Sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione per vizio totale di mente
L’art. 443, comma 1, del codice di procedura penale è
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui esclude che
l’imputato possa proporre appello contro le sentenze di assoluzione per
difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di mente.
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 274 depositata il 29 ottobre scorso.
Art. 443 c.p.p. e Legge 46/2006
La Legge 20 febbraio 2006, n. 46,
“Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità
delle sentenze in proscioglimento”, che ha reso inappellabili in ogni
caso, fra l’altro, le sentenze di assoluzione a seguito di rito
abbreviato (L. n. 46 del 2006,
art. 2 che ha modificato l’art. 443 c.p.p., comma 1) ed ha disciplinato
in via transitoria (art. 10, comma 4) il caso di annullamento da parte
della Corte di Cassazione di una sentenza di condanna di secondo grado
che abbia riformato una precedente sentenza di primo grado di
assoluzione (prevedendo, in tal caso, che l’appello proposto con una
sentenza di proscioglimento prima della entrata in vigore della L. n. 46 del 2006
debba essere dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile),
non ha invece disciplinato la ipotesi di annullamento della sentenza di
secondo grado di assoluzione resa su appello contro sentenza di
assoluzione di primo grado.
Prima della approvazione della L. n. 46 del 2006
la soluzione imposta dal codice di rito (art. 623, lett. c) era quella
dell’annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello
che aveva emesso il provvedimento impugnato; però, a seguito della
entrata in vigore della normativa che in via generale ha vietato
l’appello contro le sentenze di proscioglimento, pare in contrasto con
la nuova disciplina la possibilità di rinviare per un nuovo giudizio di
appello un caso in cui, addirittura, vi era stato il proscioglimento
nel precedente giudizio di appello, a conferma del proscioglimento in
primo grado, quando ciò non è consentito neppure nel caso in cui in
appello vi era stata la condanna dopo un proscioglimento in primo
grado, imponendosi in tal caso la inammissibilità dell’appello con la
assegnazione del termine di 45 giorni al Pubblico Ministero per
proporre eventualmente ricorso per cassazione contro la sentenza di
assoluzione di primo grado. Il caso di cd. “doppia conforme” di
assoluzione è infatti sempre un caso in cui l’appello non sarebbe
consentito in base alla nuova normativa e non potrebbe quindi avere
luogo nè il giudizio di appello dopo la entrata in vigore della stessa,
ma neppure un nuovo giudizio di appello a seguito di annullamento con
rinvio da parte della Corte di Cassazione, essendo ciò escluso dal
legislatore al di fuori dei casi in cui l’annullamento riguardi
soltanto la pena o la misura di sicurezza, divenendo quindi definitivo
il giudizio di responsabilità (art. 10, comma 4).
Il vuoto
legislativo creato in tal caso dal legislatore del 2006 deve essere
colmato facendo ricorso al sistema ed in particolare al principio
dell’eadem ratio con riguardo al caso di annullamento della sentenza di
condanna in appello che abbia riformato la sentenza di assoluzione di
primo grado. In conformità a quanto previsto dalla norma transitoria di
cui alla L. n. 46 del 2006,
art. 10, comma 4, si deve pertanto annullare senza rinvio la sentenza
impugnata, non potendo più avere corso il giudizio di appello contro la
sentenza di assoluzione in primo grado.
La soluzione potrebbe
apparire incongrua ed è in effetti frutto di un mancato coordinamento
delle disposizioni da parte del legislatore, poichè gli stessi vizi che
inficiano la sentenza di appello in realtà inficiano anche quella di
primo grado, la quale resta “in vita” benchè viziata, tuttavia, essendo
stata impugnata soltanto la sentenza di appello e non essendo stati
comunque dedotti vizi di nullità della sentenza di primo grado, resta
preclusa in questa sede qualsiasi pronuncia su tale prima sentenza che
potrà costituire oggetto di ricorso per Cassazione da parte del
Pubblico Ministero. E sotto tale profilo non pare applicabile neppure
la disposizione di cui al combinato disposto dell’art. 620 c.p.p.,
lett. i) e art. 621 c.p.p. (per cui se la sentenza impugnata ha deciso
in secondo grado su materia per la quale non è ammesso l’appello, la
Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata e
ritiene il giudizio qualificando la impugnazione come ricorso), poichè
la sentenza di primo grado era appellabile nel momento in cui è stata
appellata ed il legislatore del 2006, con la disposizione transitoria,
ha voluto concedere un nuovo termine al P.M. per presentare i motivi di
ricorso in quanto non si trattava di scelta di mezzo erroneo di
impugnazione, bensì di inappellabilità sopravvenuta della sentenza per
scelta legislativa.
