Tasse e Federalismo. Tariffe più Care
In Italia capita anche questo. Succede
che due Comuni praticamente falliti finiscano nell’elenco delle
amministrazioni più virtuose, quelle premiate dallo Stato con la
possibilità di spendere più soldi rispetto ai limiti ferocemente
imposti dal Patto di Stabilità. Possibile che nella lista ci sia anche
Catania? La città dove il neosindaco Raffaele Stancanelli, appena
eletto a metà 2008, denunciò con le mani tra i capelli un miliardo di
debiti nascosti nelle pieghe del bilancio? Dove il suo predecessore era
inseguito da torme di creditori di tutte le specie, dai librai
cittadini alle ballerine brasiliane? Dove le strade erano al buio
perché non erano state pagate le bollette dell’Enel? E dove, per
assurdo, il bilancio di quel 2008 appariva talmente in ordine da far
guadagnare a Catania un premio da 983.411 euro? Premio, per inciso,
negato a città mai censurate per cattiva amministrazione, come Sondrio,
Belluno, Asti…Catania come Taranto. Comune
dichiarato ufficialmente in dissesto finanziario e sommerso da un
debito pazzesco di 616 milioni di euro, dove succedeva davvero di
tutto. Perfino che 23 dipendenti, dopo essersi aumentati lo stipendio
da soli rubando alle casse municipali 5 milioni, restassero
miracolosamente al loro posto. Una città talmente sprofondata nel buco
nero dei debiti, che i liquidatori ci hanno messo tre anni per
ricostruire la contabilità e pagare i creditori. Con i denari dei
contribuenti, naturalmente. Gli stessi quattrini che due anni dopo
hanno permesso alla città di incassare un bel «premio» da 1.378.069
euro.
Difficile spiegare tutto questo. Una sola cosa è certa: l’elezione
diretta di sindaci e governatori e la riforma del Titolo V della
Costituzione, voluta nel 2001 dal centrosinistra, hanno dato agli
amministratori locali maggiori poteri, ma non maggiori doveri. Da
allora ad oggi metà della spesa pubblica è passata dal centro alla
periferia, ma il compito di tassare i contribuenti è rimasto allo
Stato, perché Regioni, Comuni e Province sono responsabili solo del 18%
delle entrate. La finanza locale, già caotica, è diventata ancora più
disordinata. E indebitata, perché mentre montava il caos normativo e
istituzionale, da Roma, inseguendo il risanamento dei conti pubblici,
hanno cominciato a tagliare i trasferimenti di bilancio.
Fatto sta che oggi gli italiani si trovano appesantiti, solo a livello
locale, da 45 fra tasse, tributi, canoni, addizionali,
compartecipazioni, con la pressione fiscale complessiva che è schizzata
nel 2009 al 43,5%, al terzo posto fra i Paesi dell’Ocse. Nonostante le
promesse di riduzione e semplificazione che ci sentiamo ripetere da
almeno dieci anni. Per raggranellare denaro i sindaci hanno dato sfogo
alla fantasia. Alcuni hanno anche rispolverato la «tassa sull’ombra»
del 1972, che colpisce «la proiezione sul suolo pubblico di balconi,
tende e pensiline».
Con le casse sempre più vuote, ma nessuna voglia di incidere sulle
spese improduttive, gli enti locali hanno di fatto scaricato sui
cittadini i sacrifici imposti dal governo centrale. Aggirando ad
esempio il blocco delle addizionali comunali sull’Irpef, in vigore dal
2008, pompando le tariffe. Anche i governi, poi, ci hanno messo del
loro. Per esempio con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, l’unica
tassa «federalista» vigente in Italia, sacrificata sull’altare
dell’ultima campagna elettorale. E pazienza se, come rivelava uno
studio dell’Ifel, l’istituto di ricerca dell’Anci, tra il 2004 e il
2009 le tariffe comunali sono cresciute a una media del 3,5% annuo. Il
doppio dell’inflazione, con punte stratosferiche per i rifiuti (+29%
tra il 2004 e il 2009, e continuano ad aumentare) e i servizi idrici,
le cui tariffe crescono in media del 5% l’anno. Dopo l’immondizia e
l’acqua, l’ondata dei rincari nel 2010 e in questo primo scorcio del
2011 si è abbattuta su asili nido, mense scolastiche, piscine e
impianti sportivi, musei, servizi cimiteriali, trasporto locale. E nel
Milleproroghe, appena approvato dal Senato, c’è una nuova sorpresa:
tutti i Comuni, anche quelli che non si trovano in emergenza rifiuti,
potranno aumentare le tariffe fino a coprire l’intero costo del
servizio. Incrociamo le dita.
Il caso dell’Ama, che oltre ad essere l’azienda municipalizzata per
l’ambiente del Comune di Roma è anche uno straordinario collettore di
voti, forse vale per tutti come cattivo esempio di amministrazione. Il
bilancio del 2008 si è chiuso con una perdita monstre di 257 milioni di
euro. E il 2009 sarebbe stato archiviato con un altro buco di 70
milioni, senza il contributo di 30 milioni erogato dal Comune e
l’aumento delle tariffe per ben 40,8 milioni di euro. E tutto questo
mentre i crediti verso gli utenti morosi aumentavano, in dodici mesi,
di 108 milioni, raggiungendo la cifra astronomica di 623 milioni di
euro. La circostanza non ha comunque impedito all’azienda di assumere
nuove legioni di dipendenti: 91 nel 2008, 489 nel 2009, 766 nel 2010.
