indicato dalla norma;
b) con il
termine “appositi provvedimenti” (frutto peraltro di uno specifico
emendamento parlamentare) ci si intende riferire non solo ad atti
legislativi ma anche a regolamenti ed atti amministrativi. Tale
locuzione riguarda in altre parole la possibilità di attuare con
qualsiasi strumento – legislativo oppure amministrativo – il principio
delle pari opportunità. Come ben evidenziato in occasione dei lavori
parlamentari relativi alla richiamata novella costituzionale del 2003,
si prospetta in questo senso un campo d’azione articolato nelle fonti e
nei soggetti che pongono in essere il ridetto principio: la norma
costituzionale prefigura infatti una ampia e diversificata attività
promozionale posta in essere dai soggetti della Repubblica, non
necessariamente soltanto con atti normativi, e dunque “una grande
varietà di soluzioni, perché naturalmente diversi possono essere gli
approcci al problema e i modi di affrontarlo” (cfr. relazione di
accompagnamento al disegno di legge costituzionale, nella quale si
parla anche di “norma-ombrello”);
c) l’accesso viene riferito
non solo alle cariche pubbliche ma anche ai “pubblici uffici”, per tale
intendendosi sia le ammissioni che avvengono tramite pubblici concorsi,
sia – e soprattutto – quelle che avvengono mediante “nomina” come nel
caso di specie. Per quanto riguarda, poi, la locuzione “pubblici
uffici”, essa deve riferirsi a tutti i soggetti dell’ordinamento che, a
prescindere dalla veste formalmente assunta, sono comunque assimilabili
– sulla base di indici di derivazione comunitaria (funzioni esercitate,
interessi perseguiti e modalità di controllo decisionale) – ad una
pubblica amministrazione in senso sostanziale (nel cui novero è
inquadrabile anche la società di cui si controverte, per le ragioni che
sono state evidenziate al punto n. 1): deve riferirsi in altre parole a
tutti gli organismi che – come nel caso di specie – sono in concreto
qualificabili alla stregua di enti strumentali del comune, e dunque ad
esso subordinati.
La portata della disposizione di cui all’art.
51 Cost., immediatamente e concretamente applicabile nei rapporti
intersoggettivi, determina in questo modo un particolare modo di essere
e di agire in capo a qualsiasi soggetto pubblico, anche locale,
rientrante nella definizione di cui all’art. 114 Cost.: quello
ovverossia di provvedere, quale che sia l’oggetto dei singoli
interventi, sulla base dei canoni della c.d. “democrazia paritaria”.
Detto
in altre parole l’art. 51 Cost., per come formulato, vincola ormai le
singole amministrazioni ed i propri rappresentanti istituzionali, anche
a livello locale, ad agire nel rispetto del principio di pari
opportunità.
Di conseguenza, ogni statuizione che non tenga
adeguatamente conto del necessario “riequilibrio di genere” costituirà
una violazione di siffatto obbligo costituzionale.
5.2.
Coerentemente con tale impostazione, l’art. 2 dello Statuto del Comune
di Lecce prevede che “il Comune …, nelle materie di competenza, adotta
le misure necessarie … assicurando in ogni caso la parità e la pari
opportunità fra i due sessi”.
Tale disposizione, in uno con
quella di cui al citato art. 51 Cost., integra in altre parole un
generale canone conformativo dell’azione del Comune e quindi dei suoi
organi (e tra questi il Sindaco) in ogni campo di attività, ivi
ricompresi gli atti di nomina degli amministratori e dei sindaci delle
società partecipate (qualora siano qualificabili, come nella specie,
alla stregua di enti strumentali del comune e dunque di amministrazioni
in senso sostanziale).
5.3. Ne deriva da quanto sopra detto che:
a)
gli organi del comune sono tenuti alla applicazione del principio di
pari opportunità, ora costituzionalizzato dall’art. 51 Cost.;
b)
tale principio dovrà essere tradotto mediante specifici provvedimenti
amministrativi, e in primo luogo in occasione di qualsivoglia atto di
nomina;
c) il principio in questione dovrà trovare applicazione
anche in relazione alle nomine concernenti gli enti strumentali del
comune, ivi ricomprese le società da esso partecipate che possiedono le
medesime caratteristiche di quella in esame.
Le conclusioni cui
si è appena pervenuti trovano ora conferma, tra l’altro, nella nuova
formulazione di cui all’art. 1, comma 4, del decreto legislativo n. 198
del 2006 (Codice delle pari opportunità), come modificato sul punto ad
opera dell’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 5
del 2010. tale disposizione prevede infatti che “l’obiettivo della
parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere
tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad
opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti amministrativi,
politiche e attività”.
5.4. Le statuizioni sopra riportate
sarebbero di per sé sufficienti a suffragare la tesi sostenuta dai
ricorrenti. Ritiene tuttavia il collegio che, per mero dovere di
completezza espositiva, debba essere evidenziata, nella specie, anche
la violazione dell’art. 6, comma 3, del TUEL.
