Strade rotte e buche responsabilità della p.a.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 6 luglio 2006, n. 15383 Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 18.11.1998, B.A. proponeva appello avverso la sentenza del giudice di pace di Ancona n. 302/1998, con la quale veniva respinta la domanda di risarcimento dei danni subiti dallo stesso in occasione del sinistro occorso il 30.7.1996, in Ancona, mentre alla guida della propria autovettura percorreva via (OMISSIS) ed, a seguito dello spostamento improvviso sulla sinistra dell’auto che lo precedeva, finiva con la ruota posteriore in un tombino scoperto, non segnalato, il cui coperchio era appoggiato in vicinanza dell’apertura, riportando danni.
Il Tribunale di Ancona, con sentenza depositata il 13.6.2002, rigettava l’appello.
Riteneva il tribunale che nella specie, trattandosi di bene appartenente al demanio stradale comunale, non era ipotizzabile una responsabilità del Comune a norma dell’art. 2051 c.c., ma solo ai sensi dell’art. 2043 c.c., ove fosse stata ravvisabile un’insidia stradale; che nella fattispecie l’attore avrebbe potuto far valere la responsabilità da custodia nei confronti dell’Azienda Municipalizzata Servizi (dotata di propria soggettività giuridica), in quanto gli operai di tale azienda avevano sollevato il coperchio del tombino; che, nessuna colpa poteva ravvisarsi a carico del Comune, in quanto lo scoperchiamento del tombino costituiva un caso fortuito posto in essere da un terzo, che escludeva il nesso di causalità.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’attore.
Non ha svolto attività difensiva il convenuto.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c., in relazione all’art. 2967 c.c., nonchè la violazione dell’art. 21 del Codice della Strada e l’insufficiente e contraddittoria motivazione.
Assume il ricorrente che erratamente la sentenza ha ritenuto che la responsabilità del Comune per danni dall’uso di strada comunale fosse ristretto alle sole ipotesi di danni da insidia stradale ex art. 2043 c.c., mentre andava affermata la responsabilità dell’ente, quale custode a norma dell’art. 2051 c.c.; che, ove anche fosse stata ritenuta la custodia del bene da parte della Azienda, cui erano stati appaltati i lavori di manutenzione della strada, ciò non escludeva che rimaneva custode della stessa anche il Comune, essendo essa aperta al traffico, con i conseguenti obblighi imposti dall’art. 21 del Codice della Strada; che conseguentemente nessun caso fortuito poteva ritenersi sussistere; che, in ogni caso, l’apertura del tombino integrava un’insidia stradale per l’attore, che, proseguendo a ridosso della vettura che lo precedeva, non era in grado di avvistare la detta apertura.
2.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia fondato e che lo stesso vada accolto.
Osserva questa Corte che esistono quattro orientamenti giurisprudenziali in merito alla responsabilità della p.a. per i danni subiti dall’utente conseguenti all’utilizzo di beni demaniali e, segnatamente, per quelli conseguenti ad omessa od insufficiente manutenzione di strade pubbliche.
Secondo l’orientamento predominante questa tutela è esclusivamente quella predisposta dall’art. 2043 c.c..
Si osserva, infatti, che la p.a. incontra nell’esercizio del suo potere discrezionale anche nella vigilanza e controllo dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle norme di legge o di regolamento, nonchè dalle norme tecniche e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed in particolare dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere ( art. 2043 c.c.), in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia luogo al cd. trabocchetto o insidia stradale.
Sussiste l’insidia, fondamento della responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c., della p.a. per danni riportati dall’utente stradale, allorchè essa non sia visibile o almeno prevedibile (26/05/2004, n. 10132; Cass. 22.4.1999, n. 3991; Cass. 28.7.1997, n. 7062; Cass. 20.8.1997, n. 7742; Cass. 16.6.1998, n. 5989 e molte altre).
La giurisprudenza nei primi anni del 1900 iniziò ad affermare il principio della responsabilità della P.A. conseguente alla violazione colposa delle regole di prudenza e di esperienza nell’ambito della attività amministrativa, fissando il limite oltre il quale la discrezionalità (e la correlata insindacabilità del suo comportamento da parte dell’autorità giudiziaria) doveva arrestarsi, e sostenendo la rilevanza sul piano civilistico della inosservanza delle regole di prudenza, perizia e diligenza anche con riguardo alla specifica materia della manutenzione stradale. In tale contesto la giurisprudenza in un primo tempo elaborò la figura della insidia o trabocchetto quale elemento sintomatico della attività colposa dell’amministrazione, ricorrente allorchè la strada nascondeva una insidia non evitabile dall’utente con l’ordinaria diligenza, – successivamente, peraltro, tale nozione divenne un indice tassativo ed ineludibile della responsabilità della P.A., e l’onere probatorio in ordine alla sua sussistenza ricadeva a carico del danneggiato.
Tale orientamento costituisce sostanzialmente ancor oggi un elemento fondamentale per l’affermazione della responsabilità della P.A. ex art. 2043 c.c. con riferimento ai danni prodotti da omessa o insufficiente manutenzione di strade pubbliche, ricondotta infatti all’inosservanza del principio del “neminem laedere”, ma sempre a condizione che venga provata l’esistenza di una situazione insidiosa caratterizzata dalla non visibilità e dalla non prevedibilità del pericolo.
