TESI IN TEMA DI EQUO INDENNIZZO EX LEGGE PINTO (L. N. 89/01)
TESI IN TEMA DI EQUO INDENNIZZO EX LEGGE PINTO (L. N. 89/01)
PER LA ECCESSIVA DURATA DEI PROCESSI
Effetti del principio della “effettiva soddisfazione” sul calcolo della durata della causa quando obbligata è l’Amministrazione.
Va analizzata la Cass. 14885/02, espressione della consolidata giurisprudenza della Corte EDU (Corte Europea dei Diritti dell’uomo), in cui si argomenta di taluno che, ottenuta una sentenza di sfratto, chiede al giudice della L. 89/01 l’equo indennizzo per l’eccessiva durata della procedura per l’esecuzione del rilascio. La Cassazione, premesso che l’art. 4, L. 89/01 fa decorrere il termine di 6 mesi per ricorrere “dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”, precisa che il concetto di “decisione definiva” riconduce, non alla sentenza passata in giudicato, ma alla soddisfazione del diritto. Non avendo quindi il cittadino eseguito spontaneamente il rilascio, lo Stato avrebbe dovuto garantire al proprietario che la procedura esecutiva si svolgesse anch’essa in un tempo ragionevole (del resto ovviamente). Il principio della “effettiva soddisfazione” non può però che portare a conseguenze diverse quando obbligato inadempiente non è il cittadino, ma la stessa amministrazione. Non ricadendo infatti la negligenza ad adempiere del cittadino nella responsabilità dello Stato, esso Stato può solo garantire una procedura idonea a realizzare celermente l’esecuzione. Ma quando obbligato inadempiente sia la stessa amministrazione, sarebbe una beffa se potesse sottrarsi alla responsabilità dell’indennizzo garantendo una procedura con la quale si auto costringa ad adempiere in tempi ragionevoli. Per cui, quando debitore è l’amministrazione, a prescindere che vi sia stata o no procedura esecutiva o che essa si sia o no svolta in un tempo ragionevole, il tempo trascorso fra il deposito della sentenza e quello della effettiva soddisfazione del diritto va semplicemente sommato al tempo in cui è durata la causa, perché la responsabilità dell’amministrazione nasce dal fatto in sé del mancato pagamento dopo la sentenza di condanna. Anche se la responsabilità dell’amministrazione è aggravata dal fatto che ottenerne il pagamento richieda ogni volta procedure defatiganti, speciose, onerose, ecc., perché l’amministrazione, pur di non pagare, ricorre finanche alle leggi illegittime ed alle disfunzioni funzionali alla Sua negligenza di adempiere. Per cominciare, in virtù dell’illegittima L. 326/03 (finanziaria), il creditore verso un ente pubblico deve attendere 120 giorni dopo la notifica della sentenza per poter notificare il precetto. Notifiche che costituiscono un altro problema (specie a Napoli ed a Roma) perché richiedono anche due mesi. Senza contare le lunghe file dopo le quali non si possono notificare più di cinque atti per volta. Scaduto il precetto, da notificarsi dopo i 120 giorni, si può procedere al pignoramento presso terzi, che richiede generalmente molti mesi. Ottenuta l’ordinanza occorrono altri mesi per le copie, altri ancora per notificarle, ed altri infine perché la Banca d’Italia paghi. A parte poi le invenzioni ministeriali ed i modi di certi dirigenti, come, da ultimo, il Dirigente ff dell’Ufficio Esecuzioni (tale Laganà), il quale, dopo essersi qualificato con il qualificare inqualificabile un mio spero non così mal argomentato documento in tema di gratuità, ratione materiae, delle notifiche degli atti di lavoro e previdenziali anche quando le relative controversie pendano dinanzi alla giurisdizione amministrativa, ha invece scoperto (“senza tema di mentita”) che, da ora, dopo 31 anni di gratuità ex L. 533/1973, in virtù dei suoi nuovi criteri interpretativi, non sono più esentate dal bollo e dai diritti le procedure