UN ALTRO MATTONE TOLTO DAL MURO: ANCORA A PROPOSITO DELLA LEGITTIMAZIONE DEI REGOLAMENTI DELLE AUTORITÀ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI
SOMMARIO: § 1. Il fatto
e la decisione del Consiglio di Stato. § 2. Cenni ricostruttivi sul ruolo dell’amministrazione contemporanea.
§ 3. La
legittimazione dei regolamenti delle amministrazioni indipendenti. § 4. Profili processuali: il ricorso proposto da enti
esponenziali di interessi collettivi. Un’ipotesi di
lavoro: verso la risarcibilità dei diritti politici? 5. Qualche conclusione: la disciplina della complessità e il problema
del superamento della concezione “atomistica” di pubblica
amministrazione.
1. Con la
sentenza che si commenta il Consiglio di Stato prende
posizione su di un problema di grande interesse ai fini della ricostruzione del
sistema costituzionale, che infatti è stato al centro di un dibattito non
ancora sopito in seno alla dottrina: quello della legittimazione delle funzioni
regolamentari delle amministrazioni indipendenti.
La
pronunzia riforma un provvedimento del TAR Lombardia (sez. VI, sent. n. 402 del 2005) che aveva rigettato il ricorso proposto
contro un regolamento dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas[1].
Questo poneva a carico di una serie di soggetti l’obbligo di un corrispettivo,
volto a scoraggiare la pratica dei produttori dell’energia a vendere tramite
contratti bilaterali (e non più nel mercato) nelle fasce orarie in cui la
tariffa risultava per loro meno vantaggiosa. Il motivo
di doglianza riguardava la circostanza che i destinatarî dell’obbligo risultavano anche soggetti, quali i grossisti, che non
avevano la possibilità di porre in essere la pratica contestata; e questo
sebbene l’Autorità avesse motivato l’atto impugnato
proprio con la necessità di contrastarne la diffusione.
Nella
sua memoria difensiva l’Avvocatura dello Stato aveva poi integrato tale
motivazione con il rilievo che il regolamento razionalizzava il sistema di
scambio dell’energia, fissandone il valore al costo medio tra le differenti
tariffe orarie, ossia quello che la società Gestore della rete della
trasmissione nazionale s.p.a. “avrebbe sostenuto per approvvigionarsi di energia elettrica nel mercato del giorno prima, se tutta
la produzione fosse stata venduta in borsa. In tal modo, il valore dell’energia
elettrica negoziata per lo scambio è stato ricondotto al valore che assumerebbe
se venisse negoziata nel mercato borsistico”. La
circostanza che l’integrazione della motivazione fosse
successiva all’atto regolamentare impugnato ad avviso del TAR non ne aveva
inficiato la validità, dal momento che dagli obblighi di motivazione e di
garanzia del contraddittorio di cui alla legge sul procedimento amministrativo
sarebbero stati esclusi i regolamenti e gli atti generali.
Come
si è detto, il Consiglio di Stato ha tuttavia espresso
un avviso affatto diverso. Secondo il supremo giudice della giustizia
dell’amministrazione, infatti, “l’esercizio di poteri
regolatorî da parte di Autorità, poste al di fuori
della tradizionale tripartizione dei poteri e al di fuori del circuito di
responsabilità delineato dall’art. 95 della Costituzione, è giustificato anche
in base all’esistenza di un procedimento partecipativo, inteso come strumento
di partecipazione dei soggetti interessati sostitutivo della dialettica propria
delle strutture rappresentative.
In
assenza di responsabilità e di soggezione nei confronti del Governo,
l’indipendenza e neutralità delle Autorità può trovare
un fondamento dal basso, a condizione che siano assicurate le garanzie del
giusto procedimento e che il controllo avvenga poi in sede giurisdizionale”. Il
Consiglio di Stato conclude sul punto richiamandosi ai
principî posti dal diritto comunitario (che come è noto disciplina la maggior
parte dei settori cui i Garanti sono preposti sul piano nazionale) ed
osservando che “nei settori regolati dalle Autorità, in
assenza di un sistema completo e preciso di regole di comportamento con
obblighi e divieti fissati dal legislatore, la caduta del valore della
legalità sostanziale deve essere
compensata, almeno in parte, con un rafforzamento della legalità procedurale,
sotto forma di garanzie del contraddittorio”.
La
pronunzia chiude una “trilogia” di sentenze con cui la Sesta Sezione del
Consiglio di Stato ha affermato (utilizzando la medesima motivazione) il
principio di soggezione dei regolamenti delle autorità
agli obblighi ex artt. 3 e 13 della l. n. 241
del 1990[2]. Questa giurisprudenza, profondamente
innovativa rispetto alla tendenza, diffusa tra i giuristi, a considerare
l’attività normativa come un potere connotato da autorità e non come una
funzione dedita al servizio dei destinatari, era stata peraltro anticipata da
qualche considerazione nello stesso senso[3],
a cui il Supremo Collegio ha voluto espressamente
riferirsi, che chi scrive ha ora l’occasione di puntualizzare meglio.