L’art. 443, comma 1, c.p.p. ed il giudizio di incostituzionalità
L’art.
443, comma 1, cp.p. è stato, prima, sostituito dall’art. 31 della L. 16
dicembre 1999, n. 479 e poi modificato dall’art. 2 della L. 20 febbraio 2006, n. 46.
Tale
articolo è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Cost., 10-20
luglio 2007, n. 320, per violazione dell’art. 111, comma 2, Cost., in
quanto l’art. 2 citato esclude che il pubblico ministero possa
appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di
giudizio abbreviato.
Di recente, la Corte Costituzionale, con
sentenza n. 274 del 2009, – ritornando sull’articolo in esame – ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1,
c.p.p., come modificato dall’art. 2 della Legge 20 febbraio 2006, n. 46
(Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità
delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui esclude che
l’imputato possa proporre appello contro le sentenze di assoluzione per
difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di mente.
L’incostituzionalità
dell’art. 443, comma 1, c.p.p. – secondo la Corte Costituzionale – si
basa sugli artt. 3, 24, secondo comma e 111 Cost., nel senso che la
norma in questione violerebbe:
a) il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.);
b)
il diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), privando
l’imputato della possibilità di far valere doglianze di merito contro
una sentenza che per un verso, presuppone l’accertamento del
«fatto-reato» e della sua riferibilità all’imputato; e, per altro
verso, comporta l’applicazione di misure di sicurezza particolarmente
afflittive, di durata massima non prefissata;c) il principio di
parità delle parti del processo (art. 111, secondo comma, Cost.),
stante l’asimmetria dei poteri dell’imputato rispetto a quelli del
pubblico ministero, il quale, a seguito delle declaratorie di
incostituzionalità di cui alle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007, è
attualmente abilitato ad appellare contro le sentenze di
proscioglimento emesse tanto nel giudizio ordinario che all’esito del
giudizio abbreviato.Corte Costituzionale
Sentenza 19 – 29 ottobre 2009, n. 274
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
– Francesco AMIRANTE Presidente
– Ugo DE SIERVO Giudice
– Paolo MADDALENA “
– Alfio FINOCCHIARO “
– Alfonso QUARANTA “
– Franco GALLO “
– Luigi MAZZELLA “
– Gaetano SILVESTRI “
– Maria Rita SAULLE “
– Giuseppe TESAURO “
– Paolo Maria NAPOLITANO “
– Giuseppe FRIGO “
– Alessandro CRISCUOLO “
– Paolo GROSSI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1, del
codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 della legge 20
febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in
materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso
dalla Corte d’appello di Napoli nel procedimento penale a carico di
G.M. con ordinanza dell’11 marzo 2008, iscritta al n. 326 del registro
ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2008.Udito nella camera di consiglio del 23 settembre 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
Con
ordinanza del 22 febbraio 2008, depositata il successivo 11 marzo, la
Corte d’appello di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1, del codice di
procedura penale, come modificato dall’art. 2 della legge 20 febbraio
2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di
inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui
esclude che», nel giudizio abbreviato, «l’imputato possa proporre
appello contro le sentenze di assoluzione pronunziate ai sensi
dell’art. 88 del codice penale (proscioglimento per vizio totale di
mente)».La Corte rimettente riferisce di essere investita
dell’appello proposto dai difensori dell’imputato contro la sentenza
emessa il 28 giugno 2007 dal Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Napoli, a seguito di giudizio abbreviato. Detta sentenza
aveva assolto l’imputato dal reato di tentato omicidio in danno della
convivente, in quanto non imputabile per vizio totale di mente,
applicando al medesimo, ai sensi dell’art. 222 cod. pen., la misura di
sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per la
durata minima di cinque anni.Con l’atto di appello, i difensori
avevano chiesto che il fatto venisse qualificato come lesione
personale, non avendo la persona offesa corso pericolo di vita; che
fosse riconosciuta la desistenza, ai sensi dell’art. 56, terzo comma,
cod. pen.; che venisse infine applicata una misura di sicurezza meno
afflittiva, così come consentito dalla sentenza della Corte
costituzionale n. 253 del 2003.All’udienza camerale, di fronte
alla richiesta del Procuratore generale della Repubblica di dichiarare
inammissibile l’appello alla luce della nuova formulazione dell’art.