per il recupero delle spese (e quindi, bisogna supporre, nemmeno le notifiche), non sembrando a questo dotto gentiluomo, ma neanche (pare) a non so chi altro presso il Ministero, vi siano ragioni per estendere la gratuità prevista per le controversie di lavoro, previdenziali ed assistenziali, alle procedure esecutive per il recupero dei relativi onorari. Ragione per cui invita gli uffici ad adeguarsi – finalmente – alla sua dottrina “in considerazione del danno erariale fin qui procurato”. (E’ ovvio invece che la gratuità per le spese è un indispensabile presupposto dell’effettività di quel diritto a ricorrere che si vuole agevolare. Né, del resto, ci spiegano, questi raffinati giuristi, cosa avviene quando l’avvocato non è attributario.). Un’interpretazione che provocherà molte cause contro il Ministero della Giustizia per la restituzione della somme che illegittimamente gli uffici hanno iniziato a pretendere. Cause che, per quel poco che può valere il mio parere in materia, sembrano fondate, sicché non è difficile, credo, trovino accoglimento, o da parte del Giudice di Pace, o della Cassazione, o, se proprio il diritto avesse definitivamente abbandonato la sua antica culla, da parte della Corte E.D.U.
LEGITTIMAZIONE PASSIVA. Il fatto che la normativa e la giurisdizione EDU siano di maggior grado di quelle nazionali ha prodotto (anche) in Italia, per molti versi, un superamento del nostro assetto normativo e giurisdizionale che la nostra giustizia stenta a recepire. Prima della CEDU (Convenzione Europea Diritti dell’Uomo), infatti, bisognava solo che il giudice si attenesse alle leggi italiane, e queste fossero conformi alla Costituzione. Ora, invece, ove la legge italiana, e fosse anche la Costituzione, sia in contrasto con le norme o la giurisdizione europee, il giudice è tenuto a disapplicare la legge italiana e ad applicare direttamente quella europea, per cui, in sostanza, può applicare la legge italiana solo ove le fattispecie non siano diversamente regolate dalla legge o dalle sentenze europee. Principi questi disattesi dalla giurisprudenza italiana per mezzo secolo (la CEDU è del 1950). Fin quando la Corte EDU, da alcun anni, ha iniziato a funzionare realmente, e gli italiani hanno preso a ricorrervi così tanto da gravarla, causando quelle doglianze europee che hanno costretto l’Italia alla legge Pinto, con la quale, per evitare il ricorso alla Corte EDU, è stato istituita in Italia una giurisdizione competente per gli indennizzi in materia di durata eccessiva dei processi. Ciò detto, va innanzitutto precisato che il motivo per il quale la legge Pinto impedisce il ricorso direttamente a Strasburgo è la sussidiarietà. Il principio della sussidiarietà, in armoniosa sintesi con il principio della statualità, mira a dirimere e a ricondurre a ricchezza sociale il conflitto fra l’esigenza di sottostare a regole generali, imprescindibile per la collettività, e quella di essere autonomi per tutto quanto è possibile, irrinunciabile per gli individui. Da un punto di vista pratico ciò si traduce in una tendenza, da parte di ogni livello superiore, a non intervenire, finché è possibile o plausibile, in nulla di quanto avviene ad un livello minore o più specifico. Dal punto di vista della giurisdizione significa che il cittadino italiano deve rivolgersi sempre prima alla giurisdizione italiana quando esista una giurisdizione italiana in quella tale materia, e quando essa gli garantisca una effettiva tutela anche e soprattutto ai sensi della normativa europea. Ne deriva che l’unico motivo per il quale il cittadino italiano deve ora rivolgersi al giudice della legge Pinto è che sussiste ora avverso la violazione del diritto ad essere giudicati in un tempo ragionevole un rimedio nazionale in due gradi (primo grado