Timbrare il cartellino e lasciare il posto di lavoro può integrare il reato di truffa
Si è molto discusso se integra il reato di falso ideologico in atto
pubblico o di truffa consumata la mancata timbratura, da parte del
dipendente pubblico, del cartellino segnatempo in occasione di brevi
allontanamenti dal luogo di lavoro.
La giurisprudenza di
legittimità è ormai consolidata (nonostante le pronunce in tema siano
poco numerose ed in gran parte risalenti nel tempo) nel ritenere che i
cartellini marcatempo, una volta installati, costituiscano prova della
presenza sul luogo di lavoro degli intestatari, nel periodo
intercorrente tra l’ora di ingresso e quella di uscita, con la
conseguente rilevanza delle relative attestazioni, sia ai fini della
regolarità del servizio (nel caso in cui gli interessati siano adibiti
a funzioni o servizi pubblici) sia ai fini della retribuzione che a
ciascuno compete.
L’omessa timbratura del cartellino, in
occasione di allontanamenti intermedi del dipendente, come nel caso di
specie per andare allo stadio, impedisce pertanto, a sua volta il
controllo di chi è tenuto alla retribuzione, sulla quantità
dell’attività lavorativa prestata, tanto in vista di un recupero (ove
previsto) del periodo di assenza, quanto in vista di una detrazione
correlativa dal compenso mensile, così che, sotto tali profili,
costituisce condotta idonea a trarre in inganno ed a far conseguire
ingiusti profitti (Cass. pen., Sez. V, 23 settembre 1996, n. 9192).
Sicché l’omessa attestazione di un allontanamento temporaneo è un
artificio idoneo a indurre in errore colui che leggerà poi il
cartellino, non è un’attestazione falsa.
Sulla questione, un
minoritario indirizzo giurisprudenziale fa leva, in sostanza, sulla
considerazione che la timbratura del cartellino rileva “in via diretta
ed immediata unicamente ai fini della retribuzione e comunque del
regolare svolgimento della prestazione di lavoro e solo indirettamente,
e mediatamente, ai fini del regolare svolgimento del servizio” (Cass. pen., Sez. 5, n. 44689 del 2005).
Di conseguenza, la condotta di falsificazione ideologica del pubblico
ufficiale ipotizzata dall’art. 479 c.p. (come quella materiale di cui
all’art. 476 c.p.) deve sostanziarsi in una attività svolta
“nell’esercizio delle sue funzioni” pubblicistiche, appare ineludibile
distinguere, nell’attività del pubblico impiegato – ed in un contesto
in cui il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti ha assunto
connotazioni privatistiche (a seguito della disciplina introdotta con
il D.Lgs. n. 29 del 1993, modificata dal D.Lgs. n. 80 del 1998, ora trasfusa nel D.Lgs. n. 165 del 2001)
– “gli atti che sono espressione della pubblica funzione e/o del
pubblico servizio e che tendono a conseguire gli obiettivi dell’ente
pubblico” da quelli “strettamente attinenti alla prestazione” di
lavoro, “ed aventi, perciò, esclusivo rilievo sul piano contrattuale e
non anche su quello funzionale” (Cass., Sez. 5^, n. 12789/2003).
Premesso,
invero, che secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte e la
prevalente dottrina, “agli effetti delle norme sul falso documentale,
il concetto di atto pubblico è più ampio rispetto a quello che si
desume dalla definizione contenuta nell’art. 2699 c.c., in quanto
comprende non soltanto quei documenti che sono redatti con le richieste
formalità da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad
attribuirgli pubblica fede, ma anche i documenti formati dal pubblico
ufficiale o dal pubblico impiegato incaricato di pubblico servizio
nell’esercizio delle sue funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o
avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza
giuridica”, rimane che – come si esprime autorevole dottrina – “la
falsa rappresentazione della realtà che viene documentata deve essere
rilevante in relazione alla specifica attività del pubblico ufficiale e
ciò significa che la falsità deve investire un fatto che, in relazione
al concreto esercizio della funzione o attribuzione pubblica, abbia la
potenzialità di produrre effetti giuridici”. Deve, allora, convenirsi
che, in effetti, il cartellino marcatempo ed i fogli di presenza sono
destinati ad attestare solo una circostanza materiale che afferisce al
rapporto di lavoro tra il pubblico dipendente e la pubblica
amministrazione, ed in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti,
non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di
volontà riferibili alla pubblica amministrazione. Il pubblico
dipendente, in sostanza “non agisce neppure indirettamente per conto
della P.A., ma opera come mero soggetto privato, senza attestare
alcunchè in ordine all’attività della P.A.”.
