Sul termine di prescrizione e di decadenza nella legge Pinto Cassazione civile , sez. I, sentenza 24.02.2010 n° 4524
La pronuncia 24 febbraio 2010, n. 4524 della Cassazione afferma
l’applicazione del termine decennale di prescrizione al fine di far
valere il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto
del termine ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89,
senza, tuttavia specificare che tale termine non decorre prima della
scadenza del termine decadenziale previsto dal medesimo art. 4 per la
proposizione della domanda.
Una visione sistematica della giurisprudenza della Cassazione consente di ritenere isolata tale pronuncia
“Il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, è soggetto all’ordinaria prescrizione decennale, e non a quella breve dettata dall’art. 2947 c.c. per il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito”.
In senso contrario: Cass. 26 febbraio 2010, n. 4760; Cass. 24 febbraio 2010, n. 4526; Cass., 22 febbraio 2010, n. 4091.
Termine di prescrizione e di decadenza nella legge Pinto
La
sentenza in rassegna potrebbe ingenerare confusione in ordine alla
applicazione del termine di prescrizione ai fini della azionabilità del
ricorso in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del
processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, in quanto,dopo avere ribadito il carattere indennitario e non risarcitorio della relaztiva azione non
richiedendo l’accertamento di un illecito secondo la nozione
contemplata dall’art. 2043 cod. civ., e non presupponendo la verifica
dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente, ne afferma l’assoggettabilità all’ordinaria
prescrizione decennale, e non a quella breve dettata dall’art. 2947
c.c. per il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito.
Il
diritto all’indennità di che trattasi non è, infatti, soggetto alla
prescrizione breve di cui all’art. 2947 c.c., non essendo riconducibile
a quello avente ad oggetto il risarcimento del danno da fatto illecito,
né essendo assimilabile ad alcuna delle categorie per le quali l’art.
2948 dello stesso codice contempla pur sempre una prescrizione
quinquennale.
Ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89
il diritto ad un’equa non richiede infatti l’accertamento di un
illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c. né
presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di
un agente; esso è invece ancorato all’accertamento della violazione
dell’art. 6, par. 1, della convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento ex se lesivo
del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una
durata ragionevole.
Secondo la Corte,l’accertamento della
violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
costituisce un evento “ex se” lesivo del diritto della persona alla
definizione del suo procedimento in una durata ragionevole,
configurandosi l’obbligazione, avente ad oggetto l’equa riparazione,
non già come obbligazione “ex delicto”, ma come obbligazione “ex lege”,
riconducibile, in base all’art. 1173 cod. civ., ad ogni altro atto o
fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità
dell’ordinamento giuridico.
Ad una prima lettura la sentenza
potrebbe ingenerare la falsa convinzione che sia applicabile, in
termini generali, alla legge Pinto l’ordinario termine di prescrizione
decennale, ritenendo estinto il diritto all’indennizzo per il danno
riferibile al segmento temporale collocato oltre dieci anni prima della
notifica del ricorso introduttivo, con conseguente irrisarcibilità,
oltre il decimo anno a ritroso, del termine di durata ragionevole, sia
pure successivo al termine di durata ragionevole del ricorso, avendo la
Corte nella medesima pronuncia, ribadito l’orientamento consolidato
della Suprema Corte che evidenzia che mentre per la CEDU l’importo per
ciascun anno di ritardo va moltiplicato per ogni anno di durata del
procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale
è, sul punto, vincolante il terzo comma, lettera a), dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, ribadendo che detta diversità di calcolo, peraltro, non tocca la complessiva attitudine della citata legge n. 89 del 2001
ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del
diritto alla ragionevole durata del processo, e, dunque, non autorizza
dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali
assunti dalla Repubblica italiana.
Potrebbe ulteriormente
rafforzare tale convinzione la circostanza che la Corte abbia
condannato l’Amministrazione al pagamento dell’equa riparazione
liquidata, per dieci anni di eccessiva durata del processo presupposto
oltre il termine ragionevole.