2.2. Un orientamento minoritario, invece, riconduce la responsabilità della p.a., proprietaria di una strada pubblica, per danni subiti dall’utente di detta strada, alla disciplina di cui all’art. 2051 c.c., assumendo che la p.a., quale custode di detta strada, per escludere la responsabilità che su di essa fa capo a norma dell’art. 2051 c.c., deve provare che il danno si è verificato per caso fortuito, non ravvisabile come conseguenza della mancanza di prova da parte del danneggiato dell’esistenza dell’insidia, che questi, invece, non deve provare, così come non ha l’onere di provare la condotta commissiva o omissiva del custode, essendo sufficiente che provi l’evento danno ed il nesso di causalità con la cosa (Cass. 22.4.1998, n. 4070; Cass. 20.11.1998, n. 11749; Cass. 21.5.1996, n. 4673; Cass. 3 giugno 1982 n. 3392, 27 gennaio 1988 n. 723).
In particolare dalla proprietà pubblica del Comune sulle strade poste all’interno dell’abitato (L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 16, lett. b, allegato F) discende non solo l’obbligo dell’Ente alla manutenzione, come stabilito dal R.D. 15 novembre 1923, n. 2056, art. 5, ma anche quello della custodia con conseguente operatività, nei confronti dell’Ente stesso, della presunzione di responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c..
Per danni causati da beni demaniali, è fortemente sostenuto in dottrina che il ritenere non applicabile alla stessa per tale categorie dei beni la responsabilità da custodia, ma solo quella ex art. 2043 c.c., costituirebbe un ingiustificato privilegio e, di riflesso, un ingiustificato deteriore trattamento per gli utenti danneggiati.
3.1. Un orientamento intermedio, che è andato sempre più sviluppandosi negli ultimi tempi, ritiene che l’art. 2051 c.c., in tema di presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia – in realtà – trova applicazione nei confronti della pubblica amministrazione, con riguardo ai beni demaniali, esclusivamente qualora tali beni non siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei terzi, ma vengano utilizzati dall’amministrazione medesima in situazione tale da rendere possibile un concreto controllo ed una vigilanza idonea ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo (Cass. 30 ottobre 1984 n. 5567), ovvero, ancora, qualora trattisi di beni demaniali o patrimoniali che per la loro limitata estensione territoriale consentano una adeguata attività di vigilanza sulle stesse (Cass. 5.8.2005, n. 16675; Cass. n. 11446 del 2003; Cass. 1.12.2004, n. 22592; Cass. 15/01/2003, n. 488; Cass. 13.1.2003, n. 298; Cass. 23/07/2003, n. 11446).
3.2. una recente sentenza di questa Corte (20.2.2006, n. 3651) ribadisce il principio che, poichè custode dei beni demaniali è la P.A., essa risponde dei danni provocati da detti beni a norma dell’art. 2051 c.c.. La peculiarità di questa sentenza è nell’escludere che la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. costituisca una responsabilità oggettiva, cioè “una responsabilità senza colpa”, poichè fondamento della responsabilità è la violazione del dovere di sorveglianza, gravante sul custode. Secondo tale arresto il caso fortuito, che esclude la responsabilità, non costituisce un elemento esterno che incide sul nesso causale, ritenendo, invece che la prova del fortuito (prova liberatoria) attiene alla prova che il danno si è verificato in modo non prevedibile nè superabile con l’adeguata diligenza, per cui la prova del fortuito attiene al profilo della mancanza di colpa da parte del custode, mentre l’estensione del bene demaniale e l’uso diretto della cosa da parte della collettività sono elementi sintomatici per escludere tale presunzione di colpa a carico del custode. Tale sentenza, quindi, non solo inquadra la responsabilità della p.a. per danni da beni demaniali nell’ambito dell’art. 2051 c.c., ma soprattutto riporta la responsabilità del custode nell’ambito della responsabilità per colpa, nella specie presunta.
4. La problematica in questione è stata esaminata dalla Corte Costituzionale (10/5/1999 n. 156), che ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2043, 2051 e 1227 c.c., comma 1, in rapporto agli artt. 3, 24 e 97 Cost., sulla scorta dei rilievi che, come sottolineato in alcune sentenze, “la notevole estensione del bene e l’uso generale e diretto da parte del terzi costituiscono meri indici dell’impossibilità del concreto esercizio del potere di controllo e di vigilanza sul bene medesimo;
la quale dunque potrebbe essere ritenuta, non già in virtù di un puro e semplice riferimento alla natura demaniale del bene, ma solo a seguito di un’indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo, e secondo criteri di normalità”.
La Corte Costituzionale, nel ritenere non fondata la questione, richiamato il principio di autoresponsabilità a carico degli utenti “gravati di un onere di particolare attenzione nell’esercizio dell’uso ordinario diretto del bene demaniale per salvaguardare appunto la propria incolumità”, ha tra l’altro considerato la nozione di insidia “come una sorte di figura sintomatica di colpa, elaborata dalla esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, con il preciso fine di meglio distribuire tra le parti l’onere probatorio, secondo un criterio di semplificazione analitica della fattispecie generatrice della responsabilità in esame” (sull’infondatezza della sollevata questione di incostituzionalità, vedasi anche Cass. S.U. n. 10893/2001).