Va, quindi,
affermato il seguente principio di diritto: i cartellini marcatempo ed
i fogli di presenza dei pubblici dipendenti non sono atti pubblici,
essendo essi destinati ad attestare da parte del pubblico dipendente
solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra
lui e la pubblica amministrazione (oggi soggetto a disciplina
privatistica), ed in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti,
non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di
volontà riferibili alla pubblica amministrazione. Tanto ritenuto, pure
torna opportuno, da ultimo, rilevare che, ove, poi, tali attestazioni
del pubblico dipendente siano utilizzate, recepite, in atti della
pubblica amministrazione a loro volta attestativi, dichiarativi o di
volontà della stessa, tanto può dar luogo ad ipotesi di falso per
induzione, ai sensi dell’art. 48 c.p. (Cass. pen., Sez. V, 21/09/2004,
n. 44288).
…truffa consumata?
Le Sezioni unite della Corte di legittimità (Cass. pen. Sez. Unite, 11/04/2006, n. 15983)
nel risolvere il precedente contrasto registratosi sul punto, hanno di
recente avuto modo di affermare che non integra il delitto di falso
ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico
dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata sui cartellini
marcatempo o nei fogli di presenza, in quanto documenti che non hanno
natura di atto pubblico, ma di mera attestazione del dipendente
inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica;
documenti che, peraltro,non contengono manifestazioni dichiarative o di
volontà riferibili alla pubblica amministrazione. Ma dalla non
riconducibilità del fatto nello schema del delitto di falso ideologico,
non deriva affatto il venir meno del carattere fraudolento della
condotta, non essendo revocabile in dubbio che – proprio in
considerazione della funzione attestativa ed “autocertificativa”che la
sottoscrizione del “foglio di presenza” assume agli effetti del
rispetto dell’orario di lavoro e dell’espletamento in concreto delle
proprie mansioni – qualsiasi condotta “manipolativa” delle risultanze
di quella attestazione è di per se – ed ontologicamente – idonea a
trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente
presta servizio circa il “fatto” che quella attestazione è volta a
dimostrare (la presenza sul luogo di lavoro). In questa prospettiva,
dunque, la tesi del ricorrente, secondo la quale mancherebbe il nesso
eziologico, giacchè all’imputato non sarebbe addebitabile una falsa
attestazione, giacchè, in realtà, lo stesso si sarebbe limitato a
omettere di indicare le assenze intermedie, perde qualsiasi capacità
suggestiva, giacchè è proprio la firma di ingresso e quella di uscita
(con i corrispondenti orari) a rappresentare il dato di “verità non
manipolarle”, pena la ravvisabilità di un evidente “artificio”.
Deve
chiarirsi ulteriormente, in proposito, che l’omissione di cui si tratta
è giuridicamente rilevante, poichè il dipendente pubblico, nella specie
– è tenuto ad uniformarsi ai principi di correttezza, anche nella fase
esecutiva del contratto e, pertanto, ha l’obbligo giuridico di portare
a conoscenza della controparte del rapporto di lavoro non soltanto
l’orario di ingresso e quello di uscita, ma anche quello relativo ad
allontanamenti intermedi sempre che questi, conglobati nell’arco del
periodo retributivo, siano economicamente apprezzabili: tale obbligo va
adempiuto tramite i sistemi all’uopo predisposti e, quindi anche
mediante la corretta timbratura del cartellino segnatempo o della
scheda magnetica, ove installati, salvo che siano adottate altre
procedure equivalenti, a condizione che queste siano formali e
probatoriamente idonee ad assolvere alla medesima funzione.
