Sul diniego di reintegrazione in servizio presso la Polizia di Stato
l’appartenente al ruolo dell’Amministrazione della pubblica sicurezza
sia colto da ordine o mandato di cattura o si trovi, comunque, in stato
di carcerazione preventiva, deve essere sospeso dal servizio. In caso
di concessione di libertà provvisoria ovvero di revoca dell’ordine o
mandato di cattura o dell’ordine di arresto ovvero di scarcerazione per
decorrenza dei termini, la disposizione di cui all’art. 9, comma III del
D.P.R. n. 737/1981 deve essere interpretata nel senso di attribuire
alla p.a. massima discrezionalità rispetto alla reintegrazione o meno
in servizio del dipendente che, nell’esercitarla, deve avere riguardo
alla estrema gravità (non soltanto edittale) dei reati commessi dallo
stesso.
Questo è quanto statuito dal Consiglio di Stato
chiamati a pronunciarsi sulla più ortodossa interpretazione da
conferire alla disposizione di cui all’art. 9 comma III del D.P.R. n.
737/1981.
I Giudici Amministrativi si è trovato ad esaminare il
caso in cui un dipendente dell’Amministrazione della pubblica sicurezza
è stato destinatario di ordinanza custodiale per i reati di cui agli
artt. 609 e 479 c.p. ed aveva ottenuto, successivamente, ex
art. 311 c.p.p. dalla Corte di Cassazione, l’annullamento del titolo
coercitivo cautelare a cagione della riscontrata carenza sia del quadro
indiziario ex art. 273 c.p.p., che di quello relativo alle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p..
Con
ricorso indirizzato al Tar del Lazio – Sede di Roma-, il dipendente,
chiedeva l’annullamento del diniego di reintegrazione in servizio
presso la Polizia di Stato e degli atti connessi. Quest’ultimo veniva
accolto dai giudici di primo grado sulla base del fatto che, poiché la
Cassazione aveva annullato il provvedimento restrittivo, quest’ultimo
era venuto meno ex tunc pertanto la riammissione in servizio si
appalesava obbligatoria, così introducendo una distinzione tra (mera)
revoca del provvedimento custodiale (che lasciava integra la facoltà
dell’amministrazione di non procedere alla reintegrazione), ed
annullamento del medesimo (a fronte del quale la riammissione in
servizio si appalesava quale atto dovuto).
Tale tesi è risultata non condivisibile da parte del Consiglio di Stato, il quale critica l’iter
logico – argomentativo del Tribunale amministrativo regionale partendo
proprio dal dato normativo ed, in particolare, dalle prescrizioni
contenuta nei commi I – III dell’art. 9 del D.P.R. n. 737/1981 i quali
testualmente recitano: “l’appartenente ai ruoli
dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, colto da ordine o
mandato di cattura o che si trovi, comunque, in stato di carcerazione
preventiva, deve essere sospeso dal servizio con provvedimento del capo
dell’ufficio dal quale gerarchicamente dipende, che deve, altresì,
riferire immediatamente alla direzione centrale del personale presso il
dipartimento della pubblica sicurezza.
Fuori dai casi
previsti nel comma precedente, l’appartenente ai ruoli
dell’Amministrazione della pubblica sicurezza sottoposto a procedimento
penale, quando la natura del reato sia particolarmente grave, può
essere sospeso dal servizio con provvedimento del Ministro su rapporto
motivato del capo dell’ufficio dal quale dipende.
In caso
di concessione di libertà provvisoria ovvero di revoca dell’ordine o
mandato di cattura o dell’ordine di arresto ovvero di scarcerazione per
decorrenza dei termini, ove le circostanze lo consiglino, la
sospensione cautelare può essere revocata con effetto dal giorno
successivo a quello in cui il dipendente ha riacquistato la libertà e
con riserva di riesame del caso quando sul procedimento penale si è
formato il giudicato”.
In siffatta indagine al Consiglio preme sottolineare che “il
terzo comma della disposizione de qua si è costantemente interpretato
nel senso attributivo all’amministrazione dell’Interno della facoltà e
non già dell’obbligo di revocare la misura cautelare” (Consiglio Stato , sez. VI, 11 marzo 2008, n. 1047).
Chiarito
ciò, i Giudici amministrativi pervengono all’esame dettagliata della
tesi sostenuta dai giudici di primo grado, che si basa sulla
distinzione processualpenalistica dicotomica dei provvedimenti
demolitori dei titoli cautelari, sostenendo che essa non può trovare
cittadinanza, nel nostro ordinamento, per due ordini di ragioni.
In primis
è da sottolineare che, la distinzione sopra enunciata, risale ad epoca
successiva al 24.11.1989, (data di entrata in vigore del nuovo codice
di rito), mentre l’emanazione del D.P.R. n. 737/1981 e,
conseguentemente della disposizione in esso contenuta, preesisteva ad
essa e, quindi, non poteva avervi fatto riferimento. Pertanto è più che
evidente che, il termine “revoca” presente ne testo normativo di cui
sopra, è utilizzato in senso atecnico, poichè esso fa riferimento ad
ogni ipotesi in cui si verifichi il venir meno del titolo custodiale in
quanto, come già detto, il Decreto Presidenziale citato faceva
riferimento al codice di rito vigente al tempo in cui esso fu emanato.