5.1. Il problema che si pone, soprattutto per effetto della sentenza n. 3651/2006, è, in primo luogo, quello di riesaminare il tipo di responsabilità del custode, al fine di sperimentarne l’applicabilità nei confronti del titolare di beni demaniali. La giurisprudenza costante di questa Corte ritiene che la responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia, ex art. 2051 c.c., ha base:
a) nell’essersi il danno verificato nell’ambito del dinamismo connaturato alla cosa o dallo sviluppo di un agente dannoso sorto nella cosa;
b) nell’esistenza di un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere fisico inerisce il dovere di custodire la cosa stessa, cioè di vigilarla e di mantenerne il controllo, in modo da impedire che produca danni a terzi. In questo senso, in buona sostanza, è anche la suddetta Cass. n. 3651/06. 5.2. A fronte del suddetto tradizionale orientamento giurisprudenziale tradizionale, che individuava nella norma in questione un caso di presunzione di colpa, per cui il fondamento della responsabilità sarebbe stato pur sempre il fatto imputabiledell’uomo (nella specie del custode), che era venuto meno al suo dovere di controllo e vigilanza perchè la cosa non producesse danni a terzi (in questo senso, in buona sostanza, è anche la suddetta Cass. n. 3651/06), la maggioranza della dottrina recente ritiene che il comportamento del responsabile è estraneo alla fattispecie e fa quindi giustizia di quei modelli di ragionamento che si limitano ad accertare la colpa del custode, sia essa presunta o meno, parlando in proposito di caso di responsabilità oggettiva. La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia ( art. 2051 c.c.) ha carattere oggettivo e, perchè possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non presuppone nè implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e funzione della norma è, d’altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d’uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Ne consegue che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità (rilevante non già ad escludere la colpa bensì quale profilo oggettivo, al fine di accertare l’eccezionalità del fattore esterno, sicchè anche un’utilizzazione estranea alla naturale destinazione della cosa diviene prevedibile dal custode laddove largamente diffusa in un determinato ambiente sociale) e dell’inevitabilità, a nulla viceversa rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell’inizio del rapporto di custodia (ex multis Cass. 10/03/2005, n. 5326; Cass. 10/08/2004, n. 15429, Cass. 15/03/2004, n. 523/6; Cass. 15/01/2003, n. 472; Cass. 20/08/2003, p. 12219; Cass. 9/04/2003, n. 5578; Cass. 15/01/2003, n. 472; Cass. S.U. 11.11.1991, n. 12019; Cass. 17.1.2001, n. 584).
5.3. Ritiene questa Corte di dover ribadire tale orientamento.
Solo il “fatto della cosa” è rilevante (e non il fatto dell’uomo).
La responsabilità si fonda sul mero rapporto di custodia e solo stato di fatto e non l’obbligo di custodia può assumere rilievo nella fattispecie.
Il profilo del comportamento del responsabile è di per sè estraneo alla struttura della normativa; nè può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia, giacchè il solo limite previsto dall’articolo in esame è l’esistenza del caso fortuito ed in genere si esclude che il limite del fortuito si identifichi con l’assenza di colpa.
Va, quindi, affermata la natura oggettiva della responsabilità per danno di cose in custodia.
La dottrina, parla, al riguardo di “rischio” da custodia, più che di “colpa” nella custodia ovvero, seguendo l’orientamento della giurisprudenza francese di “presunzione di responsabilità” e non di “presunzione di colpa”. 5.4. Osserva questa Corte che il dato lessicale della norma in esame ritiene sufficiente, per l’applicazione della stessa, la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo. Sempre dalla lettera dell’art. 2051 c.c., emerge che il danno è cagionato non da un comportamento (per quanto omissivo) del custode, ma dalla cosa (fait de la chose – art. 1384, comma 1, Code Napoleon), per cui detto comportamento è irrilevante.
Responsabile del danno cagionato dalla cosa è sì colui che essenzialmente ha la cosa in custodia, ma il termine non presuppone nè implica uno specifico obbligo di custodire la cosa, e quindi non rileva la violazione di detto obbligo. Qui la nozione di “custodia” non ha la stessa valenza del diritto romano nè quella propria della responsabilità contrattuale, per cui non comporta l’obbligo comportamentale del soggetto di controllare la cosa per evitare che essa produca danni: essa non descrive null’altro che la relazione tra un soggetto e la cosa che gli appartiene. Il custode negligente non risponde in modo diverso dal custode perito e prudente se la cosa ha provocato danni a terzi.
Ciò è tanto più rilevante se si osserva il contesto ove trovasi la norma in questione e cioè tra altre ( artt. 2047, 2048 e 2050 c.c., art. 2054 c.c., comma 1) ben diversamente strutturate, in cui la presunzione non attiene alla responsabilità, ma alla colpa, per cui la prova liberatoria, in siffatte altre ipotesi, ha appunto ad oggetto il superamento di detta presunzione di colpa.
5.5. Il fortuito esclude la responsabilità del custode, ai sensi dell’art. 2051 c.c. Esso va inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato, purchè detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (Cass. 10/03/2005, n. 5326; Cass. 28 ottobre 1995, n. 11264; Cass. 26 febbraio 1994, n. 1947).
Poichè la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa, e poichè il limite della responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito) che attiene non ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma alle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che la rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anzichè alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.
All’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo; il convenuto per liberarsi dovrà provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.