Anche un orientamento della
giurisprudenza di merito ritiene applicabile all’equa riparazione -in
mancanza di diversa specifica previsione derogatrice il generale
principio secondo cui, ex art. 2934, 1° comma, c.c., “ogni diritto si
estingue per prescrizione ” e, quindi, il diritto del ricorrente deve
ritenersi soggetto a tale causa estintiva, qualora trascorrano più di
dieci anni senza che il cittadino avanzi alcuna pretesa al riguardo.[1]
Si
è rilevare che il termine decennale prescrizionale è indicato in via
generale dall’art. 2946 c.c.. e non vi sono ragioni valide che possano
giustificare alcuna deroga al principio generale della prescrizione del
diritto per il decorso del tempo.
A favore di tale orientamento si è sostenuto da una parte della giurisprudenza di merito che non
si vede anzitutto per qual ragione il diritto all’equa riparazione
possa ritenersi inesigibile prima della valutazione giudiziale
(definirlo “inesigibile prima della proposizione della domanda” appare
poi quasi un ossimoro).
Vero è che si tratta di credito
illiquido -richiedendosi una valutazione in termini pecuniari del danno
e, dunque, una sua liquidazione- ma ciò non significa certo che il
danno non preesista alla liquidazione e con esso il diritto all’equa
riparazione, né che questo non sia esigibile.
L’esigibilità
corrisponde, per comune insegnamento, alla possibilità di far valere
giudizialmente il diritto attraverso una domanda di condanna attuale al
pagamento (cfr. Cass. 20 maggio 1969, n. 1769; 13 settembre 1974, n.
2489), la quale certamente sussiste per il diritto all’equa riparazione
e, ovviamente, preesiste alla liquidazione del danno.
Quanto
poi alla illiquidità del credito, essa non ha mai costituito ostacolo
al decorso della prescrizione : basti considerare che, diversamente
opinando, dovrebbe ritenersi imprescrittibile il diritto al
risarcimento del danno, quale che ne sia il fatto generatore e il
fondamento giuridico, essendo anch’esso ancora illiquido al momento
della proposizione della relativa domanda giudiziale (il che
evidentemente non può sostenersi).
è vero piuttosto che,
per pacifico insegnamento, applicabile -mutatis mutandis- anche alla
fattispecie in esame, la prescrizione del diritto al risarcimento del
danno comincia a decorrere dal momento in cui il danno stesso si è
verificato e non da quello, eventualmente diverso, in cui è stato posto
in essere l’atto illecito (v. Cass., sez. un., 6 ottobre 1975, n. 3161;
Cass. 15 marzo 1989, n. 1306; 8 febbraio 1990, n. 875; 10 giugno 1999,
n. 5701; 12 gennaio 2000, n. 246).[2]
Non
può sfuggire all’interprete, tuttavia, che la Corte, nella fattispecie
in rassegna, ha avuto cura di specificare che la questione della
prescrizione del diritto all’equa riparazione del danno derivato
dall’irragionevole durata del processo è stata esaminata nei limiti
posti dal ricorso, nel quale la censura mossa all’impugnata sentenza
verte esclusivamente sulla durata del termine.
La Corte,
tuttavia, ben avrebbe potuto specificare, anziché specificare la sola
durata del termine di prescrizione,anche, ribadire il “dies a quo” di
decorrenza di detto termine, in quanto, anche se vi è la facoltà di
agire per l’indennizzo in pendenza del processo presupposto, tuttavia
non è consentito di far decorrere il relativo termine di prescrizione
prima della scadenza del termine decadenziale previsto dal medesimo
art. 4 per la proposizione della domanda, in tal senso deponendo, oltre
all’incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se riferite al
medesimo atto da compiere la difficoltà pratica di accertare la data di
maturazione del diritto, avuto riguardo alla variabilità della
ragionevole durata del processo in rapporto ai criteri previsti per la
sua determinazione, nonché il frazionamento della pretesa indennitaria
e la proliferazione di iniziative processuali che l’operatività della
prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, in caso di
ritardo ultradecennale nella definizione del processo.[3]
Il
presupposto – si ritiene non corretto – da cui muovere per invocare la
decorrenza del termine di prescrizione anche durante la vigenza del
processo presupposto muove dalla considerazione che la L. n. 89 del 2001
ha mera natura processuale, e quindi non innovativa della disciplina
sostanziale in tema di cause di estinzione del diritto per inerzia del
titolare: inerzia, rilevante ai fini prescrittivi, dal momento stesso
in cui si manifesta la violazione del termine ragionevole del processo
presupposto, e dunque, anche prima della sua definizione, cui verrebbe
ad essere correlato il dies a quo del periodo di prescrizione , coevo
al primo verificarsi del ritardo processuale, in base al principio
generale di cui all’art. 2935 cod. civ..[4]
La
prescrizione decennale, ben potrebbe cominciare a decorrere anche
durante la pendenza del processo dal momento in cui è stato superato il
termine ragionevole di durata prospettabile.[5]
La giurisprudenza di legittimità ha, al riguardo, rilevato come l’art. 4, L. 24 marzo 2001, n. 89
si pone come norma speciale ed autosufficiente sia per la sua
collocazione toponomastica, ma sia per la sua rubrica “Termini e
condizioni di proponibilità”, di portata letterale onnicomprensiva nel
delineare i tempi dell’edictio actionis.