dinanzi alle Corti d’Appello, e secondo in Cassazione). Se è insoddisfatto può comunque rivolgersi “in terzo grado” a Strasburgo, ma può rivolgervisi anche direttamente ove ritenga che la giustizia nazionale disattenda la giurisprudenza e la normativa europea, ovvero adducendo la mancanza, in Italia, in questa come in qualsiasi altra materia, di un “ricorso effettivo”. Ora, ciò premesso, va detto che: “Lo Stato è responsabile di tutte le sue strutture, e non soltanto dei suoi organi giudiziari, e incombe agli Stati contraenti organizzare il loro sistemi giudiziari in modo da consentire loro di soddisfare i requisiti dell’art. 6 par. 1” (Corte EDU, sent. 13.7.83, Zimmermann e Steiner c/ Svizzera; 26/10/1988, Martins Moreira c/ Portogallo; e molte altre). Sennonché la L. 89/01 prevede all’art. 3, comma 3 che: “Il ricorso è proposto nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare, del Ministro delle finanze quando si tratta di procedimenti del giudice tributario. Negli altri casi è proposto nei confronti del presidente del Consiglio dei ministri.” Questa legittimazione passiva è stata stabilita in funzione di una serie di ovvie esigenze, ma, di fronte alla giustizia europea, il responsabile della lesione del diritto è l’Italia, ovvero lo Stato italiano, e quindi la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che è infatti indicato dalla 89/01 quale legittimato passivo quando non ve ne sia uno più specifico. D’altra parte, detto che non è concepibile che un Ministero della giustizia si curi delle cause solo dal punto di vista della mera pronunzia delle sentenze (disinteressandosi della loro efficacia finanche quando è esso stesso ad essere condannato), va aggiunto che comunque l’art. 2,2, L. 89/01 precisa anch’esso che: “Nell’accertare la violazione il giudice considera … il comportamento … del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione.” Una “definizione” che riconduce al principio della “effettiva soddisfazione”, coinvolgendo così, anche direttamente, lo Stato nella responsabilità per l’inadempimento. Nè può essere diversamente, perché la disfunzione giudiziaria / amministrativa nei vari gradi, fasi e stadi è un potente deterrente del ricorso alla giustizia, sicché, in una situazione come quella in cui versa la nostra amministrazione la collusione istituzionale diviene automaticamente strumento difensivo. Argomenti questi forse vani in Italia, ma caratteristici delle sentenze di Strasburgo. Ne deriva che, dal punto di vista della legittimazione passiva, il Ministero della giustizia ha sia una responsabilità diretta per il non far sì che le sentenze abbiano una maggiore e migliore efficacia (vi sarebbero infiniti modi, ed il Ministero ha l’obbligo di conoscerli tutti); e sia una responsabilità indiretta per il non avere concorso per tutto quanto poteva (moltissimo) a creare le condizioni per impedire il mancato pagamento da parte dell’ente debitore. La Presidenza del Consiglio ha invece una responsabilità sempre diretta, da ogni angolazione, perché da essa tutto discende. Tutte cose che, dal punto di vista della legittimazione passiva, dovrebbero senz’altro tradursi nel fatto che, per il ritardo maturato dal ricorso alla pubblicazione della sentenza, si debbano convenire i Ministeri o la Presidenza del Consiglio, così come indicato dalla legge Pinto; e, per il ritardo dalla pubblicazione della sentenza al pagamento, sempre e comunque la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Magari solidalmente, per prudenza, con il Ministero competente fino alla sentenza.
Criteri per stabilire quale sia la durata ragionevole di una causa civile, di una causa di lavoro, previdenza o assistenza, e quindi di un silenzio-rifiuto in materia assistenziale in tema di art. 26, LR 11/84.