5.6. Va, quindi, riassorbita la tesi sostenuta da Cass. n. 3651/06, secondo cui il caso fortuito altro non costituirebbe che la presenza di un evento che esclude la colpa del custode, con la conseguenza che anche questa ipotesi di responsabilità sarebbe di tipo soggettivo, con presunzione di colpa a carico del custode, salva la prova liberatoria della mancanza di colpa, cioè, in positivo, della presenza del fortuito. Tale impostazione risente del principio della tradizione romanistica e di una parte della dottrina classica tedesca, secondo cui “nessuna responsabilità sussiste senza colpa”, per cui casus = non culpa, mentre la dottrina moderna riconosce pacificamente la presenza di Ipotesi di responsabilità oggettiva, considerandole come approdo delle legislazioni moderne. Anche in Germania, il cui sistema è strenuamente preoccupato della centralità della colpa sul piano dell’affermazione di principio (823 del BGB), la Gefahrdungshaftung si è sviluppata come un vero e proprio sistema di responsabilità oggettiva rigorosamente legislativo, per quanto esterno al BGB. A fronte delle resistenze verso un tipo di responsabilità fondata sulla pura causalità, si è osservato che il criterio di imputazione reagisce sul rapporto di causalità. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o Irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Nella responsabilità oggettiva sono i criteri di Imputazione ad individuare la sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità. Tale criterio di imputazione nelle specifiche fattispecie di responsabilità oggettive è fissato dal legislatore con una qualificazione del soggetto, su cui viene fatto ricadere il costo del danno.
La ratio di tale accollo del costo del danno non è più la colpa, ma un criterio oggettivo, che tuttavia rimane fuori dalla norma.
Esso fu individuato nella deep pocket (tasca ricca) negli ordinamenti del common law e nella richesse oblige, nella tradizione francese, mentre nell’affinamento dottrinale successivo si è ritenuto che la ratio vada individuata nel principio dell’esposizione al pericolo o all’assunzione del rischio, ovvero nell’imputare il costo del danno al soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui doveva sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.
5.7. Sennonchè, ciò che va ribadito, è che quanto sopra individua la ratio del criterio di imputazione del rapporto di causalità ad un determinato soggetto e non ad altri, effettuata a monte dal legislatore, ma non comporta un ulteriore elemento di integrazione della fattispecie di responsabilità, costituito da un sindacato da parte del giudice sulla scelta effettuata dal soggetto su qui la norma accolla il costo del danno. Nella responsabilità oggettiva il giudizio è puramente tipologico e consiste nell’appurare se l’evento che si è verificato appartenga o meno alla serie di quelli che il criterio di imputazione ascrive ad una certa sfera del soggetto per il loro semplice accadere.
In questi termini è esatta la centralità del nesso causale nelle ipotesi di responsabilità oggettiva.
Mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso, causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale.
E tuttavia un “fatto” è pur sempre necessario perchè la responsabilità sorga, giacchè l’imputazione del danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui all’art. 2043 c.c., e segg., (sia di responsabilità oggettiva che soggettiva), le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento ad un soggetto chiamato a risponderne.
Il “danno” rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili o evento dannoso, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.
Il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo(questo inteso come condotta, nesso causale ed evento lesivo).
Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria.
5.8. Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l’idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, è analoga a quella penale, artt. 40 e 41 c.p. ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria. A questo secondo momento va riferita, la regola dell’art. 1223 c.c., per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (cd. causalità giuridica, per cui si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili).
Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti fanno applicazione dei principi penalisti di cui agli artt. 40 e 41 c.p..
5.9. Pertanto un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altare condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiono inverosimili (cd. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale (Cass. 16/12/2004, n. 2343; Cass. 26/03/2004, n. 6071; Cass. 3/12/2002, n. 17152; Cass. 29/07/2004, n. 14488; Cass. 19/08/2003, n. 12124; Cass. 22/10/2003, n. 15789; Cass. 15/01/2003, n. 484).
Secondo tale teoria della causalità adeguata, elaborata dalla dottrina tedesca (e sostanzialmente anche secondo la variante italiana della cosiddetta teoria della causalità umana) per l’imputazione oggettiva dell’evento occorrono due presupposti: uno positivo (la raffigurazione della condotta dell’agente come condizione necessaria) ed uno negativo, cioè la mancanza di fattori esterni eccezionali, da valutarsi non ex post, ma ex ante.
Detta causalità adeguata (nella sua tradizionale formulazione “positiva”) comporta che la rilevanza giuridica della “condicio sine qua non” è commisurata all’incremento, da essa prodotto, dell’obiettiva possibilità di un evento del tipo di quello effettivamente verificatosi.
5.10. Sennonchè, una volta ritenuto che nella responsabilità aquiliana, il nesso di causalità materiale è regolato dalle norme penalistiche, non può poi decamparsi da esse allorchè si tratti delcaso fortuito, previsto dall’art. 45 c.p., che esclude la punibilità di “chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore”.
La dottrina e la giurisprudenza penalistiche tradizionali ritenevano che il caso fortuito presupponesse il nesso causale e che esso operasse nell’ambito della colpevolezza, quale causa di esclusione della stessa (ed in questi termini sembra muoversi anche la suddetta sentenza civile n. 3651/06). Sennonchè, da oltre quaranta anni, la dottrina penalistica dominante ritiene che il fortuito costituisca una causa di esclusione del nesso causale in quanto l’art. 45 c.p., nel far seguire al verbo “ha commesso” la preposizione “per”, sta ad indicare “a causa di”.
In ogni caso la suddetta dottrina rileva, in modo pienamente condivisibile, che solo la concezione del fortuito come esclusione del nesso causale si coordina con il precedente art. 41 cpv. c.p., secondo cui le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento e soprattutto con il principio di regolarità causale o causalità adeguata.
Infatti la considerazione oggettiva del fortuito, inteso come avvenimento obbiettivamente non prevedibile come verisimile, è l’unica compatibile con la teoria della causalità adeguata.
