Stangato da Equitalia, a rischio l’azienda
Quando ha aperto la cassetta della posta, lo scorso 21 novembre, ha sudato freddo. Pochi dubbi sulla provenienza della busta: Equitalia.
Anche meno sul contenuto: una cartella esattoriale. Ma una stangata simile, l’imprenditore non se l’aspettava. La società di riscossione dei tributi, infatti comunicava al titolare della S.H. – piccola ditta di Trezzano Rosa, in provincia di Milano, specializzata in elettronica e circuiti stampati – di avergli pignorato quasi 70mila euro depositati su un conto corrente del Banco di credito cooperativo di Carugate a causa del mancato pagamento di vecchi debiti con l’erario. Un colpo non da poco per i bilanci della S.H. Ma anche per i suoi dipendenti. Perché quei soldi – protesta il destinatario della cartella – dovevano servire a retribuire i cinque lavoratori della ditta. Che a questo punto rischiano di pagare sulla solo pelle gli effetti del contenzioso.
E così F.S., titolare dell’azienda, ha fatto ricorso al tribunale amministrativo. Il pignoramento – ha sostenuto – è illegitto, perché il denaro destinato alle buste paga dei dipendenti non è pignorabile. Ma gli è andata male. Ha anche spiegato che il debito accumulato con Equitalia era dovuto a «problematiche intervenute nel corso del tempo». In poche parole, alla crisi che strozza le aziende. Ma il Tar ha potuto farci ben poco. «Il pignoramento effettuato con l’ordine diretto – scrivono i giudici amministrativi nella sentenza depositata solo pochi giorni fa – costituisce un vero e proprio atto dell’esecuzione contro il quale sono ammissibili, a piena garanzia del debitore, gli strumenti di opposizione previsti dall’ordinamento processuale, come opposizione agli atti esecutivi o secondo i casi, come opposizione alla esecuzione. Non si tratta, pertanto, nella specie, di una nuova e più snella forma di riscossione amministrativa, bensì di una (parzialmente) nuova e più snella forma di esecuzione che non si sottrae alla valutazione, quanto alla sua legittimità, del giudice ordinario».
E così le toghe di via Corridoni non hanno potuto fare altro che dichiarare il «difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a favore di quello ordinario». Ovvero, il titolare dell S.H. dovrà presentare ricorso davanti alla commissione tributaria o a un tribunale civile. Rassegnandosi, in quest’ultimo caso, a fare i conti con i tempi biblici della giustizia. Perché anche se un magistrato dovesse dargli ragione, la sentenza arriverà dopo anni.
Fonte: www.ilgiornale.it