In secundis tale differenza non è neanche presente nell’attuale codice di procedura penale.
Ciò è evidente laddove si analizzino disposizioni quali l’art. 299 c.p.p., al comma I, (“le
misure coercitive e interdittive sono immediatamente revocate quando
risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di
applicabilità previste dall’articolo 273 o dalle disposizioni relative
alle singole misure ovvero le esigenze cautelari previste dall’articolo
274”) che, nel fare riferimento “anche” a fatti sopravvenuti, e nel
riferire tale proposizione al dato gravemente indiziante di cui
all’art. 273 c.p.p., rende palese che alla “revoca” si addivenga pur
laddove i gravi indizi non sussistessero al momento dell’adozione del
titolo. Od il comma IX dell’art. 309 c.p.p., nel fare riferimento alla
statuizione annullatoria del Tribunale del riesame anche fondata su
elementi sopravvenuti, comprova l’atecnicità dell’utilizzo codicistico
dei termini “revoca” ed “annullamento”.
Qualche argomento in
favore della tesi sostenuta dal T.a.r., poteva in via sistematica (ed a
posteriori) ricavarsi dal disposto di cui all’art. 405 comma 1 bis
c.p.p. (comma, quest’ultimo, inserito dall’articolo 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 46).
Tale disposizione così recita: “il
pubblico ministero, al termine delle indagini, formula richiesta di
archiviazione quando la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine
alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’
articolo 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori
elementi a carico della persona sottoposta alle indagini”.
Il Consiglio osserva che “con
tale norma il Legislatore ha attribuito una portata espansiva
orizzontale alla statuizione della Corte di Cassazione (e soltanto di
essa, con esclusione delle statuizioni demolitorie del Tribunale del
riesame rese ex art. 309 c.p.p.), travalicante la fase incidentale
cautelare ed idonea a incidere in senso impeditivo sull’esercizio
dell’azione penale del PM. Arduo apparirebbe sostenere che, a fronte di
un sistema processualpenalistico ove la decisione demolitoria del
Supremo Collegio che abbia escluso la sussistenza ab origine del quadro
gravemente indiziante (e fatte salve le sopravvenienze in sfavor)
addirittura condizioni negativamente l’esercizio dell’azione penale da
parte del Pubblico Ministero, imponendo a questi la formulazione della
richiesta di archiviazione del procedimento, permanesse in capo
all’amministrazione un potere valutativo in ordine al mantenimento
della sospensione dal servizio del dipendente”.
Senonchè la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 121 del 2009
ha espunto dal sistema tale ultima disposizione, proprio censurando la
“vis espansiva” attribuita dal Legislatore all’incidente cautelare,
pervenendo all’affermazione secondo cui “è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1 bis, c.p.p., aggiunto dall’art. 3, l. n. 46/2006,
in riferimento agli art. 3 e 112 cost. Tale norma riconosce a
determinate pronunce, emesse in sede cautelare, un’efficacia preclusiva
sul procedimento principale. Più in particolare, la norma attribuisce a
talune ipotesi “qualificate” di c.d. giudicato cautelare una valenza
condizionante, che viene a incidere sulla possibilità di apertura del
processo, inibendo l’atto di esercizio dell’azione penale. La regola
dettata dall’art. 405, comma 1 bis, c.p.p. si presenta, irragionevole
per un triplice ordine di profili.Il primo e fondamentale di essi
risiede nella diversità tra le regole di giudizio che presiedono alla
cognizione cautelare e quelle che legittimano l’esercizio dell’azione
penale. Sotto un secondo profilo, la norma censurata si rivela
incongruente in quanto trascura la diversità della base probatoria
delle due valutazioni a confronto. In terzo luogo, infine, va osservato
che la Corte di cassazione, quando si pronuncia in materia cautelare,
non accerta in modo diretto la mancanza del “fumus commissi delicti””.
I giudici amministrativi affermano che tale tesi, tutt’al più, “poteva
essere avallata nella parte in cui impone all’amministrazione di
vagliare i provvedimenti annullatori dei titoli custodiali, ed eserciti
la propria facoltà di cui al comma III dell’art. 9 citato tenendo conto
della motivazione del provvedimento demolitorio; certamente, laddove il
titolo sia stato annullato per carenza dell’elemento gravemente
indiziante, si impone a carico dell’amministrazione un più penetrante
onere motivazionale, laddove la stessa ritenga di non giovarsi della
facoltà di revoca del provvedimento sospensivo”.
Alla
stregua delle sopra esposte argomentazioni il Consiglio di Stato, a
conclusione del proprio percorso logico-argomentativo, ritiene non
condivisibile, secondo le disposizioni vigenti al tempo in cui fu
adottata, la tesi sostenuta dal T.a.r. Lazio. Attribuendo inoltre
all’amministrazione, nei casi in cui il dipendente si sia trovato prima
in uno dei casi previsti dal comma I dell’art. 9 del D.P.R. n. 737/1981
ed in seguito in quelli di cui al terzo comma della stessa
disposizione, la discrezionalità necessaria nella determinazione della
reintegrazione o meno del dipendente nel posto di lavoro, asserendo che
la stessa deve avere riguardo alla estrema gravità ( non soltanto
edittale) dei reati ascritti al dipendente.