Allorchè si dichiara che la valutazione del fortuito, come causa di esclusione della colpevolezza e non del nesso di causalità (ovvero come causa concorrente), presuppone già risolta la questione del rapporto di causalità tra la condotta e l’evento verificatosi, si finisce per creare un duplicato del caso fortuito, uno di natura oggettiva e l’altro di natura soggettiva. Ciò è inesatto, giacchè non può tenersi conto del casus due volte, prima in sede di causalità e poi in sede di colpevolezza.
Sotto il profilo eziologico 11 caso fortuito svolge a monte la stessa funzione che la “causalità adeguata” svolge a valle relativamente all’evento, ma pur sempre nell’ambito dell’elemento materiale e non in quello soggettivo: esclusione dell’imputabilità per imprevedibilità ed inevitabilità oggettiva (nel primo caso del fatto causante, nel secondo dell’evento causato).
6.1. Così riportata la responsabilità da cose in custodia nell’ambito della responsabilità oggettiva, occorre stabilire quali siano i limiti ed il contenuto della “custodia”, che è elemento costitutivo della responsabilità ex art. 2051 c.c. ed è il criterio che consente di identificare il soggetto tenuto a risarcire il danno cagionato dalla cosa, al fine di esaminare se ed in quali limiti la P.A. possa essere responsabile ex art. 2051 c.c., quale custode di beni demaniali, per poi esaminare, nei casi positivi, in quali termini possa per essa operare l’esimente del caso fortuito.
Secondo una tesi il concetto di custodia si deve collegare a quello di uso, godimento, sfruttamento economico della cosa: al custode si imputa la responsabilità, giacchè è al soggetto che trae profitto dalla cosa, secondo il brocardo cuius commoda eius et incomoda, che deve addebitarsi la responsabilità.
La tesi è stata ulteriormente sviluppata dai teorici del rischio – profitto, che hanno ritenuto che la custodia si sostanzia nel dovere di controllo sul rischio derivante dalla cosa, distinguendo tra rischi tipici e rischi atipici, rimanendo a carico del custode solo i primi.
6.2. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale e dottrinale, cui questa Corte aderisce, la custodia si identifica in una potestà di fatto, che descrive un’attività esercitabile da un soggetto sulla cosa in virtù della detenzione qualificata, con esclusione quindi della detenzione per ragioni di ospitalità e servizio, sulla scia del Gardien (dell’art. 1384 Code Napoleon) e del Besitzherr (p. 854 B.G.B.). Responsabile del danno proveniente dalla cosa non è il proprietario, come nei casi di responsabilità oggettiva di cui agli artt. 2052, 2053 e 2054 c.c., ultimo comma, ma il custode della cosa.
E’ dunque la relazione di fatto, e non semplicemente giuridica, tra il soggetto e la cosa che legittima una pronunzia di responsabilità, fondandola sul potere di ” governo della cosa”.
La sola relazione giuridica (corrispondente al diritto reale o alla titolarità demaniale) tra il soggetto e la cosa non dà ancora luogo alla custodia (ma la fa solo presumere), allorchè la relazione di fatto intercorra con altro soggetto qualificato che eserciti la potestà sulla cosa, (ad esempio il conduttore o il concessionario).
Tale “potere di governo” si compone di tre elementi: il potere di controllare la cosa, il potere di modificare la situazione di pericolo creatasi, nonchè quello di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla cosa nel momento in cui si è prodotto il danno.
Solo così intendendo il contenuto della custodia, si da ragione del criterio di imputazione costituito dalla relazione di custodia tra il soggetto custode e la cosa che ha prodotto il danno.
Infatti – come detto – il criterio di imputazione esiste anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è più fondato su criteri soggettivi, ma su criteri oggettivi, come tali tipologici. Il concetto di responsabilità implica quello di sanzione per un fatto che l’ordinamento connota negativamente nei confronti di colui sul quale ne fa gravare il costo.
6.3. Poichè la custodia è una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa, certamente tale potere di fatto non può essere a priori escluso in relazione alla natura demaniale del bene, ma neppure può essere ritenuto in ogni caso sussistente anche quando vi è l’oggettiva impossibilità di tale potere di controllo del bene, che è il presupposto necessario per la modifica della situazione di pericolo.
Va qui, specificato che, attraverso questa analisi del concetto di “custodia” nel suo contenuto di “potere di governo” della cosa, non si vuole reintrodurre in modo surrettizio, un elemento di soggettività della responsabilità ex art. 2051 c.c., inserendolo nell’elemento della custodia, da cui discenderebbe che il custode, che avesse tuttavia controllato senza colpa, sarebbe esente da responsabilità per il danno verificatosi.
Non vi è dubbio, come sopra detto, che il custode risponde dei danni prodotti dalla cosa non perchè ha assunto un comportamento poco diligente, ma più semplicemente per la particolare posizione in cui si trovava rispetto alla cosa danneggiante, e quindi secondo una logica che è propria della responsabilità oggettiva.
6.4. Ciò comporta che la possibilità o meno del potere di controllo va egualmente accertata in termini oggettivi nello specifico caso di predicata custodia.
Se il potere di controllo è oggettivamente impossibile, non vi è custodia e quindi non vi è responsabilità della p.a., ai sensi dell’art. 2051 c.c..
6.5. Indici sintomatici dell’impossibilità del controllo del bene demaniale sono la notevole estensione e l’uso generalizzato dello stesso da parte degli utenti; ma tali elementi non attestano in modo automatico l’impossibilità di custodia.