Secondo la giurisprudenza italiana (generalmente restrittiva e sovente smentita da quella europea), il termine ragionevole nelle cause civili sarebbe approssimativamente di 2 – 3 anni per il I° grado, 2 anni per il II°, ed 1,5 anno per il III°. Termini non meglio precisabili stante la scarsità di dati dovuta forse all’intento di non creare precedenti, anche perché si tende a legare la ragionevolezza della durata alle caratteristiche della causa. (Impostazione questa alla quale, date le condizioni della nostra giustizia, non è forse il caso per il momento di contrapporsi troppo, ma a mio avviso non moderna, perché lo Stato dovrebbe farsi carico di fornire il “servizio” sempre nello stesso tempo mediante il destinare alle cause più complesse maggiori risorse.). Tali termini non sono però condivisibili, perché la ragionevolezza della durata va individuata in base al tempo mediamente impiegato in un paese civile per celebrare un processo. Se pertanto in Australia come in Germania si celebra una causa in 3 mesi o meno (dedicandovi tutto il tempo che occorre, in religioso silenzio, registrando ogni dichiarazione, senza ressa e gratuitamente), così deve essere anche in Italia, dove per di più i costi dell’impianto giudiziario sono maggiori di quelli di altri paesi. E se non vi si riesce l’obiettivo della CEDU è che vi si riesca, sicché non sarebbe in linea con quella normativa l’omologare i ritardi in virtù del fatto che l’alta densità di violazioni e strategismi istituzionali in Italia è prassi. Oltretutto, da ultimo, si è assistito a cose come la notevolissima abbreviazione dei tempi dei TAR (da 10 o più anni, agli attuali 4 mesi, per un silenzio rifiuto), sicché l’apparato può produrre risultati ben migliori degli odierni. I termini predetti, comunque, ribadita la loro non condivisibilità (la giurisprudenza è tutta da formare), possono al limite essere attribuiti al processo civile, ma non al processo del lavoro, anche se ridotti alla misura di circa 2 anni, indicata dalla giurisprudenza italiana per il I° grado (mancano più precise indicazioni per il II° grado e la Cassazione). Ciò perché per il processo del lavoro il legislatore italiano ha voluto termini molto più brevi. Il processo civile si articola infatti nelle seguenti fasi: fase introduttiva del giudizio, fase del controllo del contraddittorio, fase delle eccezioni non rilevabili di ufficio, fase della trattazione, fase della modifica della domanda, fase delle richieste istruttorie, fase istruttoria, fase della precisazione delle conclusioni, fase decisoria. Parametri non applicabili nel processo del lavoro, in cui vi è l’unica fase della discussione, e per il quale, ex art. 415 cpc, tra il deposito del ricorso e la data di udienza, che viene da subito fissata come di discussione, non debbono trascorrere più di 60 giorni: termini l’abitualità del cui mancato rispetto non attenua la responsabilità statuale. Termini ordinatori la cui violazione non comporta sanzioni o decadenze, ma produce la responsabilità ex L. 89/01, perché opinare diversamente di fronte a termini fissati con tanta determinazione dal legislatore, significherebbe voler sconfinare nell’arbitrarietà. Poiché, pertanto, secondo il legislatore, una causa in questa materia e di questo tipo dovrebbe durare, in base ad una prudente valutazione, non più di tre mesi circa (così è stato nei primi anni del processo del lavoro), deve considerarsi superato il termine ragionevole quando siano trascorsi 6 mesi dal deposito del ricorso. Un tempo, quello di 6 mesi, che, ratione materiae, deve essere garantito anche laddove, per qualche motivo, la causa assistenziale venga trattata (come nel caso dell’art. 26, LR 11/84) dal giudice amministrativo. Ciò a maggior ragione se si considera che, come già detto, appunto in 4 mesi circa il TAR Campania decide oggi un silenzio / rifiuto, che è più semplice di una controversia di lavoro. Si precisa comunque che questo difensore, per prudenza, in materia di lavoro, previdenza ed assistenza, chiede sì l’equo indennizzo dal sesto mese (più i tempi dell’eventuale CTU), ma deposita i ricorsi solo per le cause che siano durate più di due anni in I° grado e 18 mesi in II° e III° grado.