Impiegati, netturbini, perfino 164 spalatori di foglie ingaggiati in un
colpo solo. Poi, naturalmente, anche parenti e amici dei politici.
Per rendersi conto del disordine che regna negli enti locali del nostro
Paese, del resto, è sufficiente dare uno sguardo a una tabella
elaborata dal senatore del Pd, Marco Stradiotto, componente della
Bicamerale sul federalismo, sui dati del ministero dell’Interno. Si
scopre, per esempio, che su ogni cittadino di Cosenza grava un costo
del personale comunale di 506 euro l’anno: quasi il doppio rispetto a
una città poco più grande come Cesena (271 euro), e addirittura il 117%
in più nei confronti di Catanzaro (233). Per non parlare delle
differenze macroscopiche che ci sono fra Regione e Regione. La Sicilia,
con metà dei residenti della Lombardia, sopporta una spesa per il
personale regionale nove volte superiore (un miliardo 782 milioni
contro 202 milioni). E investe nelle infrastrutture ferroviarie 13,9
milioni l’anno, 57 volte meno della Lombardia (786 milioni). Differenze
eclatanti, che danno anche la dimensione dell’assistenzialismo in
salsa locale.
Il bello è che cominciano a saltare fuori solo adesso. Dopo che i
tecnici della Commissione mista tra governo ed enti locali per
l’attuazione del federalismo, guidata da Luca Antonini, sono quasi
impazziti per riportare su base omogenea i bilanci dei Comuni, dove
molte spese sono nascoste dall’esternalizzazione dei servizi, e delle
Regioni, scritti in quindici modi diversi. In attesa di quello fiscale,
in Italia regna da sempre il federalismo contabile, nel senso che
ognuno si fa il bilancio a modo suo. E a nulla sono valsi, finora, i
tentativi di mettere un po’ d’ordine.
Vi siete mai chiesti perché da qualche tempo in qua se
un’amministrazione di destra sostituisce una di sinistra, o viceversa,
la prima cosa che fa è mettere i libri contabili in mano a un ispettore
del Tesoro? Certamente per scaricarsi delle responsabilità dei
predecessori. Ma anche perché i bilanci sono così complicati e poco
trasparenti che dentro ci si può nascondere di tutto. Dalla due
diligence eseguita dalla Ragioneria generale dello Stato sui conti della
Campania, richiesta dall’attuale governatore Stefano Caldoro, sono
saltati fuori «bilanci di previsione fortemente sovradimensionati
rispetto al reale andamento degli impegni, e pagamenti ancora più
incoerenti». Per dire poi come sia possibile piegare i bilanci a ogni
esigenza, la Regione, allora guidata da Antonio Bassolino, ha pagato
spese che non potevano essere coperte facendosi prestare i soldi dalle
banche. Come la manutenzione dei boschi (210 milioni), oppure il
servizio di «monitoraggio» (21 milioni) del patrimonio forestale alla
Sma Campania, società partecipata dalla Regione che aveva assunto 568
lavoratori socialmente utili. Le cose non vanno meglio con i bilanci dei
Comuni. Nell’estate del 2010 la Corte dei conti ha trovato in quello
di Foggia cose turche. Non esisteva un inventario dei beni comunali, ma
in compenso c’era un contenzioso civile devastante, con decreti
ingiuntivi per 30 milioni. Nel bilancio erano contabilizzate come
residui «attivi» somme impossibili da incassare. Insomma, una baraonda
totale.
I decreti attuativi sul federalismo fiscale ora promettono di metterci
una pezza, imponendo l’omogeneità dei bilanci. Ma non a tutti, perché
per le Regioni a statuto speciale le regole sono dettate dagli Statuti,
che hanno rilevanza costituzionale. Dietro l’angolo si profilano altre
insidie, ma non si può che partire da qua. Facendo ordine nel caos dei
numeri, mettendo al bando con la trasparenza i giochi di prestigio
degli amministratori furbacchioni. Poi toccherà ai cosiddetti
«fabbisogni standard», che dovrebbero far superare il principio della
«spesa storica», grazie al quale vengono premiate le amministrazioni
più spendaccione. Di che cosa si tratta? Si stabilisce sulla base di
parametri economici e territoriali qual è il costo efficiente di un
servizio: la polizia locale, l’asilo nido, l’impianto sportivo… Chi
vuole spendere di più si arrangi. Dallo Stato non arriverà un euro in
più: o si risparmia altrove, o bisognerà aumentare le tasse, e poi
rendere conto, ai propri elettori. Ma questo, come vedremo nelle
prossime puntate, non è affatto «federalismo». Anche Luca Antonini parla
di «razionalizzazione della spesa pubblica». La devolution è un’altra
cosa. Anche se ci ostiniamo a chiamarla così.