Su trading e banche meno oneri
Erano state osteggiate. Avevano creato malumori. Ma ora sembra che le tanto temute tasse sulle negoziazioni finanziarie e sul trading delle banche vengano ampiamente ridimensionate. La bozza della manovra prevedeva fino a ieri pomeriggio che l’attività di trading delle banche fosse d’ora in avanti tassata al 35%, ma in serata la nuova bozza non lo prevedeva più: nella manovra del Governo viene ora ipotizzata un’imposta addizionale sul trading finanziario (forse del 7%). Stesso discorso sulla nuova imposta dell’1,5 per mille che era prevista sulle compravendite di azioni e bond (titoli di Stato esclusi): l’intero capitolo ieri sera risultava sparito dalla manovra. Al suo posto ci sarebbe semplicemente un aumento dell’imposta di bollo già ora applicata al deposito titoli.
Il trading bancario
La bozza di manovra fino a ieri pomeriggio prevedeva che l’attività di negoziazione delle banche (la compravendita per proprio conto e non per i clienti) avesse una «tassazione separata» del 35%. Questo significava che le banche avrebbero dovuto prendere gli utili derivanti dal trading su azioni e derivati (la nuova tassa escludeva le obbligazioni e le quote di fondi comuni) e su questi applicare un’imposta del 35%. Il che rappresentava un aggravio per gli istituti di credito, dato che attualmente la tassazione sugli utili da trading (tutti) è più bassa: pari al 27,5% più 4,2% di Irap, cioè al 31,7 per cento.
Ma questa imposta «separata» è sparita dalla manovra. Al suo posto è ipotizzata un’addizionale del 7% sul trading finanziario delle banche. Si tratta di un’aliquota che si applica non sull’intero imponibile, ma sull’ammontare dell’imposta da pagare: alle tasse già pagate sugli utili da trading, insomma, viene sommata un’imposta aggiuntiva. Una cosa è però certa: comunque si giri la frittata, questa novità porterà pochi spiccioli nelle casse dello Stato. Le banche italiane, al contrario di tante all’estero, realizzano infatti pochi utili da trading. E quei pochi li realizzano soprattutto sui titoli di Stato che – comunque vada – vengono esentati dalla nuova imposizione.
Per capire gli ordini di grandezza basta guardare i dati di bilancio. Nel 2010 solo UniCredit – calcola Rbs – ha realizzato utili da trading (escludendo obbligazioni e fondi) per 390 milioni di euro. Il 2009 era stato più munifico, dato che UniCredit aveva realizzato (escludendo bond e fondi) utili da trading per 1,8 miliardi, Mps per 47 milioni, Mediobanca per 115, Banco Popolare per 11 e Ubi per 137.
Imposte sulle negoziazioni
L’altra tassa, saltata nell’ultima versione, era quella sulle transazioni finanziarie. Tutte le compravendite di azioni, derivati, obbligazioni – anche da parte di risparmiatori – avrebbero avuto nella bozza precedente un’imposizione dell’1,5 per mille. Anche in questo caso venivano esentate le compravendite sui titoli di Stato, che avrebbero penalizzato il Tesoro stesso. Se questa norma fosse passata, il gettito sarebbe stato ben più rilevante rispetto a quello derivante dalla tassa sul trading bancario. Secondo i dati di Assosim, nel 2010 solo sui mercati gestiti da Borsa Italiana e Tlx le transazioni finanziarie hanno raggiunto un controvalore di 2.423 miliardi di euro. Ebbene: applicando l’1,5 per mille a questa montagna di compravendite di titoli, nelle casse dello Stato sarebbero entrati qualcosa come 3,6 miliardi di euro.
Ieri sera questa norma sembrava però saltata. Al suo posto la manovra prevederebbe – il condizionale è d’obbligo – un semplice aumento dell’imposta di bollo applicata già oggi al deposito titoli. Attualmente le banche pagano, per ogni conto titoli dei clienti, 32 euro l’anno. Le Sim versano invece 20 euro per ogni contratto di deposito e 1,8 euro per ogni comunicazione che la Sim fa con i clienti. Ancora non si sa di quanto verranno aumentate queste imposte. Ma è evidente che, rispetto all’ipotesi iniziale, si tratta di un deciso ridimensionamento dell’aggravio. Esultano Sim, banche e broker.