443, comma 1, cod. proc. pen., i difensori avevano eccepito
l’illegittimità costituzionale di tale norma, in riferimento agli artt.
3 e 24 Cost.Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a
quo osserva che la disposizione censurata esclude, in via generale,
l’appello dell’imputato contro le sentenze di proscioglimento: con la
conseguenza che la decisione sull’ammissibilità del gravame viene a
dipendere dalla soluzione della questione stessa. La sentenza che
dichiara il difetto di imputabilità ai sensi dell’art. 88 cod. pen.,
pur presentando aspetti peculiari, è qualificata, difatti, dall’art.
530 cod. proc. pen. come sentenza di assoluzione: dato letterale,
questo, che non consentirebbe alcuna interpretazione del novellato art.
443 cod. proc. pen. atta a superare la preclusione censurata.Né
soccorrerebbe, nella specie, l’art. 680, comma 2, cod. proc. pen., che
prevede la competenza del tribunale di sorveglianza sulle impugnazioni
contro le sentenze di condanna o di proscioglimento concernenti le
disposizioni che riguardano le misure di sicurezza. Per costante
giurisprudenza di legittimità, infatti, detta disposizione si applica –
conformemente al tenore letterale di detta norma e dell’art. 579, commi
1 e 2, cod. proc. pen. – solo quando l’impugnazione investa in via
esclusiva il capo della sentenza concernente le misure di sicurezza:
mentre, nel giudizio a quo, il gravame della difesa è volto a
contestare anche la qualificazione giuridica del fatto.Riguardo,
poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente
osserva come la sentenza di assoluzione emessa ai sensi dell’art. 88
cod. pen. abbia connotazioni particolari, che valgono a differenziarla
dalla generalità delle altre pronunce assolutorie. Essa presuppone,
difatti, che il giudice abbia accertato la sussistenza del
«fatto-reato», la sua riferibilità all’imputato «in termini materiali e
di colpevolezza» e l’assenza di cause di giustificazione: sicché, in
presenza di tutti i presupposti per una condanna, l’assoluzione viene
pronunciata solo perché l’imputato era affetto da vizio totale di mente
al momento del fatto. Al tempo stesso, poi, la sentenza in parola
«comporta l’applicazione di una sanzione particolarmente invasiva e
limitativa della libertà personale, quale il ricovero in un ospedale
psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia per una
durata massima non fissata dalla legge, ma soggetta al riesame ai sensi
dell’art. 208 cod. pen.».Risulterebbe, pertanto, di tutta
evidenza come l’imputato sia portatore di un rilevante interesse a
vedere rivalutate, anche nel merito, la sussistenza dei presupposti
della pronuncia, la ricorrenza degli estremi per l’applicazione della
misura di sicurezza e l’adeguatezza della misura applicata rispetto
alle accertate condizioni di salute.La preclusione
dell’appello, introdotta dall’art. 2 della legge n. 46 del 2006, si
risolverebbe, di conseguenza, in una menomazione del diritto di difesa,
tutelato dall’art. 24, secondo comma, Cost. La soppressione del potere
di appello non potrebbe ritenersi compensata, infatti, dall’ampliamento
dei motivi di ricorso per cassazione, operato dalla stessa legge n. 46
del 2006: giacché – come rilevato dalla Corte costituzionale nelle
sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 – quale che sia l’effettiva portata
dei nuovi e più ampi casi di ricorso, il rimedio non attinge comunque
alla pienezza del riesame di merito consentito dall’appello.Né,
d’altro canto, la preclusione censurata potrebbe trovare
giustificazione nella scelta del giudizio abbreviato, operata dallo
stesso imputato. Come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 363 del 1991, difatti, il potere di impugnazione
dell’imputato, in quanto esplicazione di valori fondamentali, quali il
diritto di difesa e l’interesse a far valere la propria innocenza, non
potrebbe essere sacrificato in vista delle finalità di speditezza ed
economia processuale, proprie del suddetto rito semplificato.La
disposizione violerebbe, altresì, in parte qua, l’art. 111, secondo
comma, Cost. A seguito delle declaratorie di incostituzionalità degli
artt. 1 e 2 della legge n. 46 del 2006, di cui alle citate sentenze n.