Va, anzitutto
rilevato come il dato letterale non offre elementi per il recupero, in
forma di richiamo esplicito, della disciplina propria della
prescrizione da escludersi anche in forza di richiami sistematici.[6]
Non
si ritiene possibile che il diritto all’equa riparazione possa
estinguersi, in tutto o in parte prima del decorso del termine
decadenziale di sei mesi per la proposizione della domanda , decorrente
dal momento in cui è divenuta esecutiva la decisione, che conclude il
procedimento, con l’unico limite del termine iniziale rilevante ai fini
del calcolo della durata ragionevole del processo decorre dal 1
agosto 1973. data a partire dalla quale è riconosciuta la facoltà del
ricorso individuale prima alla Commissione e poi alla Corte europea dei
diritti dell’uomo, [7]
Infatti
la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e
delle libertà fondamentali, prevede che la presentazione del ricorso
individuale sia condizionata al riconoscimento delle competenze in
materia da parte dell’Alta parte contraente chiamata in causa e tale
dichiarazione è stata resa il 31 luglio 1973 e, quindi solo i fatti
successivi a tale data possono essere contestati allo Stato Italiano.[8]
Non
avrebbe avuto, infatti, senso fare tale specificazione ove fosse
applicabile, a ritroso, il termine decennale di prescrizione che non
avrebbe potuto, comunque, comportare l’indennizzo per fatti anteriori
di oltre dieci anni all’entrata in vigore della legge.
È,
invece, possibile applicazione del due istituti temporalmente sfalsata:
ma solo nel senso che la prescrizione maturi una volta impedita la
decadenza, e non viceversa (art. 2967 cod. civ.). in quanto la
proponibilità dell’azione entro un termine di decadenza esclude la
maturazione della prescrizione prima del prescritto dies ad quem.[9]
Tuttavia
, con riferimento alla legge Pinto, la questione della prescrizione non
ha, sotto il profilo pratico, alcuna possibilità di essere invocata.
Ai sensi dell’art.4 della legge 89 del 2001
la domanda di equa riparazione deve essere proposta a pena di decadenza
entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il
procedimento è divenuta definitiva.
Prima del decorso del
termine semestrale di cui all’art. 4 il termine di prescrizione non
inizia ancora a decorrere e , dopo il decorso del semestre di cui
all’art. 4, l. cit., opererà la decadenza, senza che, in concreto,
possa mai farsi valere la prescrizione decennale, quindi il termine di
” prescrizione “, non deve ritenersi avente rilevanza “processuale”,
non incidendo sulla proposizione dell’azione o comunque sul diritto di
agire in giudizio, essendo , al riguardo, previsto un termine di
decadenza.
Ritenere diversamente significherebbe onerare la
parte interessata dal proporre la domanda entro il termine decennale di
irragionevole ritardo,anche se il processo non è ancora concluso con un
moltiplicarsi dei ricorsi.
Si ritiene di condividere tale
orientamento in quanto, comunque, il termine di prescrizione non
potrebbe cominciare a decorrere se non dal momento della cessazione del
processo della cui irragionevole durata si tratta e, dunque, del
passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce, trattandosi di
condotta, anche se non illecita, comunque connotata da illegittimità ,
comunque, “permanente” il cui conseguente pregiudizio persiste nel
tempo fin quando la relativa condotta non è cessata.