Se
non ogni violazione del citato obbligo di correttezza contrattuale
concreta il reato di truffa (anche ove produttiva, rispettivamente, di
danno per un soggetto e di profitto per un altro) è da ravvisarsi
invece l’estremo costitutivo del raggiro nella condotta di chi crea
l’apparenza dell’adempimento, in contrasto con la realtà. Qualora, poi,
l’assenza del dipendente sia occultata da registrazioni effettuate ad
opera di altro dipendente, al raggiro indicato si aggiunge un evidente
artificio.
Attesa la funzione dei c.d. «cartellini segnatempo»
di costituire prova della continuativa presenza del dipendente sul
luogo di lavoro nel tempo compreso tra l’ora d’ingresso e quella di
uscita, secondo la sentenza in esame (cui si uniforma a Cass. pen.,
Sez. V, 22 settembre 2003, n. 39077; idem Cass. pen., Sez. II,
16 marzo 2004, n. 19302; Cass. pen., Sez. II, 6 ottobre 2006, n. 34210)
deve ritenersi che, indipendentemente dalla configurabilità, o meno del
falso ideologico (avuto riguardo alla controversa natura giuridica dei
detti cartellini), costituisca comunque condotta suscettibile di
integrare il reato di truffa consumata quella del pubblico dipendente
che si allontani temporaneamente dal luogo di lavoro senza far
risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica,
i periodi di assenza, sempre che questi, conglobati nell’arco dei
periodo retributivo, siano da considerare economicamente apprezzabili.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 30 settembre – 28 ottobre 2009, n. 41471
(Presidente Pagano – Relatore Chindemi)
Osserva in fatto
La
Corte di appello di Lecce, con sentenza del 20 marzo 2006 confermava la
sentenza del Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Casarano, in
data 7/12/2004, appellata anche da O. L.. imputato di tentata truffa
poi qualificata truffa consumata, ai danni del Comune di Taurisano,
facendo rilevare la propria presenza sul posto di lavoro con la
timbratura del cartellino marcatempo nell’orario pomeridiano in cui lo
stesso risultava presente presso lo stadio comunale in occasione
dell’incontro calcistico Taurisano – San Cassiano, e con le attenuanti
generiche equivalenti alla contestata aggravante, condannato alla pena
di mesi sei di reclusione e Euro 100 di multa, con i benefici di legge.
Proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato deducendo i seguenti motivi:
a)
Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale: art. 606,
comma 1, lett. b) c.p.p., con riferimento agli articoli 56 e 640 c.p. –
mancanze manifesta illogicità della motivazione (art. 606, comma 1,
lett. e) c.p.p., in relazione all’articolo 546, comma primo, lett. e)
c.p.p.) per avere erroneamente la Corte ritenuto il reato di truffa
consumata, anziché quella tentata e per aver posto a base della
decisione le sole dichiarazioni testimoniali rese ai Carabinieri di
servizio in occasione dell’incontro di calcio, omettendo di valutare
come la presenza dell’imputato allo stadio comunale fosse comunque
compatibile con il contenuto del permesso rilasciatogli dal
responsabile comunale del settore tecnico, in virtù del quale egli era
stato autorizzato ad assentarsi dal municipio dalle 16.00 alle 19.00
dello stesso giorno, non potendo neanche ritenersi generica la
deposizione resa, in ordine al procedimento amministrativo per avere
percepito senza titolo la relativa retribuzione, dal teste D. che ha
dichiarato che tutti gli impiegati erano in credito di orario di
lavoro, effettuato in più e mai meno;
b) violazione di legge – articolo 43 c.p. in relazione all’articolo 640 c.p.
–
insussistenza dell’elemento psicologico e difetto di motivazione, non
avendo la Corte di merito tenuto conto del permesso di assentarsi dal
lavoro;
c) violazione di legge – articolo 133 c.p. e 62 bis c.p.