26 e n. 320 del 2007, il pubblico ministero può attualmente appellare
le sentenze di proscioglimento pronunciate tanto nel giudizio ordinario
che a seguito di giudizio abbreviato: donde una asimmetria di poteri
inconciliabile con il principio costituzionale di parità delle parti
processuali.Risulterebbe leso, da ultimo, anche l’art. 3 Cost.,
sotto il profilo della ragionevolezza. In contrasto con tale canone,
difatti, il vigente testo dell’art. 443 cod. proc. pen. impedisce
all’imputato di appellare le sentenze di assoluzione per vizio totale
di mente, che determinano l’applicazione di una misura di sicurezza
limitativa della libertà personale e di durata non prefissata nel
massimo; mentre gli consente di proporre appello contro le sentenze di
condanna alla sola pena della multa, obiettivamente meno afflittiva.Considerato in diritto
1.
– La Corte d’appello di Napoli dubita della legittimità costituzionale,
in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma,
della Costituzione, dell’art. 443, comma 1, del codice di procedura
penale, come modificato dall’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46
(Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità
delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente
all’imputato di proporre appello contro le sentenze di assoluzione per
difetto di imputabilità derivante da vizio totale di mente, emesse a
seguito di giudizio abbreviato.Ad avviso della Corte
rimettente, la norma censurata violerebbe il diritto di difesa (art.
24, secondo comma, Cost.), privando l’imputato della possibilità di far
valere doglianze di merito contro una sentenza che – come quella
considerata – per un verso, presuppone l’accertamento del «fatto-reato»
e della sua riferibilità all’imputato; e, per altro verso, comporta
l’applicazione di misure di sicurezza particolarmente afflittive, di
durata massima non prefissata. La preclusione denunciata non potrebbe
essere giustificata dalla scelta del giudizio abbreviato, operata dallo
stesso imputato, giacché il diritto di difesa di quest’ultimo – di cui
il potere di appello è espressione – non sarebbe suscettibile di venir
sacrificato, per il suo valore preminente, in vista delle finalità
deflattive proprie del rito semplificato.Risulterebbe leso,
inoltre, il principio di parità delle parti del processo (art. 111,
secondo comma, Cost.), stante l’asimmetria dei poteri dell’imputato
rispetto a quelli del pubblico ministero, il quale, a seguito delle
declaratorie di incostituzionalità di cui alle sentenze n. 26 e n. 320
del 2007, è attualmente abilitato ad appellare contro le sentenze di
proscioglimento emesse tanto nel giudizio ordinario che all’esito del
giudizio abbreviato.Sarebbe violato, infine, il principio di
ragionevolezza (art. 3 Cost.), posto che l’art. 443 cod. proc. pen.,
nel testo attualmente in vigore, consente all’imputato di proporre
appello contro le sentenze di condanna anche alla sola multa: pena
obiettivamente meno afflittiva rispetto alla misura di sicurezza
applicabile con la sentenza di assoluzione per vizio totale di mente.2.