Si è anche ritenuto,al riguardo che il diritto all’equo indennizzo … pur sussistendo anche a prescindere dal suo riconoscimento con la L. 89/01,
non matura affatto giorno per giorno, ma va verificato in relazione al
concreto andamento del singolo processo in rapporto alle
caratteristiche di ogni fattispecie: sicché esso non è né liquido, né
esigibile prima della valutazione giudiziale e prima della proposizione
della domanda o, se anteriore, della cessazione del processo medesimo.[10] Altro orientamento, ritiene che la fattispecie integrerebbe un illecito
permanente il cui conseguente danno persiste nel tempo fin quando la
relativa condotta non è cessata e ciò si verifica solo con il passaggio
in giudicato della sentenza resa nel procedimento nel cui ambito assume
essersi verificata la violazione.[11]
La stessa Suprema Corte ha rilevato come appare
visibilmente contrario alla ratio legis imporre l’onere di un’azione
immediata, al primo maturarsi del ritardo irragionevole. Innanzitutto,
per la difficoltà pratica di accertarne subito la datazione, tenuto
conto che i termini ordinari (tre anni per il primo grado, due per
l’appello, uno per il ricorso per cassazione, secondo i consolidati
parametri giurisprudenziali) possono subire variazioni in rapporto alla
specifica materia del contendere, alla complessità del caso o al
comportamento delle parti: variabili tutte, meno agevolmente valutabili
in uno stadio interinale, fuori di una visione d’insieme ex post. Per
di più, l’incipiente ritardo potrebbe financo essere riassorbito, in
prosieguo, per la necessità sopravvenuta di un ulteriore attività
istruttoria che muti la valutazione in fieri, rendendo non più lesivo
del principio di ragionevole durata l’effettivo iter processuale.[12]
Inoltre
si determinerebbe un aggravio di lavoro per le Corti di Appello che si
sta tentando di arginare con una diversa ripartizione della competenza
territoriale in quanto il giudizio va instaurato di fronte alla Corte
d’Appello del distretto competente ex art. 11. c.p.p., rispetto al
quale è iniziata la causa di merito “durata troppo a lungo”., favorendo
la diffusione del contenzioso sull’intero sistema delle corti di
appello, anzichè una sua elevata concentrazione su quella di Roma.[13]
Occorre,
quindi, individuare la sede del giudice di merito distribuito sul
territorio, sia esso ordinario o speciale, davanti al quale il giudizio
è iniziato; ed al luogo così individuato si attribuisce la funzione di
attivare il criterio di collegamento della competenza e di
individuazione del giudice competente sulla domanda di equa
riparazione, che è stabilito dall’art. 11 c.p.p., ed è richiamato
nell’art. 3, comma 1, della legge.
È, pertanto, superata la
precedente competenza territoriale che stabiliva che con riferimento a
procedimenti svoltisi dinanzi a giudici diversi da quello ordinario e
quindi non articolati su base distrettuale non valeva lo spostamento di
competenza ex art. 11 c.p.p., estendendo tale principio anche ai
ricorsi relativi a giudizi svoltisi dinanzi alla Corte di Cassazione,
in quanto avente competenza nazionale.[14]
Oggi
la competenza territoriale si radica dinanzi alla Corte di Appello del
distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’articolo
11 del codice di procedura penale, con riferimento al Tribunale o
organo giurisdizionale davanti al quale è iniziato il giudizio e non
più dove si è concluso.
È anche superato l’orientamento che ,ai
sensi dell’art. 20 cod. proc. civ., riteneva competente a giudicare, a
discrezione dell’attore, la Corte d’appello del luogo in cui è sorta o
dev’essere eseguita l’obbligazione, e quindi la Corte d’appello di
Roma, nel cui distretto ha sede la Corte di Cassazione, ovvero quella
nel cui distretto è posta la residenza dell’attore, ed ha sede la
tesoreria provinciale dello Stato, deputata al pagamento di quanto sarà
ritenuto dovuto dal giudice competente.[15]
E’
vero – osserva la S.C. – che nel consentire la possibilità di agire
prima che sia sopravvenuta la decisione definitiva nel giudizio
presupposto l’ordinamento italiano, ha ampliato il diritto di
azione del soggetto leso dal ritardo irragionevole – anticipandone il
possibile esercizio ad una fase intermedia del processo presupposto – e
non certo aggravato l’obbligo di diligenza: come rivelato
dall’inequivoca congiunzione disgiuntiva “ovvero” contenuta nell’art. 4
cit., lessicalmente sintomatica di una scelta potestativa tra due
opzioni, senza reciproco condizionamento.[16]
Tale
ricostruzione sistematica è stata ritenuta conforme alla disciplina
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art. 35
(Condizioni di ricevibilità), comma 1, contempla unicamente l’identico
termine semestrale di decadenza per la proposizione dell’azione (“La
Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di
ricorso interne, qua è inteso secondo i principi di diritto
internazionale genera.