La possibilità o l’impossibilità di un continuo ed efficace controllo e di una costante vigilanza – dalle quali rispettivamente dipendono l’applicabilità o la non applicabilità dell’art. 2051 c.c. – non si atteggiano univocamente in relazione a tutti i tipi di beni demaniali, ma vanno accertati in concreto da parte del giudice di merito.
Ove tale attività di controllo non sia oggettivamente possibile, non potrà invocarsi alcuna responsabilità della p.a., proprietaria del bene demaniale, a norma dell’art. 2051 c.c., per mancanza di un elemento costitutivo della custodia e cioè la controllabilità della cosa, residuando, se ne ricorre gli estremi, la responsabilità di cui all’art. 2043 c.c..
6.6. Segnatamente per i beni del demanio stradale la possibilità in concreto della custodia, nei termini sopra detti, va esaminata non solo in relazione all’estensione delle strade, ma anche alle loro caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che li connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico di volta in volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti.
Per le autostrade, contemplate dal D.P.R. 15 giugno 1959, n. 393, art. 2, (vecchio codice della strada) e del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (nuovo cod. strad.) e per loro natura destinato alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, l’apprezzamento relativo alla effettiva “possibilità” del controllo alla stregua degli indicati parametri non può che indurre a conclusioni in via generale affermativa, e dunque a ravvisare la configurabilità di un rapporto di custodia per gli effetti di cui all’art. 2051 c.c. (Cass. n. 298/03; Cass. n. 488/2003).
6.7. Figura sintomatica della possibilità dell’effettivo controllo di una strada del demanio stradale comunale è che la stessa si trovi all’interno della perimetrazione del centro abitato (L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 quinquies; come modificato dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17; D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 9; D.Lgs.
30 aprile 1992, n. 285, art. 4). Infatti la localizzazione della strada all’interno di tale perimetro, dotato di una serie di altre opere di urbanizzazione e, più in generale, di pubblici servizi che direttamente o indirettamente sono sottoposti ad attività di controllo e vigilanza costante da parte del Comune, denotano la possibilità di un effettivo controllo e vigilanza della zona, per cui sarebbe arduo ritenere che eguale attività risulti oggettivamente impossibile in relazione al bene stradale.
6.8. Ove l’oggettiva impossibilità della custodia, renda inapplicabile l’art. 2051 c.c., come detto, la tutela risarcitoria del danneggiato rimane esclusivamente affidata alla disciplina di cui all’art. 2043 c.c..
In merito a questa va specificato che la responsabilità della p.a. per danni conseguenti all’utilizzo di bene demaniale da parte del soggetto danneggiato non può essere limitata ai soli casi di insidia o trabocchetto questi, come è stato rilevato, sono solo elementi sintomatici della responsabilità della p.a., ma ciò non esclude che possa individuarsi nella singola fattispecie anche un diverso comportamento colposo della p.a.. Limitare aprioristicamente la responsabilità della p.a. per danni subiti dagli utenti dei beni demaniali alle sole ipotesi della presenza di insidia o trabocchetto non trova alcuna base normativa nella Generalklausel di cui all’art. 2043 c.c., con un’indubbia posizione di privilegio per la p.a. (in questo senso, già Cass. 14.3.2006, n. 5445).
Una volta ritenuta l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2043 c.c. non vi è una ragione, normativamente fondata, nè per effettuare una limitazione del contenuto precettivo della norma nè per un diverso riparto dell’onere probatorio. In questo caso graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale (e segnatamente della strada), fatto di per sè idoneo – in linea di principio – a configurare il comportamento colposo della P.A. sulla quale ricade l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali – nella teorica dell’insidia o trabocchetto – la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia.”. 7.1. Sia nell’ipotesi che la fattispecie rientri nell’art. 2043 c.c. sia che rientri, nell’art. 2051 c.c., è rilevante l’eventuale comportamento colposo del danneggiato, poichè esso incide sul nesso causale.
In un sistema in cui il nesso causale tra il fatto e l’evento svolge un ruolo centrale, diventa fondamentale accertare se l’evento eziologicamente derivi in tutto o in parte dal comportamento dello stesso danneggiato, valutandone, quindi, l’eventuale apporto causale.
Come sopra detto, l’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. 8.7.1998, n. 6640; Cass. 7 aprile 1988, n. 2737).
7.2. Un corollario di detto principio è la regola posta dall’art. 1227 c.c., comma 1, il quale nel contempo da base normativa al suddetto principio, presupponendolo. Tale norma prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato: essa è un approdo dei codici moderni.
In passato, invece, l’accertamento di una concorrente colpa del danneggiato faceva venir meno la responsabilità del danneggiante, tranne che sussistesse il dolo di costui.
Nei sistemi di common law si parlava di contributory negligence, contributory negligence ed attualmente di comparative negligence.
Secondo la dottrina classica nel nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità, segnatamente previsto dall’art. 1227 c.c., comma 1, oltre che da altre norme, che imporrebbe ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza.
L’autoresponsabilità costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili alla prevenzione dei danni che potrebbero colpirli.
7.3. Senza entrare nella questione dell’esistenza nel nostro ordinamento del detto principio di autoresponsabilità, va solo rilevato che la dottrina più recente, che questa Corte ritiene di dover condividere, ha abbandonato l’idea che la regola di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, sia espressione del principio di autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile.
Pertanto la colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.