– In via preliminare, va rilevato come i presupposti interpretativi su
cui la Corte rimettente basa tanto il giudizio di rilevanza della
questione che le censure di costituzionalità appaiano senz’altro
condivisibili.Il vigente testo dell’art. 443, comma 1, cod.
proc. pen. è la risultante della modifica operata dall’art. 2 della
legge n. 46 del 2006 (che ha soppresso l’inciso limitativo finale, già
presente nella norma censurata, «quando l’appello tende ad ottenere una
diversa formula») e della successiva sentenza n. 320 del 2007 di questa
Corte (che ha rimosso la limitazione ivi prevista al potere di
impugnazione nei confronti del pubblico ministero). Esso stabilisce la
radicale inappellabilità, da parte dell’imputato, delle sentenze di
proscioglimento emesse in esito al giudizio abbreviato: genusche
abbraccia, alla luce della sistematica del codice di rito (si veda
l’art. 530 cod. proc. pen., incluso nella sezione dedicata, appunto,
alla «sentenza di proscioglimento»), anche le sentenze di assoluzione
per difetto di imputabilità dovuto a vizio totale di mente (art. 88
cod. pen.).Pienamente plausibile appare, altresì, l’ulteriore
assunto della Corte rimettente, secondo cui non soccorre – almeno nel
caso di specie – l’art. 680, comma 2, cod. proc. pen., ove si prevede
la competenza del tribunale di sorveglianza sulle impugnazioni contro
le sentenze di condanna o di proscioglimento concernenti le
disposizioni che riguardano le misure di sicurezza. Ammessa pure
l’estensibilità al giudizio abbreviato della clausola di salvezza degli
artt. 579 e 680 cod. proc. pen., presente nell’art. 593, comma 1, cod.
proc. pen. con riferimento all’appello nel giudizio ordinario, è
dirimente il rilievo che – secondo il corrente indirizzo della
giurisprudenza di legittimità (che riflette, peraltro, la chiara
lettera dei citati artt. 579 e 680) – la competenza del tribunale di
sorveglianza (e, dunque, anche la residua appellabilità avanti ad esso
delle sentenze che qui interessano) resterebbe comunque circoscritta
alle impugnazioni che attengono, in via esclusiva, al capo relativo
alle misure di sicurezza. Nella specie, per contro, l’appello proposto
dalla difesa dell’imputato ha un contenuto più ampio, investendo anche
la qualificazione giuridica del fatto e il mancato riconoscimento della
desistenza, ai sensi dell’art. 56, terzo comma, cod. pen.3. – Nel merito la questione è fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.
3.1.
– Il tema oggetto di scrutinio va affrontato alla luce dei principi
ispiratori del rito alternativo in cui la limitazione censurata si
innesta: principi che impediscono una automatica estensione all’ipotesi
considerata degli argomenti in base ai quali questa Corte, con sentenza
n. 85 del 2008, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art.
593, comma 1, cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 1 della legge
n. 46 del 2006, nella parte in cui esclude che l’imputato possa
appellare le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio
ordinario (fatta eccezione per talune limitate ipotesi).Il
giudizio abbreviato si fonda, difatti, come è noto, sulla «libera e
consapevole accettazione», da parte dell’imputato – quale contropartita
per un trattamento premiale sul piano sanzionatorio (riduzione di un
terzo della pena eventualmente inflitta) – di «limitazioni di diritti e
facoltà […], altrimenti riconosciuti nel rito ordinario» (sentenza n.