(Altalex, 9 aprile 2010. Nota di Domenico Chindemi)
________________
[1] App. Reggio Cal, 11 maggio 2009.
[2] App. Reggio Cal, 11 maggio 2009.
[3] Cass., 30.12. 2009, n. 27719.
[4]
Cass., 12 febbraio 2010, n. 3325; Cass., 11 febbraio 2010, n. 3180;
Cass. 10 febbraio 2010, n. 3042; Cass., 29 gennaio 2010, n. 2134.
[5] App. Napoli, decr. 4 luglio 2008.
[6]
Per i richiami sistematici si rinvia a Cass. 26 febbraio 2010, n. n.
4760, ove si precisa che la disciplina della decadenza – che è una
novità del codice del 1942 -postula, al pari della prescrizione , una
combinazione dell’inerzia soggettiva con l’elemento oggettivo del
tempo; anche se, secondo un’autorevole dottrina (di cui si rinviene
qualche eco in giurisprudenza: Cass., sez. 1, 6 novembre 1976 n. 4043),
sanziona l’inadempimento di un onere, piuttosto che di un obbligo, per
l’esercizio di un diritto (di regola, potestativo), in base al
principio di autoresponsabilità.. cfr anche Cass. 24 febbraio 2010, n.
4526; Cass., 22 febbraio 2010, n. 4091.
Il
termine decadenziale, in tesi generale, consiste in un punctum temporis
da rispettare: fino a che non sia trascorso, neppure si può parlare
d’inerzia soggettiva, perchè il tempo, che nella prescrizione viene in
considerazione come durata, nella decadenza vale, invece, come
distanza: diversità ontologica, rispecchiata dalla disciplina
alternativa in materia di interruzione e sospensione (artt. 2941, 2945
e 2964 cod. civ.), che vede ammissibile solo l’impedimento della
decadenza una volta per sempre (art. 2966 cod. civ.). L’utilità
euristica della distinzione si rivela altresì nel corollario logico che
non è ipotizzabile – per la contraddizione che noi consente – che il
soggetto sia, nel contempo, inerte e no, fino alla scadenza del termine
di preclusione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4.
Tanto
più la coesistenza appare eccentrica al sistema, in quanto la
previsione di un termine come causa di decadenza o di prescrizione
rientra, come generalmente riconosciuto in dottrina, in un scelta
discrezionale del legislatore, immune da condizionamenti di logica
giuridica (non senza ingenerare, talvolta, dubbi esegetici; cfr. art.
2393 c.c., comma 4); e, mentre la prescrizione costituisce causa
generale di estinzione, in virtù dell’art. 2934 cod. civ., la decadenza
è prevista in norme complementari all’interno di singole fattispecie,
insuscettibili di interpretazione analogica (art. 14 preleggi).
Pertanto,
anche dalla verifica della coerenza sistematica e concettuale si
evince, in ultima analisi, l’inammissibilità del concorso simultaneo di
termini di decadenza e di prescrizione correlati alla medesima attività
richiesta.
[7] Cass., 20.6.2006, n. 14286.
[8] Cass. 3.1.2008,n. 9; in senso conforme anche Corte di Strasburgo Br, contro Italia 19.12.1991; Ba c. Italia 25.6.1987.
[9]
Cass. 26 febbraio 2010, n. 4760; Cass. 24 febbraio 2010, n. 4526;
Cass., 22 febbraio 2010, n. 4091; Cass., 11 febbraio 2010, n. 3180.
[10] App. Salerno, decr. 14 ottobre 2008.
[11] App. Roma, decr. 9 luglio 2001, in Guida al diritto, 2001, n. 38, p. 30; cfr anche App. Napoli, decr. 3 novembre 2008.