Misura degli onorari dovuti dinanzi alle Corti d’Appello per le cause ex L. 89/01
La liquidazione di un corretto ammontare di spese, oltre ad essere un diritto del difensore, è, per i cittadini, un indispensabile strumento per poter ricorrere alla giustizia. Le eventuali incongruità della giurisprudenza italiana in materia, sono superabili mediante il ricorso alla giurisdizione europea. Un soccorso non inutile perché in Italia si è giunti, ad esempio, ad una giurisprudenza secondo la quale non sarebbe impugnabile la sentenza che compensa le spese: una giurisprudenza forse unica perché non fondata su alcuna norma. Ciò detto, vanno esaminati due fondamentali aspetti. Le Corti d’Appello, nell’applicare la legge Pinto, devono fornire lo stesso tipo di garanzia, anche in relazione alle spese, fornito dalla Corte EDU in applicazione dell’art. 6 della CEDU (diritto a che una causa sia esaminata equamente e da un tribunale indipendente ed imparziale). Diversamente verrebbe meno, in Italia, il “ricorso effettivo”, configurandosi un atteggiamento protettivo verso l’amministrazione che lederebbe la terzietà, imparzialità, ed equità voluta dall’art. 6 CEDU. Pure violato risulterebbe l’art. 1 Protocollo Addizionale CEDU (diritto al rispetto dei propri beni), costituendo il compenso del difensore un suo bene che il magistrato non ha diritto di ledere. Non vi è quindi ragione perché un avvocato debba vedersi liquidate in Italia, nell’ambito applicativo della L. 89/01, somme inferiori a quelle che gli verrebbero liquidate a Strasburgo, ovvero di quelle previste, in virtù della sussidiarietà, dalla normativa italiana per la Corte EDU (si potrebbe a limite discutere dell’applicabilità delle tariffe previste per la Corte d’Appello). E’ dunque errato che le Corti d’Appello competenti per l’attuazione dell’art. 6 par. 1 della CEDU, con particolare riferimento a quella di Napoli (ma Napoli, per le spese, è in generale una repubblica, e basti pensare alla Sezione Esecuzione, talmente indipendente da liquidare mediamente meno della metà di Roma o Milano), applichino, quando li applicano, perché alcune liquidazioni sono del tutto arbitrarie, gli onorari previsti per i procedimenti in Camera di Consiglio, probabilmente perché l’art. 3, n. 4 recita: “la Corte d’Appello provvede ai sensi degli artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile…” Così come precisato anche dalla Cass. n. 14885/02, i procedimenti trattati in Camera di Consiglio hanno infatti caratteristiche ben diverse da quelli ex L. 89/01, quali la semplicità della materia e della procedura, la mancanza di fasi processuali, la mancanza di una vera e propria istruttoria. In essi il provvedimento è dato con decreto, non ha carattere decisorio, non è suscettibile di passaggio in giudicato, è impugnabile nella speciale forma del reclamo, e non è previsto il rimedio del ricorso per Cassazione. Nel caso della L. 89/01 il provvedimento della Corte d’Appello, pur emanato in Camera di Consiglio (distinzione questa praticamente astratta e priva di implicazioni dal punto di vista in esame), ha natura tipicamente decisoria (in pratica, non essendo stata creata dal legislatore una procedura ad hoc, si è adattata a questi processi, nei limiti del possibile, la forma dei procedimenti in Camera di Consiglio). Il tipo e l’entità delle spese di cui ai procedimenti in Camera di Consiglio, però, per essere legittimo, deve essere fondato sul presupposto che le attività professionali che in esso si compiono siano minori quantitativamente o qualitativamente di quelle di cui all’ordinario processo civile e dinanzi alla Corte EDU, non potendo la mera qualificazione di queste cause come procedimenti in Camera di Consiglio produrre la mancata remunerazione di attività professionali per le quali altre norme nazionali la prevedono, o ne prevedono una maggiore. Ben vero la Cassazione (sent. 14885/02) ha notato tali anomalie ed ha affermato: “che invero, la legge n. 89 del 2001 era diretta ad alleggerire il notevole carico