Esso prevede, in
particolare, che “gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme
per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi
della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per promuovere la presenza di
entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e
della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi
dipendenti”.
La tesi di alcuni dei controinteressati è in
particolare quella di assegnare alla norma sopra indicata natura
“programmatica” e non immediatamente precettiva, come tale contenente
una mera direttiva indirizzata ai soggetti titolari della potestà
statutaria: la norma, in altre parole, per poter trovare concreta
applicazione necessiterebbe di disposizioni integrative di livello
statutario che nella specie tuttavia difettano (o meglio difettavano,
al momento della adozione degli atti qui impugnati).
Il collegio ritiene di non poter condividere tale impostazione.
Ed
infatti, come anche evidenziato dalla dottrina che ha avuto modo di
confrontarsi sul tema più generale delle disposizioni programmatiche,
non è corretto parlare di norme ad efficacia programmatica in
contrapposizione a norme ad efficacia obbligatoria, e ciò in quanto
ogni norma giuridica è per sua stessa natura obbligatoria, se non altro
per il solo fatto di essere inserita in un ordinamento normativo che
valga a qualificarla come tale.
Parlare di norma programmatica
come di norma che, al pari di ogni programma, può essere o meno
attuata, equivarrebbe a negare il concetto stesso di norma.
D’altra
parte, tutto nel mondo del diritto è “programma”, e tanto dal momento
che il diritto costituisce proprio la traduzione in termini normativi
di programmi che si intendono realizzare.
In questa prospettiva
le norme programmatiche (dette anche “di scopo”), pur limitandosi a
prescrivere indirizzi da attuare “de futuro” nonché in assenza della
definizione circa il contenuto ed i mezzi necessari alla loro
realizzazione, lungi dal potersi ritenere sfornite di valore normativo
entrano comunque a costituire l’ordine giuridico, dando vita altresì a
pretese azionabili rivolte a chiedere le loro osservanza da parte degli
organi cui è attribuita la relativa competenza.
All’idea di
“direttiva” non è pertanto corretto assegnare un significato vago e
indeterminato, come se le enunciazioni programmatiche formulate in sede
legislativa avessero un valore condizionato alla volontà dei soggetti
destinatari (nella specie, gli organi titolari del potere statutario).
Piuttosto,
può affermarsi che nella disposizione programmatica è contenuta, in
linea di massima, una valutazione che ha carattere di generalità, nel
senso ossia che la realizzazione degli obiettivi che essa si pone
necessita di successive “puntualizzazioni”.
Ma ciò non toglie
che, pur in assenza di queste (pur doverose) puntualizzazioni, gli
organi titolari del potere amministrativo sottostante siano del tutto
sganciati dal rispetto dei fondamentali principi (id est, pari
opportunità) contenuti nelle c.d. norme “di scopo”.
Con questo
si vuole dire che non è corretto contestare l’efficacia vincolante di
norme le quali, pur riconoscendo in modo preciso ed esplicito un
determinato diritto, rinviano ad una futura azione normativa (qui di
revisione statutaria) la determinazione di una loro disciplina meglio
specificata. Ed infatti, prima di tale intervento normativo integrativo
(o specificativo, se si preferisce) l’efficacia di dette norme
programmatiche non rimarrà sospesa, occorrendo invece ricavare,
dall’intero “sistema”, limiti e modalità connesse all’esercizio di
siffatto diritto.
Ebbene, da una analisi del “sistema”
complessivamente considerato non può che trarsi la conclusione –
coerentemente a quanto affermato nei punti che precedono – circa la
attuale cogenza del principio delle pari opportunità nei confronti di
tutti i soggetti istituzionali che compongono l’ordinamento
repubblicano ed in relazione a qualsivoglia tipo di provvedimento –
normativo oppure amministrativo – che si intende adottare con riguardo
ai diversi settori di intervento.
L’art. 6, comma 3, del TUEL,
va dunque oggi letto, facendo ricorso all’interpretazione
storico-evolutiva, attraverso la lente di ingrandimento dell’art. 51
Cost.
Del resto, è pacifico come la disposizione in esame
delinei un “fine”, pur senza specificare come conseguirlo. Trattandosi
di norma finalistica, è tuttavia da ritenere che detto obiettivo (il
rispetto delle pari opportunità) debba essere comunque raggiunto anche
in assenza delle prescritte disposizioni integrative ed attuative dello
statuto comunale, non potendosi ammettere che tali scelte possano
indefinitivamente condizionare o meglio sospendere l’effettivo rispetto
di tale obbligo, ora di matrice anche costituzionale. Spetterà poi
all’interprete (e prima ancora ai singoli responsabili istituzionali)
stabilire di volta in volta se tale principio, tenuto anche conto delle
singole circostanze del caso concreto, sarà stato adeguatamente
rispettato.