[12] Cass. 26 febbraio 2010, n. n. 4760; la Corte rileva, al riguardo che
postulare l’operatività della prescrizione in corso di causa
presupposta imporrebbe, fatalmente, il frazionamento della pretesa
indennitaria: destinata alla rinnovazione in ipotesi di un ritardo più
che decennale. Tanto più, se si acceda al principio di
cristallizzazione dell’an e del quantum al momento della domanda di
equa riparazione; con conseguente esclusione, dall’indennizzo,
dell’ulteriore danno maturato fino alla decisione… Siffatta
inevitabile proliferazione di iniziative, per segmenti temporali,
intesa non come facoltà rimessa alla discrezionalità potestativa della
parte, bensì come onere in prevenzione della perdita del diritto, per
prescrizione , oltre ad essere contraria al generale principio di
economia processuale – e, al limite, integrare perfino un abuso del
processo (Cass. sez. un. 15 novembre 2007, n. 23726; Cass., sez. 3, 11
giugno 2008, n. 15476) – avrebbe l’ulteriore effetto paradossale di
indurre la parte alla nimia diligentia di agire quando ancora il
ritardo sia pressochè trascurabile; e dia quindi luogo, plausibilmente,
ad un indennizzo nummo uno, se non addirittura al rigetto della domanda
per l’estrema modestia del pregiudizio.
[13] Cass. Sez. Un. , Ordinanza 16 marzo 2010, n. 6306.
[14] Cass, ord. 20.10.2005, n. 20271.
[15] Cass, ord. 20.10.2005, n. 20271.
[16] Cass. 26 febbraio 2010, n. 4760 Anche la norma transitoria di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 6 – osserva la Corte – nel
consentire entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore
della legge (prorogato poi al 18 aprile 2002 dal D.L. 12 ottobre 2001,
n. 370) la prosecuzione dinanzi al giudice italiano del processi di
equa riparazione promossi davanti alla Corte europea e non ancora
dichiarati ricevibili, ha posto l’unico requisito temporale della
tempestività del ricorsi originari (e cioè del rispetto del solo
termine , di natura decadenziale, previsto dal citato art. 35 della
Convenzione): in tal modo, implicitamente escludendo che la
prescrizione , non prevista dalla normativa europea, potesse invece
acquisire efficacia estintiva dopo la translatio iudicii. Esclusione,
del resto consentanea con il carattere derivato, seppur non ancillare,
della tutela introdotta con la cd. Legge Pinto , espressamente
ancorata, ex art. 2, comma 1, ai presupposti della Convenzione europea
per la salvaguardia del diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(ed alla giurisprudenza interpretativa della Corte di Strasburgo.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 23 ottobre 2009 – 24 febbraio 2010, n. 4524
(Presidente Vittoria – Relatore Ceccherini)
Svolgimento del processo
Con
decreto 1 giugno 2007, la Corte d’appello di Roma, decidendo sulla
domanda proposta dal signor G. T., condannò il Ministero della
giustizia a pagare, a titolo di equa riparazione per l’eccessiva durata
di un processo, protrattosi per dodici anni oltre il termine
ragionevole, la somma di euro 3.500,00 per un ritardo di sette anni,
dichiarando prescritto il diritto alla riparazione del danno anteriore
al quinquennio.
Per la cassazione del decreto, che dichiara non
essere stato notificato, ricorre il signor G. T. con atto notificato in
data 17 luglio 2008, con due mezzi d’impugnazione.
L’amministrazione resiste con ricorso notificato il 10 ottobre 2008.
Motivi della decisione
Con
il primo motivo si censura il criterio di determinazione dell’equa
riparazione commisurato al periodo di ritardo, invece che all’intera
durata del giudizio.
Il mezzo è infondato, essendo
giurisprudenza consolidata di questa corte che la precettività, per il
giudice nazionale, dell’indirizzo della Corte europea dei diritti
dell’uomo in tema di liquidazione dell’indennità per l’irragionevole
durata del processo non concerne anche il profilo relativo al
moltiplicatore della base annuale di calcolo, perché, mentre per la
CEDU l’importo in questione quantificato va moltiplicato per ogni anno
di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il
giudice nazionale è, sul punto, vincolante il terzo comma, lettera a),
dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, ai sensi del quale è influente
solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole.