288 del 1997). Tra i “sacrifici” richiesti all’imputato figura – a
fianco del consenso ad essere giudicato sulla base degli atti raccolti
nelle indagini preliminari, con conseguente rinuncia al contraddittorio
nella formazione della prova in sede dibattimentale – anche
l’accettazione preventiva di limitazioni alla facoltà di appello. Ciò è
nella logica di un rito alternativo che, per un verso, persegue
obiettivi di semplificazione e accelerazione dei processi; e, per altro
verso, si fonda – ormai in via esclusiva – sulla volontà dello stesso
imputato.Tuttavia, le limitazioni all’appello dell’imputato,
per poter essere considerate costituzionalmente compatibili, debbono
risultare comunque basate su criteri razionali, nel confronto con i
casi di perdurante appellabilità, e debbono trovare, altresì, «un
fondamento ragionevolmente commisurato … al rilievo costituzionale
dell’interesse inciso» (sentenza n. 363 del 1991). Come più volte
rilevato da questa Corte, difatti, pur in assenza di un riconoscimento
costituzionale della garanzia del doppio grado di giurisdizione di
merito, il potere di appello dell’imputato si presenta correlato al
fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24, secondo
comma, Cost.), che gli conferisce una più accentuata «forza di
resistenza» di fronte a «sollecitazioni di segno inverso», legate alla
realizzazione di obiettivi di speditezza processuale (sentenza n. 26
del 2007; si vedano, altresì, le sentenze n. 298 del 2008 e n. 98 del
1994).In questa prospettiva, la Corte dichiarò
costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 3 Cost.,
l’originaria preclusione dell’appello dell’imputato contro le sentenze
di condanna a pena che comunque non dovesse essere eseguita, sancita
dall’art. 443, comma 2, cod. proc. pen. (sentenza n. 363 del 1991). Il
criterio che discriminava, quanto alla facoltà di appello, i soggetti
condannati a seguito di giudizio abbreviato – ossia la concreta
eseguibilità o meno della pena inflitta – faceva perno, difatti, su «un
elemento estrinseco alla natura del reato commesso e ai caratteri della
pena irrogata»: trascurando così – irrazionalmente – «ogni riferimento
agli aspetti che più sono destinati a caratterizzare la responsabilità
dell’imputato e le conseguenze dell’azione criminosa, quali il titolo
del reato, il tipo di sanzione, la misura della pena edittale».La
Corte ritenne, per contro, che i tre requisiti ora indicati
risultassero «pienamente rispettati» dalla preclusione relativa alle
sentenze con le quali fossero applicate sanzioni sostitutive,
originariamente contemplata dall’art. 443, comma 1, lettera b), cod.
proc. pen. La minore gravità dei titoli di reato per i quali operano le
sanzioni sostitutive, la minore afflittività di esse e i livelli
necessariamente più bassi delle pene edittali di riferimento
escludevano, difatti, «vizi di irragionevolezza», consentendo di
concludere che la previsione rientrava «negli spazi di discrezionalità
legittimamente utilizzabili dal legislatore per realizzare l’obiettivo
della rapida definizione del giudizio abbreviato» (sentenza n. 288 del
1997).3.2. – Circa il caso che qui interessa, questa Corte ha
già avuto modo di rilevare, nella citata sentenza n. 85 del 2008, come
«la categoria delle sentenze di proscioglimento» – che la norma
censurata assoggetta ad un regime unitario, quanto alla sottrazione
all’appello dell’imputato – non costituisca un genus unitario, ma
abbracci «ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva
degli interessi morali e giuridici del prosciolto».Per questo
verso, del tutto particolare si presenta, in effetti, la sentenza di
assoluzione per vizio totale di mente. Lungi dall’assumere una valenza
pienamente liberatoria, detta pronuncia postula l’accertamento della
sussistenza del fatto di reato, della sua riferibilità all’imputato –
in termini tanto materiali che psicologici – e dell’assenza di cause di
giustificazione: non distinguendosi, dunque, sotto tale profilo, da una
sentenza di condanna.Non soltanto per questa ragione, ma anche
e soprattutto per il motivo che impone di adottare la formula
assolutoria – ossia l’incapacità di intendere e di volere al momento
del fatto, dovuta a totale infermità mentale – la sentenza in questione
è idonea a causare all’imputato un pregiudizio di ordine morale
particolarmente intenso, persino superiore a quello che può derivare da
una sentenza di condanna (sentenza n. 85 del 2008).Dalla
pronuncia in questione possono conseguire, altresì, rilevantissimi
pregiudizi di ordine giuridico, segnatamente allorché, a seguito
dell’accertata pericolosità sociale dell’imputato, venga applicata – o
possa essere applicata con provvedimento successivo (art. 205, secondo
comma, cod. pen.) – una misura di sicurezza, consistente, in specie,
nel ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (art. 222 cod.