7.4. La regola di cui all’art. 1227 c.c. va inquadrata esclusivamente nell’ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso (Cass. civ. 26/04/1994, n. 3957; Cass. 08/05/2003, n. 6988).
La colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.
Proprio perchè è rimasta superata la teoria del principio autoresponsabilità del danneggiato, la colpevolezza del comportamento del creditore-danneggiato, pur richiesta dall’art. 1227 c.c., comma 1, è l’unico elemento di selezione dei vari possibili comportamenti – eziologicamente idonei – del danneggiato, qualunque possa essere l’interpretazione dell’obbligo giuridico, cui si richiama l’art. 41 c.p.c., comma 2, allorchè il danno trovi la sua causa nel comportamento omissivo di altro soggetto.
Così ristretta nella funzione la portata della colpa del creditore- danneggiato, stante la genericità dell’art. 1227 c.c., comma 1, sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica.
Se tanto avviene in caso di concorso del comportamento colposo del danneggiato nella produzione del danno, tenuto conto di quanto sopra esposto su detto istituto, per eguale ragione il comportamento commissivo o omissivo colposo del danneggiato, che sia sufficiente da solo a determinare l’evento, esclude il rapporto di causalità delle cause precedenti.
7.5. In questa ottica la diligenza del comportamento dell’utente del bene demaniale, e segnatamente della strada demaniale, va valutata anche in relazione all’affidamento che era ragionevole porre nell’utilizzo ordinario di quello specifico bene demaniale, con riguardo alle specifiche condizioni di luogo e di tempo.
Per il principio dell’affidamento il fatto che una persona agisca come membro di un determinato gruppo sociale comporta l’assunzione della responsabilità di saper riconoscere ed affrontare determinati pericoli secondo lo standard di diligenza e capacità del gruppo.
Qui non si tratta di introdurre – specularmente – in relazione alla posizione del custode l’elemento dell’esigibilità o meno di una diversa condotta, poichè l’inesigibilità, indipendentemente dal punto se abbia ingresso nella struttura dell’illecito civile, in ogni caso non potrebbe operare che nell’ambito dell’elemento soggettivo, come avviene nella struttura dell’illecito penale (ove peraltro la figura e controversa e non riconosciuta dalla giurisprudenza), con la conseguenza che essa sarebbe irrilevante in ipotesi di responsabilità oggettiva.
Qui il problema si pone solo in relazione al comportamento colposo o meno del danneggiato, il quale è connotato dagl’affidamento, secondo criteri oggettivi e non soggettivi, che egli ripone nel ritenere esigibile da parte della p.a. custode, una determinata condotta di custodia in relazione ad un determinato bene.
In questi termini il colpevole comportamento del danneggiato modula la corretta applicazione del principio della causalità adeguata ai fini del nesso causale, o escludendolo o dando un apporto concorrente.
In applicazione di tale principio, la diligenza che è richiesta al danneggiato nell’uso del bene demaniale, costituito nella specie da strada, sarà diversa a seconda che si tratti di una strada campestre o del corso principale della città, pur facendo capo entrambe allo stesso demanio stradale dello stesso Comune, proprio perchè il danneggiato fa affidamento su una diversa attività di controllo- custodia (che quindi ritiene esigibile) in relazione ai due tipi di strada dello stesso demanio.
7.6. Così inquadrato sotto il profilo eziologico (ex art. 1227 c.c., comma 1) il comportamento colposo del danneggiato-utente del bene demaniale (nella fattispecie: stradale), va osservato che esso non concreta un’eccezione in senso proprio, ma una semplice difesa, che deve essere esaminata anche d’ufficio dal giudice, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza dell’incidenza causale dell’accertata negligenza nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste della parte, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto su cui si fonda il comportamento colposo del danneggiato (Cass. 2.4.2001, n. 4799; Cass. 9.10.2000, n. 13403; Cass. 3.12.1999, n. 13460).
Ciò vale sia nel caso di azione proposta ex art. 2051 c.c. che ex art. 2043 c.c..
8.1. sulla base di quanto sopra esposto vanno affermati i seguenti principi di diritto:
“La responsabilità ex art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia, anche nell’ipotesi di beni demaniali in effettiva custodia della p.a., ha carattere oggettivo e, perchè tale responsabilità possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, per cui tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa (che ne è fonte immediata) ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiante”.
8.2. “La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia, di cui all’art. 2051 c.c., non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali (nella fattispecie: del demanio stradale) ogni qual volta sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sulla stessa. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta dello stesso da parte di terzi, sono solo figure sintomatiche dell’impossibilità della custodia da parte della p.a. mentre elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune, pur dovendo dette circostanze, proprio perchè solo sintomatiche, essere sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito”.
8.3. “Ove non sia applicabile la disciplina della responsabilità ex art. 2051 c.c., per l’impossibilità in concreto dell’effettiva custodia del bene demaniale, l’ente pubblico risponde dei danni da detti beni, subiti dall’utente, secondo la regola generale dettata dall’art. 2043 c.c., che non prevede alcuna limitazione della responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto. In questo caso graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale (e segnatamente della strada), fatto di per sè idoneo – in linea di principio -a configurare il comportamento colposo della P.A. sulla quale ricade l’onere della prova dei fatti impeditivi (della propria responsabilità, quali – nella teorica dell’insidia o trabocchetto – la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia.”.