2. Può
dirsi pacifica l’acquisizione per cui il modello di
Stato sociale di diritto, accolto dalla Carta costituzionale, ha determinato
l’adeguamento ad esso delle funzioni pubbliche che più direttamente erano
preposte alla cura degli interessi giuridicamente tutelati; ossia, le funzioni
amministrative. Senza voler inoltrarsi in ulteriori
approfondimenti, che la quantità e la qualità dei contributi sul punto rendono
in questa sede superflui, si richiameranno semplicemente i risultati a cui tale
ricostruzione del sistema conduce.
In
primo luogo, l’attività pubblica perde la sua connotazione autoritaria per
caratterizzarsi come funzione, finalizzata alla cura degli interessi dei
destinatarî (lo Stato non perciò ha ragioni proprie da imporre, svincolate da
questi)[4].
Tutte le funzioni pubbliche, in quanto tali, misurano la loro legittimità in
ragione dell’idoneità a realizzare le istanze sociali
giuridicamente riconosciute, che diventano il reale parametro dell’efficienza
dell’azione statale[5].
Per
altro verso, l’eterogeneità del tessuto sociale
determina la rilevanza giuridica di una pluralità di interessi confliggenti, tendenzialmente irriducibili ad unità se non
sotto il profilo della necessità di bilanciarli; vale a dire, di fissare la
misura del sacrificio dell’uno rispetto all’altro. Ne deriva l’attrazione di
tutte le funzioni statali su modelli operativi tipici dell’amministrazione:
l’idea della legislazione come attività regolativa generale ed astratta tramonta insieme al codice, il monumento della scienza
giuridica ottocentesca che presupponeva, però, uno Stato omogeneo (o se si
preferisce, monoclasse[6]).
La legge assume un contenuto provvedimentale[7]:
gli atti generali ed astratti sono rari e, in massima parte, hanno una
dimensione settoriale, rivolta all’interesse di categorie determinate più che
all’attuazione di un programma sociale che riguardi la collettività nel suo
complesso. Parimenti, la funzione giurisdizionale, in special
modo la giurisdizione amministrativa, amplia le proprie manifestazioni sino ad
esercitare un vero e proprio ruolo di “continuazione della funzione
amministrativa con altri mezzi”, peraltro riconosciuto e legittimato dall’ordinamento
(si pensi al significato che, in questa prospettiva, ha l’istituto della
consulenza tecnica d’ufficio).
Tutto
questo trasforma in radice le manifestazioni dell’attività della p. a.: esse si
svolgono secondo modelli consensuali, lasciando ai margini il ricorso a
provvedimenti ablatorî. Cresce la tipologia dei servizî pubblici, che toccano praticamente tutti gli aspetti della vita dei cittadini.
L’amministrazione autoritaria, quando è presente, si vede attribuire funzioni
essenzialmente di controllo, in cui il momento ablatorio
è residuale e spesso è sostituito da strumenti operativi alternativi meno
compressivi della autodeterminazione dei privati (si
pensi alla previsione di cui all’art. 11 della legge sul procedimento
amministrativo e, più in generale, alla disciplina posta dal Capo III di essa).
Ovviamente,
anche l’organizzazione amministrativa ha dovuto evolversi per fronteggiare i
nuovi compiti. La struttura dicasteriale, funzionale
alla concezione gerarchica ed autoritaria caratteristica dello stato assoluto
in cui ha visto la luce, è confinata ad una posizione residuale, a vantaggio
delle autonomie locali e di quelle funzionali, più coerenti con l’attività di
prestazione di servizi. Ma anche le funzioni di
controllo vengono via via sottratte – in via di fatto
– alla determinazione dei ministri: l’ordinamento accentua la separazione
dell’amministrazione dalla direzione politica, valorizzando il ruolo della
dirigenza[8]
ma, soprattutto, affidando tali funzioni ad organi non legati (o meglio, meno
legati) al Governo. È il caso, che in questa sede interessa, delle autorità
amministrative indipendenti.
3. Nel contesto che si è ora descritto, è chiaro che occorre
ripensare ai fattori di legittimazione dell’attività amministrativa, quali sono
stati elaborati nel corso dell’esperienza statale e che risultano condizionati,
pertanto, dalla visione “autoritaria” di essa quale affermatasi all’alba dello
Stato moderno.