Detta diversità di calcolo, peraltro, non tocca la complessiva
attitudine della citata legge n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo
di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata
del processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di
tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica
italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno
riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui
all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione medesima (art. 111, secondo
comma, Cost., nel testo fissato dalla legge costituzionale 23 novembre
1999, n. 2) (Cass. 13 aprile 2006 n. 8714; 23 aprile 2005 n. 8568).
Il
secondo motivo censura per falsa applicazione di norme di diritto sulla
prescrizione in materia di equo indennizzo ex lege n. 89 del 2001
l’applicazione, nell’impugnato decreto, del termine quinquennale di
prescrizione ai danni verificatisi prima del triennio dalla domanda.
Le
questione della prescrizione del diritto all’equa riparazione del danno
derivato dall’irragionevole durata del processo deve essere qui
esaminata nei limiti posti dal ricorso, nel quale la censura mossa
all’impugnata sentenza verte esclusivamente sulla durata del termine.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, il diritto ad
un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole
del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, ha carattere
indennitario e non risarcitorio, non richiedendo l’accertamento di un
illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 cod. civ., e non
presupponendo la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico
di un agente. Esso è invece ancorato all’accertamento della violazione
dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento “ex
se” lesivo del diritto della persona alla definizione del suo
procedimento in una durata ragionevole, configurandosi l’obbligazione,
avente ad oggetto l’equa riparazione, non già come obbligazione “ex
delicto”, ma come obbligazione “ex lege”, riconducibile, in base
all’art. 1173 cod. civ., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire
fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico (Cass.
13 aprile 2006 n. 8712). Ne consegue, in tale prospettiva, che il
diritto medesimo è soggetto all’ordinaria prescrizione decennale, e non
a quella breve dettata dall’art. 2947 c.c. per il diritto al
risarcimento del danno da fatto illecito.
Il motivo di ricorso
in esame deve pertanto essere accolto, e il decreto impugnato deve
essere cassato in base al principio di diritto seguente:
il
diritto di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per
effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge
4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine
ragionevole di cui all’art. 6, § 1, della Convenzione, ad una equa
riparazione, secondo quanto previsto dall’art. 2 della legge 24 marzo
2001 n. 89, ha natura indennitaria e non risarcitoria, e ad esso non è
applicabile il termine di prescrizione breve previsto dall’art. 2947
c.c..
La causa, inoltre, può essere decisa anche nel merito, non
richiedendosi a tal fine ulteriori indagini in fatto. Non essendo
emerso alcun motivo per derogare, in ragione della particolarità della
fattispecie, agli ordinari criteri di liquidazione del danno, correnti
nella giurisprudenza della CEDU, l’amministrazione deve essere
condannata al pagamento dell’equa riparazione liquidata, per dieci anni
di eccessiva durata del processo presupposto oltre il termine
ragionevole, come richiesto, in euro 10.000,00, con gli interessi dalla
domanda.
Le spese del giudizio sono a carico
dell’amministrazione soccombente, e sono liquidate, per il grado
svoltosi davanti alla corte territoriale, in euro 50,00 per esborsi,
euro 1.000,00 per onorari ed euro 440,00 per diritti, oltre alle spese
generali e agli accessori come per legge, da distrarsi a favore dei
procuratori antistatari, avvocati S. D. e C. C., come già disposto nel
decreto impugnato.
Sono inoltre a carico dell’amministrazione
soccombente le spese del grado di legittimità, liquidate come in
dispositivo e distratte a favore dell’avvocato C. C., dichiaratosi
antistatario.
P.Q.M.
La corte
accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto
impugnato e, decidendo nel merito, condanna l’amministrazione a
corrispondere alla parte ricorrente, a titolo di equa riparazione, la
somma di euro 10.000,00, con gli interessi dalla domanda al saldo, e le
spese del giudizio, che determina:
per il giudizio davanti alla
corte d’appello, in euro 50,00 per esborsi, euro 440,00 per diritti,
euro 1.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori
di legge, disponendo che siano distratte a favore dei procuratori
antistatali, avvocati S. D. e C. C.;
per il giudizio di
legittimità, in euro 1.100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre
alle spese generali e agli accessori di legge, disponendo che siano
distratte a favore dell’avvocato C. C..
Manda alla cancelleria per le comunicazioni di cui all’art. 5 della legge n. 89 del 2001.