– non avendo la Corte di merito riconosciuto la prevalenza delle
attenuanti generiche sulla contestata aggravante, tenuto anche conto
dello stato di incensuratezza del ricorrente;
d) violazione del
art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p.,in relazione all’articolo 157 c.p.,
essendo maturata la prescrizione, trattandosi di fatto risalente all’8
ottobre 1998.
Motivi della decisione
Relativamente
al primo motivo di ricorso sulla dedotta configurazione del reato quale
tentativo di truffa e non truffa consumata, va rilevato che le Sezioni
Unite hanno puntualizzato, in relazione alla dedotta distinzione tra il
delitto consumato e tentato di truffa che “nel delitto di truffa mentre
il requisito del profitto ingiusto può comprendere in sé qualsiasi
utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non
strettamente economico, l’elemento del danno deve avere necessariamente
contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione
concreta e non soltanto potenziale che abbia l’effetto di produrre –
mediante la “cooperazione artificiosa della vittima” che, indotta in
errore dall’inganno ordito dall’autore del reato, compie l’atto di
disposizione – la perdita definitiva del bene da parte della stessa; ne
consegue che in tutte quelle situazioni in cui il soggetto passivo
assume, per incidenza di artifici e raggiri, l’obbligazione della
dazione di un bene economico, ma questo non perviene, con correlativo
danno, nella materiale disponibilità dell’agente, si verte nella figura
di truffa tentata e non in quella di truffa consumata”.
Il
delitto di truffa si perfeziona, quindi, non nel momento in cui il
soggetto passivo assume un’obbligazione per effetto degli artifici o
raggiri subiti, bensì in quello in cui si verifica l’effettivo
conseguimento del bene economico da parte dell’agente e la definitiva
perdita di esso da parte del raggirato (Sez. 2, Sentenza n. 28928 del
24/0112002 Ud. (dep. 08/07/2003) Rv. 226745).
Nella fattispecie
si è verificata una lesione concreta e definitiva del patrimonio
dell’Ente pubblico, mediante una dazione patrimoniale non dovuta,
costituita dal corrispettivo non dovuto, pacificamente percepito
dall’imputato (il teste De Pietro, responsabile del personale ha
affermato che il Comune di Taurisano non ha ancora recuperato il
proprio credito – pagina 13 verbale udienza 7/10/2004 – che ben avrebbe
potuto, quantomeno, dichiarare di rinunciare, prima della sua
percezione, all’importo relativo alla assenza dal lavoro ingiustificata.
Irrilevante
ai fini della configurazione è la dichiarazione del teste De Pietro,
responsabile del personale del Comune di Taurisano, che ha affermato
che “tutti gli impiegati sono in credito di orario di lavori effettuato
in più e mai in meno” trattandosi di dichiarazione generica e non
avendo, comunque, l’imputato mai dichiarato o affermato di volersi
avvalere di tale addotto e non dimostrato “credito”, avendo fondato la
sua difesa su argomenti assolutamente incompatibili con tale deduzione,
ritenendo giustificata l’assenza con l’addotto permesso di assentarsi
dal lavoro.
Gli ulteriori motivi del primo e secondo motivo di ricorso sono anch’essi manifestamente infondati.
Invero
a fronte di una motivazione congrua, logica e non contraddittoria (si
vedano le pagine 4 e 5) il ricorrente si limita a fornire una diversa
interpretazione dei fatti, generica e apodittica.
A solo titolo
di esempio, la Corte ha rilevato l’incompatibilità tra la presenza del
dipendente presso il campo sportivo e la sospensione del rapporto di
lavoro derivante dalla fruizione del permesso rilevando come “il
rimprovero, infatti, che si muove al dipendente, non è tanto quello di
essersi recato – durante l’orario di servizio – ad assistere ad un
incontro di calcio ma di aver percepito un ingiusto profitto, ricevendo
la retribuzione anche in relazione ai tempi in cui sia assentato, con
corrispondente danno del Comune, ingenerando negli organi preposti al
controllo delle presenze la falsa rappresentazione che egli avesse
lavorato”, con un indebito percepimento di una retribuzione senza
titolo mediante una falsa rappresentazione della realtà; peraltro il
permesso, che viene annotato su un giornale ad evidenti fini
retributivi non risulta annotato in tale occasione.