In
esso, l’amministrazione, o per meglio dire il potere esecutivo, era percepito come momento di
realizzazione della volontà del sovrano, rappresentato dal monarca prima, e
dall’organo rappresentativo poi. Sicché, la
legittimazione dell’amministrazione dipendeva dalla legittimazione della
volontà sovrana. Questa impostazione ha condotto, nello Stato liberale,
all’affermazione del principio di legalità, in cui tale legittimazione
dipendeva dal consenso a priori in ordine alla figura del Parlamento sovrano,
indipendentemente dalle decisioni che esso, una volta al potere, avrebbe poi
assunto: le quali si giustificavano, dal punto di vista giuridico,
semplicemente perché prese da un’autorità riconosciuta come legittima. Si è
osservato[9]
che questa concezione, apparentemente democratica, risultava
in realtà profondamente oligarchica perché in quel contesto storico le
assemblee elettive erano legittimate da una parte minima del Paese, ed
esprimevano in via pressoché esclusiva gli interessi di essa. La centralità
della legge, e per essa la centralità del Parlamento,
risultava, in altri termini, funzionale ad un sistema in cui solo ad alcune
istanze sociali era riconosciuta la possibilità di acquistare rilevanza
giuridica.
Questo
modello è entrato in crisi, come è noto, quando si è
affermato il principio per cui a tutti gli interessi sociali potevano costituire
oggetto di cura da parte dell’autorità pubblica. Questo ha spostato il
baricentro del sistema dal Parlamento all’amministrazione, perché l’organo
rappresentativo, non più omogeneo, male riusciva ad individuare ed a tutelare
le istanze che di volta in volta emergevano dal magma
della popolazione. Sicché, nella stagione del passaggio dallo Stato di diritto
allo Stato sociale si affermò l’opinione per cui le
funzioni amministrative dovevano perdere l’originario legame con l’atto del
Parlamento, radicandosi direttamente nelle posizioni soggettive riconosciute
non più dalla legge, ma dalla Costituzione[10].
Poiché,
però, tali situazioni giuridiche risultano
tendenzialmente confliggenti, perché espressione di
una società eterogenea, la legittimazione non può risolversi in un a priori, ma va misurata di volta in volta in ordine al
conflitto tra gli interessi coinvolti dalla determinazione pubblica.
Quest’ultima si giustifica, dunque, sul piano fenomenico quando scaturisce da
un procedimento in cui hanno trovato ingresso (almeno tendenzialmente) tutte le
istanze in gioco, e sul piano decisorio quando abbia
garantito che il prevalere di alcune di esse non si sia spinto fino alla
negazione totale di altre, parimenti meritevoli di tutela[11].
Il procedimento è dunque concepito come un sistema sociale di azioni particolari, in cui il conflitto è
disciplinato dall’ordinamento e contestualizzato al
fatto da regolare[12].
La legittimità della misura regolativa, per altro verso, non è suscettibile di
valutazione in astratto, ma richiede una valutazione in concreto che può discendere soltanto dal procedimento
stesso, perché è al suo interno che si determina la legittima compressione
degli interessi coinvolti. Il passaggio della legittimazione dal consenso a priori al procedimento coinvolge, del resto, tutte le
funzioni pubbliche, compresa quella legislativa; come del resto riconosce anche
la dottrina contemporanea ancorata all’impostazione classica della centralità
della legge[13].
Il risultato è che l’autorità
(amministrativa) decidente si trova investita della responsabilità del
componimento, nel caso specifico, del conflitto sociale, da effettuarsi
in ragione del quadro normativo (si ribadisce, in primo luogo costituzionale)
di riferimento e delle peculiarità del caso specifico che è chiamata a
disciplinare. Ed è una responsabilità – in senso lato – politica, non solo nel
senso che essa coinvolge i meccanismi propri della forma di governo volti a
farla valere[14],
ma anche (e soprattutto) nella sua accezione sociale,
come potere di attivazione da parte dei destinatarî
della decisione stessa degli strumenti (strettamente politici, come nel caso
delle elezioni comunali, ma anche giuridici, come meglio si vedrà) che
l’ordinamento riconosce per reprimere gli abusi dell’autorità che male ha
deciso.
Ne
deriva, per i profili che in questa sede interessano, che le riserve relative alla legittimità costituzionale delle
amministrazioni indipendenti[15],
svincolate dal sistema rappresentativo costituito dal raccordo di
maggioranza Parlamento – Governo,
possono essere superate – ed è la tesi accolta dalla pronunzia che qui si
commenta – valorizzando il momento procedimentale,
sotto due profili: quello della partecipazione degli interessati e quello della
motivazione dell’atto terminale, che dà conto delle ragioni di fatto e di
diritto che hanno spinto l’Autorità a privilegiare taluni interessi. Peraltro,
è una considerazione di carattere generale, tale da non ammettere
discriminazioni tra l’attività provvedimentale e
quella regolamentare. E questo, in primo luogo, per ragioni di ricostruzione dommatica del fenomeno: come visto, la regolazione,
ancorché generale, risulta sempre settoriale,
riconducibile ad interessi sociali determinati e, pertanto, svincolata dal
legame con la società nel suo complesso (che in sé, in un sistema sociale non
omogeneo, è una pura astrazione). Per altro verso, sul piano del diritto positivo, l’esclusione, da parte degli rtt.