In conclusione:
a) la norma di cui all’art.
6, comma 3, del TUEL, anche alla luce del novellato art. 51 Cost., non
può avere carattere meramente sollecitatorio o comunque non cogente:
essa non può essere intesa, in altre parole, alla stregua di “mera
raccomandazione liberamente disattendibile”, pena l’inevitabile
depotenziamento della medesima in termini di precettività;
b) la
predetta disposizione costituisce al contrario una regola
giuridicamente rilevante (la cui inosservanza costituirà violazione del
principio delle pari opportunità), diretta a valere non solo in sede di
revisione statutaria ma anche, in assenza di siffatto recepimento, in
sede di nomina dei membri degli organi collegiali e degli enti
strumentali delle amministrazioni locali. Essa costituisce pertanto una
disposizione vincolante, quantomeno rispetto al fine specifico da
raggiungere (riequilibrio della rappresentanza dei due sessi);
c)
in assenza di una revisione statutaria nel senso sopra indicato,
spetterà agli organi competenti valutare caso per caso le modalità
attraverso cui ottemperare all’obbligo in questione, e ciò tenuto anche
conto delle singole circostanze che caratterizzano il caso concreto.
Infine,
considerato che la disposizione di cui all’art. 6 si riferisce agli
enti “dipendenti” dal Comune, deve di conseguenza ritenersi che in seno
a tale categoria debba annoverarsi anche la società in questione, data
la sua dimostrata natura di ente strumentale della predetta
amministrazione comunale (cfr. punto n. 1). Non è dunque fondata, in
questa direzione, la tesi sostenuta dalla amministrazione comunale
resistente circa l’inapplicabilità del principio in esame alla società
stessa.
Ne deriva da quanto detto che il Sindaco del Comune di
Lecce, nell’ambito della procedura svolta per le nomine di cui si
controverte, avrebbe comunque dovuto tenere conto del principio delle
pari opportunità, eventualmente riservando una aliquota dei membri da
nominare (la cui consistenza doveva a sua volta formare oggetto di
valutazione in concreto, sulla base delle singole circostanze) al sesso
generalmente sottorappresentato, ossia quello femminile.
5.5. A tanto si perviene anche considerando la particolare natura del potere esercitato.
Ed
infatti si può ritenere acquisito, nella giurisprudenza (cfr., T.A.R.
Puglia Bari, sez. II, 15 maggio 2006, n. 1759; Cons. Stato, sez. IV, 9
novembre 1995, n. 898; Cass., SS.UU., 16 aprile 1998, n. 38823), il
principio secondo cui i provvedimenti di nomina quali quelli in esame,
pur costituendo atti di alta amministrazione e seppure connotati da un
tasso di discrezionalità particolarmente elevato, non sono tuttavia
sottratti, come tali, al principio di legalità ed in primo luogo al
rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento: tra questi, quello
delle pari opportunità tra uomo e donna di cui alle citate fonti
costituzionali, legislative e statutarie.
E ciò tanto più ove
soltanto si consideri che, nella specie, non solo erano state ritenute
idonee un certo numero di rappresentanti del sesso femminile ma
addirittura, alcune di queste, avevano ottenuto una valutazione
superiore rispetto ad alcuni dei soggetti poi nominati quali membri dei
due organi in questione.
5.6. L’unico motivo di gravame, per come complessivamente prospettato e considerato, deve dunque trovare accoglimento.
6.
Per tutte le ragioni di seguito indicate il ricorso è fondato e deve
essere accolto. Per l’effetto, vanno annullati tutti gli atti in
epigrafe indicati; con l’ulteriore conseguenza che, in sede di
riedizione del potere amministrativo, il Sindaco del Comune di Lecce
dovrà provvedere alla nomina di rappresentanti del sesso femminile
sulla base degli esiti già ottenuti nella pregressa fase di valutazione
dei singoli candidati.
Data la novità e l’obiettiva complessità
della questione, sussistono giusti motivi per compensare integralmente
tra le parti le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Il
Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce, prima
sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 1484/2009, lo
accoglie e per l’effetto:
A) annulla il decreto del Sindaco del
Comune di Lecce in data 30 giugno 2009, n. 9, il decreto del Sindaco
del Comune di Lecce in data 30 giugno 2009, n. 10 ed il parere in data
26 giugno 2009, n. 79164, adottato dal Dirigente del Settore Affari
Generali ed Istituzionali del Comune di Lecce;
B) ordina al
Sindaco del Comune di Lecce di provvedere alla nomina di rappresentanti
del sesso femminile, all’interno degli organi societari in epigrafe
indicati, come da motivazione (punto n. 6).
Spese compensate
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 16/12/2009 con l’intervento dei Magistrati:
Aldo Ravalli, Presidente
Luigi Viola, Consigliere
Massimo Santini, Referendario, Estensore
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 24/02/2010.