di procedimenti risarcitori promossi da cittadini italiani di fronte alla Corte di Strasburgo per ottenere il ristoro dei danni subiti a seguito dell’irragionevole durata dei procedimenti giudiziari di fronte all’autorità giudiziaria italiana; che tale scopo comportava un’identità tra i procedimenti instaurabili in sede europea rispetto a quelli proponibili di fronte alle Corti d’appello ai sensi della legge n. 89 del 2001, tanto che, in base all’art. 6 di questa (norma transitoria), il procedimento pendente davanti alla Corte europea poteva essere riassunto di fronte alla Corte territoriale italiana competente; che, in base a tali premesse, la logica conseguenza derivante dall’identità dei giudizi era l’opportunità di adeguare quelli instaurati ex art. 2 della legge n. 89 del 2001 alla giurisprudenza formatasi in sede europea; che, pertanto, proprio partendo da tali cause si poteva dedurre che fine della legge era quello di fare in modo che l’attività giudiziaria fosse esercitata in modo tempestivo, ma nel rispetto delle leggi regolatrici delle singole fattispecie;” Principi che esprimono quella diretta applicabilità della CEDU e della giurisprudenza europea ribadita, com’è noto, anche dalle S.U. sent. n. 1338, 1339, 1340, 1341, tutte del 2004. Ma afferma poi, ancora più chiaramente, la Cassazione n. 14885/02: “L’adozione del modello camerale per il procedimento de quo è determinata dal carattere di celerità che ispira quel modello, ritenuto dal legislatore più agile e rapido rispetto al processo di cognizione ordinaria. La scelta in tal senso, dunque, è stata operata come misura acceleratoria, perseguita mediante una procedura definibile in tempi brevi. Ma il provvedimento che la conclude è senza dubbio definitivo (non essendo previsti altri rimedi, a parte il ricorso per cassazione) ed ha natura decisoria, essendo idoneo ad incidere con efficacia di giudicato sull’interesse della parte all’equa riparazione, avente consistenza di diritto soggettivo e tale espressamente qualificato dalla legge (art. 2, primo comma, legge n. 89 del 2001). Pertanto esso, pur in assenza di previsione normativa, sarebbe stato senz’altro suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte (tra le più recenti, Cass., 21 maggio 2001, n. 6919; 21 febbraio 2001, n. 2517; 14 febbraio 2001, n. 2099). …Ne deriva che, se si interpretasse l’art. 3, comma sesto, della legge n. 89 del 2001 come riferito al detto ricorso straordinario, il dettato normativo in parte qua sarebbe pleonastico, essendo tale mezzo d’impugnazione già esperibile in relazione alla natura dell’atto. Invece l’espressa previsione della norma, che consente il ricorso per cassazione avverso il decreto della Corte territoriale senza alcuna limitazione in ordine ai motivi proponibili, impone di ritenere che il legislatore abbia inteso riferirsi al ricorso ordinario per cassazione (ex art. 360 cod. proc. civ.), in ragione del contenuto sostanziale di sentenza che al provvedimento in questione va riconosciuto, al di là della forma adottata.” Pertanto, il non liquidare competenze conformi a quelle europee equivarrebbe, per le Corti d’Appello, ad esercitare una disincentivazione dell’attività di rappresentanza e difesa. D’altronde i provvedimenti delle Corti d’Appello non hanno né la forma né la sostanza di un decreto. Si tratta di provvedimenti spesso di 4, 5, 6 o più pagine, le cui caratteristiche formali e sostanziali sono ovviamente determinate dalla consapevolezza da parte del giudice della loro natura decisoria e della loro ricorribilità per Cassazione. Vengono estesi come delle sentenze, con delle motivazioni strutturate nei modi tipici delle sentenze, e come le sentenze passano in giudicato. Non può in sostanza essere negato, senza incorrere nella duplice violazione delle norme e della giurisprudenza sia europea che nazionale, quanto dovuto per: esame e studio pratica, consultazione cliente, ricerca documenti, redazione atti introduttivi, redazione memoria, discussione in Camera di Consiglio.