pen.) ovvero – per effetto della sentenza n. 253 del 2003 di questa
Corte – nella diversa misura, prevista dalla legge, che il giudice
individui come idonea ad assicurare adeguate cure all’infermo di mente
e a far fronte alla sua pericolosità sociale. S’intende come queste
misure, limitative della libertà personale e di durata non
predeterminata nel massimo, in quanto soggette al meccanismo del
riesame della pericolosità, possano risultare, in concreto, di gran
lunga più afflittive della pena irrogata con una sentenza di condanna.Non
è superfluo aggiungere, peraltro, che nei casi in cui non sia
applicabile al prosciolto per vizio totale di mente una misura di
sicurezza, in ragione della natura del reato o dei livelli della pena
edittale, l’art. 222, primo comma, cod. pen. prevede comunque che «la
sentenza di proscioglimento» sia «comunicata all’autorità di pubblica
sicurezza», in vista della sottoposizione del soggetto ad opportuni
controlli.3.3. – Sul versante opposto – quello, cioè, dei casi
in cui l’impugnazione è ammessa – si deve di contro registrare come,
per effetto di novelle legislative successive al ricordato intervento
di questa Corte (sentenza n. 363 del 1991), l’art. 443 cod. proc. pen.
non contempli più alcun limite all’appello dell’imputato contro le
sentenze di condanna: onde può formare oggetto di un suo gravame nel
merito anche la sentenza di condanna alla sola pena della multa o che
applichi una sanzione sostitutiva.Emerge da ciò una evidente
violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. Appare, in effetti,
irrazionale e lesivo del diritto di difesa che l’imputato possa dolersi
nel merito della condanna per un reato bagatellare alla sola pena della
multa (anche condizionalmente sospesa), e non sia abilitato, invece, ad
appellare l’assoluzione per vizio totale di mente, anche se relativa ad
un reato di particolare gravità (nel caso di specie, tentato omicidio)
ed a cui si riconnetta l’applicazione di una misura di sicurezza
limitativa della libertà personale (nella specie, ricovero in un
ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo minimo di cinque anni).Con
particolare riguardo all’ipotesi che interessa, il criterio sulla cui
base risultano attualmente discriminati i casi in cui l’appello
dell’imputato è consentito e quelli in cui è inibito – vale a dire la
circostanza che si tratti di sentenza di condanna o di proscioglimento
– non tiene conto, in effetti, mutatis mutandis, dei requisiti
giustificativi del sacrificio dell’appello nel giudizio abbreviato
enucleati dalle citate sentenze n. 288 del 1997 e n. 363 del 1991.L’assoluzione
per totale infermità di mente – assimilabile, come detto, ad una
condanna, quanto alla attribuzione del fatto all’imputato – può avere,
infatti, ad oggetto qualunque tipo di reato, ivi compresi quelli di
maggiore allarme sociale; può comportare l’applicazione di misure che,
anche se non punitive, risultano marcatamente afflittive (oltre che, in
ogni caso, un pregiudizio di ordine morale di particolare intensità);
prescinde, infine, dall’entità della pena edittale prevista per il
reato oggetto di giudizio. L’interesse dell’imputato a contestare,
anche nei profili di merito, i presupposti della pronuncia emessa nei
suoi confronti subisce, dunque, una limitazione intrinsecamente
irrazionale, in rapporto all’assetto complessivo delle preclusioni
dell’appello nel giudizio abbreviato, e priva di adeguata
giustificazione nelle caratteristiche e nelle finalità proprie di tale
rito.3.4. – La residua censura della Corte rimettente, riferita all’art. 111, secondo comma, Cost., resta assorbita.
4.
– L’art. 443, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2
della legge n. 46 del 2006, va dichiarato, pertanto, costituzionalmente
illegittimo nella parte in cui esclude che l’imputato possa proporre
appello contro le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità,
derivante da vizio totale di mente (art. 88 cod. pen.).per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
l’illegittimità costituzionale art. 443, comma 1, del codice di
procedura penale, come modificato dall’art. 2 della legge 20 febbraio
2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di
inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui
esclude che l’imputato possa proporre appello contro le sentenze di
assoluzione per difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di
mente.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009.