8.4. “Tanto in ipotesi di responsabilità oggettiva della P.A. ex art. 2051 c.c., quanto in ipotesi di responsabilità della stessa ex art. 2043 c.c., il comportamento colposo del soggetto danneggiato nell’uso di bene demaniale (che sussiste anche quando egli abbia usato il bene demaniale senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) esclude la responsabilità della p.a., se tale comportamento è idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso, integrando, altrimenti, un concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227 c.c. comma 1, con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante in proporzione all’incidenza causale del comportamento del danneggiato”.
9. Nella fattispecie, quindi, è errata in diritto l’impugnata sentenza per avere escluso già in astratto che il Comune di Ancona potesse essere responsabile ex art. 2051 c.c., quale custode della strada in questione, senza valutare se in concreto fosse possibile esercitare il controllo e la vigilanza sul demanio stradale di quella città, vagliando anche le figure sintomatiche suddette (punto 8.2).
10.1. Quanto al punto secondo cui in ogni caso la custodia faceva capo all’Azienda di manutenzione servizi e non al Comune, per essere stati alla prima affidati i lavori di manutenzione, va osservato che è stato già precisato, in via generale, che, nel caso in cui non vi sia stato il totale trasferimento a terzi del potere di fatto sull’opera, per l’ente proprietario, che sull’opera debba continuare ad esercitare la opportuna vigilanza ed i necessari controlli, non viene meno il dovere di custodia e, quindi, nemmeno la correlativa responsabilità ex art. 2051 c.c., da cui si può liberare solo dando la prova del fortuito (Cass., n. 5007/96; Cass., n. 5539/97).
E’ stato in particolare affermato da questa Corte che, con riguardo a lavori stradali eseguiti in appalto su concessione dell’Anas, che abbiano comportato insidia o trabocchetto causativi di sinistro, per mancanza di cartelli di segnalazione e conseguente invisibilità della esatta ubicazione del pericolo, è configurabile la concorrente responsabilità tanto dell’appaltatore – in relazione al suo obbligo di custodire il cantiere, di apporre e mantenere efficiente la segnaletica, nonchè di adottare tutte le cautele prescritte dall’art. 8 Codice Stradale e relativo regolamento – quanto dell’Anas, in relazione al suo dovere di vigilare sull’esecuzione delle opere date in concessione, ed altresì di emettere i provvedimenti necessari per la sicurezza del traffico (Cass. 25/09/1998, n. 9599; Cass. 25/09/1990, n. 9702).
10.2. Ne consegue che, se l’area di cantiere è stata completamente enucleata, delimitata ed affidata all’esclusiva custodia dell’appaltatore, con assoluto divieto del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all’interno di questa area non potrà che risponderne esclusivamente l’appaltatore, quale unico custode della stessa.
Se, invece, l’area su cui vengono realizzati i lavori è ancora contestualmente adibita a tale traffico, ciò denota che l’ente titolare della strada ne ha conservato la custodia, sia pure insieme all’appaltatore, utilizzando la strada ai fini della circolazione.
Nè potrebbe ritenersi in questo caso che l’estensione del bene demaniale nel suo complesso escluda la possibilità della custodia da parte dell’Ente. Qui infatti ciò che viene in rilievo è esclusivamente l’area adibita promiscuamente ai lavori ed alla circolazione, per cui essa è necessariamente di ridotte dimensioni.
Inoltre se per tale area si ritiene possibile la custodia da parte dell’appaltatore, non si vede la ragione per cui non sia possibile la custodia anche da parte dell’Ente titolare della strada, che ne ha conservato il potere di fatto ai fini della circolazione degli utenti.
10.3. ciò comporta che la responsabilità per danni subiti dall’utente a causa dei lavori in corso su detta strada graverà su entrambi detti soggetti, salvo poi l’eventuale azione di regresso dell’ente proprietario della strada nei confronti dell’appaltatore dei lavori a norma dei comuni principi in tema di responsabilitàsolidale ( art. 2055 c.c., comma 2), tenuto anche conto della violazione degli obblighi di segnalazione e manutenzione imposti dalla legge per opere, depositi e cantieri stradali (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 21) nonchè di quelli assunti dall’appaltatore della manutenzione della strada nei confronti dell’ente proprietario, in base a specifica convenzione.
10.4. Nè può ritenersi, come assume la sentenza impugnata, che “il fatto del soggetto assuntore dei lavori” (id est: dei suoi dipendenti) costituisca un’ipotesi del “fatto del terzo”, integrante caso fortuito e quindi idoneo ad interrompere il nesso causale tra la custodia ed il danno ingiusto.
Ciò potrebbe essere esatto (sia pure in presenza anche di altri elementi) se l’Ente, titolare della strada, fosse il solo custode della stessa, ma nella situazione in cui si sia ritenuto che detta custodia è congiunta nell’area del sinistro, il soggetto preposto ai lavori, in rapporto al fatto di custodia, non è più un terzo, ma è solo un custode congiunto. Poichè in questa ipotesi la responsabilità è oggettiva (e quindi prescinde dalla imputabilità per comportamento almeno colposo) e si fonda sulla sola relazione di fatto con la cosa, entrambi i soggetti rispondono solidalmente del danno ingiusto a norma dell’art. 2051 c.c..
11. L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento del secondo motivo, relativo alla condanna delle spese processuali.
Pertanto va cassata l’impugnata sentenza, con rinvio, anche per le spese del giudizio di Cassazione ad altra sezione del tribunale di Ancona che si uniformerà ai principi di diritto, esposti al punto 8.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di Cassazione ad altra sezione del tribunale di Ancona.
Così deciso in Roma, il 8 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2006