Alfonso Luigi Marra
Ringrazio l’avv. Ginaldo Cucinella per la preziosa consulenza nell’ambito del civile.
ALM
I rischi di un lavoro “contro” le Istituzioni.
Non è ancora palese ma, fra tanti discorsi e strategie politiche, è invece la “legge Pinto” ciò che contribuirà seriamente a cambiare l’Italia, perché, come scrivo da anni sull’intestazione delle mie cause, “Se la civiltà è figlia del controllo, la disfunzione della giustizia civile ed amministrativa è la madre dell’attuale stato delle cose”. Sennonché, come in passato l’esito positivo, in materia di pensioni di invalidità, delle cause e dei pignoramenti in danno del Ministero dell’Interno (che avrebbero poi prodotto un profondo rinnovamento della materia), scatenò contro di me un attacco poliziesco / giudiziario inenarrabile (ma sto provando a narrarlo in un ricorso a Strasburgo per i danni patrimoniali dovuti al minor fatturato per i 10 anni in cui è durata la persecuzione + 5), ecco che, in seguito alle mie cause ex legge Pinto, è di nuovo iniziata a crescere contro di me l’ira del Governo, ed anche di quei Magistrati che, in un modo o nell’altro, si sentono “imputati” per i ritardi. Una sensazione la mia corroborata dalle informazioni che da vari fronti mi arrivano circa le non amichevoli affermazioni di questo o quel Giudice costretto a fare la relazione sul perché del ritardo nelle cause che giudicò, o addirittura circa le riunioni che taluni giudici stanno facendo per decidere come simbolizzarmi la loro irritazione con decisioni che, per il momento, sembra si limitino all’intenzione di pretendere le deleghe scritte dai miei procuratori, o di rifiutare sistematicamente le richieste di rinvio per decidere le cause nello stato in cui sono. Un inizio di ostilità che, sommata a quella del Governo per il crescente numero di condanne e per il continuo incremento della loro onerosità, potrebbe presto concretizzarsi, se le tecniche di contrasto non sono nel frattempo divenute più sofisticate, nelle solite persecuzioni fiscali, o in nuove accuse di chissà quali mai altri fantasiosi reati, o in tentativi di influire sul mio Ordine professionale. Devo infatti al senso dell’onore ed all’onesta intellettuale dei colleghi dell’Ordine se allora non incorsi in qualche “sospensione cautelare”, che a distanza di anni si sarebbe si rivelata infondata, ma sarebbe servita nel mentre a liquidare il mio studio. Premesso dunque che se, da un lato, non mi farò certo prendere ora da quella paura che non ho mai avuto, e sono deciso ad affrontare apertamente chi mi attaccherà ed a ricorrere a Strasburgo per ogni minima cosa, dall’altro, soprattutto, chiedo a tutti i buoni Magistrati, e cioè alla gran maggioranza di coloro che non hanno niente a che fare con certi incolti retrogradi, così come a tutti gli avvocati, politici e cittadini di buona volontà, di sconfiggere loro stessi coloro che non vogliono che il nostro paese si liberi dalle catene della disfunzione, perché il modo per impedire le cause non è annientare gli avvocati che le fanno, ma regolarizzare il paese facendo funzionare la giustizia. E le dure sentenze di condanna di Strasburgo, così come quelle della “legge Pinto” in tema di ritardi, sono un’occasione che l’Italia non può perdere, perché null’altro può salvarci dalla sarchiaponica borbonicità del nostro apparato, dal momento che la politica, o di destra o di centro o di sinistra, è tutta ugualmente in coma. Prego però anche coloro che vogliono contrastarmi di farlo nelle sedi civilistiche e con argomenti giuridici, e di non cercare di nuovo, disonorando lo Stato ed i loro ruoli, di usare le forze dell’ordine e la giustizia penale per vincere le cause civili.
Cordialità,
Alfonso Luigi Marra
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