Tribunale di Isernia: requisiti del consenso informato
“È noto che ogni intervento chirurgico, in quanto incide sull’integrità psicofisica del paziente, necessita del di lui consenso, reso all’esito di una completa e corretta informazione riferita a tutte le fasi della prestazione medica: diagnostica, clinica e post-operatoria (più in generale post-interventistica). In particolare, il medico è tenuto ad informare il paziente, tra l’altro, dei possibili benefici del trattamento, delle modalità dell’intervento, dell’eventuale possibilità di scelta tra cure diverse o fra diverse tecniche operatorie, nonché dei rischi prevedibili di complicanze postoperatorie. Come chiarito dalla Suprema Corte, il dovere di informazione è funzionale al consapevole esercizio, da parte del paziente, del diritto, che la stessa Carta costituzionale a lui solo attribuisce (articoli 13 e 32, comma 2), alla scelta di sottoporsi o meno all’intervento terapeutico (Cass., 6 ottobre 1997, n. 9705). In definitiva, il consenso si pone come condizione di liceità dell’intervento terapeutico, mentre la necessaria e preliminare informazione da parte del medico è condizione di validità del consenso medesimo. Nei casi poi di intervento chirurgico o di altra terapia specialistica invasiva, il consenso ha un oggetto più ampio, esteso non solo ai rischi oggettivi e tecnici, ma anche alla concreta situazione ospedaliera, tale da consentire al paziente di decidere sia se sottoporsi all’intervento sia se farlo in una determinata struttura oppure in un’altra. Occorre, dunque, che il consenziente venga in precedenza edotto dei pericoli insiti nell’atto operatorio con la prospettazione anche dei possibili esiti incidenti sulla sua vita di relazione, che vanno valutati per poter consapevolmente manifestare il proprio assenso (Cass., 26 marzo 1981, n. 1773). L’omessa o carente informazione configura una grave negligenza e fonda di per sé una responsabilità del professionista anche se la prestazione sanitaria viene eseguita in concreto senza errori (Cass., 8 luglio 1994, n. 6464; più di recente conforme Cass., 24 settembre 1997, n. 9374 ove si legge che <… se dall’esecuzione ancorché prudente, diligente e tecnicamente corretta, di un intervento chirurgico o di un accertamento diagnostico invasivo, deriva un danno o addirittura la morte del paziente non informato dai medici, dei rischi gravi per la vita o l’incolumità fisica cui poteva andare incontro, al fine di prestare il necessario consenso a procedervi, …> sussiste responsabilità professionale giacché la mancata richiesta del consenso costituisce di per sé fonte autonoma di responsabilità. In ambito penale – Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572 -si è addirittura affermato il principio della violazione del consenso del paziente persino in chiave colposa, nel senso di fare scaturire una responsabilità penale a titolo di colpa per lesioni personali, a carico del sanitario esecutore di intervento chirurgico sull’erroneo convincimento, ascrivibile a sua negligenza o imprudenza, dell’esistenza della preventiva espressione di un regolare consenso del paziente). La necessità di un consenso informato discende direttamente dal contratto di prestazione medica e non va in alcun modo confuso con il diritto ad una prestazione medica esatta (esso, peraltro, trova oggi anche un esplicito riscontro nella legislazione comunitaria derivata; in particolare l’art. 1 della legge 30 luglio 1998 n. 281, in materia di diritti dei consumatori e degli utenti, qualifica quali diritti fondamentali non solo il diritto alla salute in generale, ma anche quello alla trasparenza nei rapporti con il professionista). È stato chiarito che il consenso deve essere raccolto dai sanitari con dichiarazione scritta nella quale si faccia riferimento al trattamento proposto; la documentazione relativa all’avvenuta informazione va poi conservata nella cartella clinica, se vi è un ricovero, in quella ambulatoriale, negli altri casi. È pur vero che, secondo una parte della giurisprudenza (davvero poco convincente), non è necessario che il consenso informato sia reso in forma scritta (sebbene l’art. 41 del codice deontologico per l’esercizio della professione medica obblighi il sanitario all’uso di appositi moduli), ma è altrettanto indubbio che, in mancanza di una dichiarazione sottoscritta, l’onere di fornire la prova dell’avvenuta prestazione del consenso non possa che incombere sul professionista attesa la natura contrattuale del rapporto che lega quest’ultimo al paziente (peraltro, sul punto è ormai pacifico l’orientamento, anche dottrinale, che configura in tali casi un vero e proprio concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale in capo al medico)”. È il principio di diritto che si ricava dall’analisi della Sentenza del Tribunale di Isernia n. 180 del 2006.