La Corte
territoriale ha, inoltre, accertato che “la registrazione dell’ora di
ingresso dell’O. (ore 16,36) era stata effettuata con la complicità di
altra persona alla quale il prevenuto aveva evidentemente ceduto il
tesserino marcatempo, attesa l’incompatibilità con la sua presenza al
campo sportivo, già attestata alle 16.00, mentre l’emissione del
permesso rilasciato allo O. risultava priva di data certa e rimaneva
comunque ininfluente al fine dell’integrazione del reato”.
Sul
punto appare utile ribadire – oltre a richiamare i principi di questa
Corte già sopra riportati per situazioni analoghe – che l’indagine di
legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte
circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione
essere limitato a riscontrare l’esistenza di un logico e complessivo
apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata. senza
possibilità di verificare l’adeguatezza o l’inconferenza fattuale delle
argomentazioni di cui il Giudice di merito si sia avvalso per
sottolineare il suo convincimento ovvero la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali, e ciò al fine di evitare che il controllo
demandato alla Cassazione, anziché “sui requisiti minimi di esistenza,
completezza e logicità della motivazione”, si eserciti muovendo dagli
atti del processo sul contenuto della decisione (cfr. Cass. Sez. 3,
sent. 12657 del 2006, Coppolino).
In relazione al terzo motivo di ricorso non risulta che la doglianza sia stata formulata anche in grado di appello.
Questa
Corte ha, comunque. già evidenziato che “la valutazione che il giudice,
nel motivare la sentenza di condanna, deve formulare nel caso di
concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti rientra nell’ampio
concetto del libero convincimento del giudice in cui si sostanzia il
giudizio penale e costituisce un potere discrezionale del cui esercizio
devono essere chiaramente indicati i punti essenziali e determinanti.
Ne consegue che le eventuali argomentazioni o le risultanze non
espressamente esaminate, ancorché poste in rilievo dal difensore,
nell’implicito raffronto con gli elementi ritenuti fondamentali, devono
considerarsi disattese e non pretermesse”. (Sez. 2, Sentenza n. 14463
del 10/1212003 Ud. (dep. 24/0312004) Rv. 228774).
Anche l’ultimo
motivo è manifestamente infondato; il delitto di furto aggravato
contestato al ricorrente si prescrive, come già correttamente affermato
dalla Corte di Appello, in quindici anni. Infatti, in forza
dell’articolo 10, III comma, della L. 05/1212005 n. 251 al presente
processo – già pendente presso questa Suprema Corte all’atto di entrata
in vigore della nuova legge sulla prescrizione – si applicano i termini
prescrizionali previsti dal vecchio articolo 157 del codice penale.
Quindi essendo la pena prevista per il reato contestato quella di 5
anni, la prescrizione è di dieci anni aumentata a quindici per effetto
degli eventi interruttivi e tale termine si matura – a far data dal
fatto e cioè dall’8.10.1998 – l’8.10.2013.
Sul punto questo
Supremo Collegio ha costantemente affermato il principio, condiviso dal
Collegio, che in tema di prescrizione del reato, la disciplina
transitoria prevista dal terzo comma dell’art. 10 L. 5 dicembre 2005,
n.
251, nella parte in cui esclude per i processi già pendenti
l’applicabilità dei termini che risultino più brevi per effetto delle
nuove disposizioni, va interpretata nel senso che l’esclusione investe
tutte le disposizioni che comunque comportino una abbreviazione dei
termini. (Sez. 3, Sentenza n. 15177 del 14/0212007 Ud. – dep.
16/0412007 – Rv. 236813).
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc.
pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso,
l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle
spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore
della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, cosi
equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara
inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.