3, co. II e 13, co. I della l. n. 241 del 1990, dell’obbligo di motivazione e
di partecipazione, devono essere interpretati restrittivamente,
tali da riferirsi ai soli regolamenti del Governo: infatti, sotto un primo
profilo, si tratta di normativa speciale (in quanto posta in deroga a principî
espressamente qualificati come generali) insuscettibile
di applicazione generalizzata e, per altro verso,
l’aprioristica legittimazione democratico-rappresentativa,
che per previsione costituzionale è riconosciuta al Governo, non può essere
attribuita anche alle autorità indipendenti che si collocano al di fuori del
modello di amministrazione statale ex artt. 95 e
97 Cost.
La
tesi della legittimazione attraverso il procedimento non ha trovato in dottrina
unità di consensi. Si è contestato, in particolare, che la procedimentalizzazione
delle funzioni ad esse attribuite alla stregua dei
principî del contraddittorio e della motivazione possano avere un effetto
legittimante perché essi sono posti anche in riferimento ad altri modelli
amministrativi[16].
L’obiezione però cade di fronte alla considerazione che tali obblighi procedimentali esplicano verso le
Autorità un’efficacia legittimante non diversamente che per le altre
amministrazioni, con la sola differenza che per queste ultime le forme della
democrazia partecipativa coesistono con quelle della democrazia rappresentativa.
L’opinione per cui la partecipazione costituisce una
limitazione dell’autorità pubblica e non una sua legittimazione[17]
si risolve in una petizione di principio, perché le due categorie sono
contigue: la rappresentanza parlamentare sorse come forma di limitazione del
potere esecutivo ma ne costituì, al contempo, il fattore di legittimazione
(come dimostra il citato principio di legalità). Altro è il problema
dell’effettiva parità tra le istanze che intervengono
nel procedimento, tale da impedire che l’Autorità privilegi gli interessi forti
a danno degli altri[18]
(problema che, del resto, si ripropone anche a proposito degli atti legislativi[19]).
Questa questione è collegata all’esame dei rimedî giuridici posti a tutela
delle situazioni soggettive coinvolte dall’azione dell’autorità, a cui per il
momento si rinvia.
Neppure
può essere accolta la considerazione per cui “la
partecipazione funzionale non ha la capacità di sintetizzare le aspirazioni
comuni degli uomini in un sistema di valori capaci di orientare le future
scelte normative”[20],
perché la visione illuministica di un interesse pubblico generale, che
l’obiezione in esame presuppone, è stata superata dall’incapacità dello Stato
pluriclasse di esprimere un interesse unitario: si è osservato che, per conseguenza,
la concezione unitaria di politica si è diluita in una pluralità di politiche
settoriali, volte al bilanciamento di interessi configgenti in ambiti
determinati[21];
sicché, l’interesse pubblico perde qualsivoglia autonomia definitoria
e si identifica con la risultante degli interessi settoriali che, di volta in
volta, vengono coinvolti dai singoli atti di regolazione. La tesi in esame ha, tuttavia, il pregio di fissare l’attenzione sulla questione di
una concezione eccessivamente parcellizzata di pubblica amministrazione, tale
da rendere inconfigurabile una visione unitaria che,
in definitiva, rischia di tralasciare determinati interessi
giuridicamente rilevanti espressi da soggetti pubblici diversi dall’autorità
procedente. Il problema è reale e sarà affrontato nelle conclusioni.
Per
terminare sul punto: gli schemi della democrazia partecipativa e di quella
rappresentativa sono entrambi riferibili all’amministrazione dicasteriale, per cui la
responsabilità sociale cui il primo modello si lega può subire attenuazioni (ad
esempio, a proposito del contraddittorio e della motivazione degli atti
regolamentari) in quanto compensato dai meccanismi di responsabilità politica
del secondo. Quanto alle autorità indipendenti, però, questi ultimi non sono
configurabili; ne deriva che esse traggono la propria legittimazione sistemica
solo attraverso la partecipazione degli amministrati, che deve quindi essere
intesa nella sua accezione più piena per quanto concerne il regime degli atti, provvedimentali o regolamentari che siano, di tali
strutture.
4. La
responsabilità sociale delle amministrazioni indipendenti deve, naturalmente, esplicarsi secondo un modello non ragguagliabile alla
responsabilità politica, dal momento che i destinatarî dell’attività regolativa non hanno modo di esprimere alcuna forma di
gradimento né sui titolari dell’ufficio né sulle singole misure. In realtà,
come si è visto, si tratta di una forma di responsabilità che si misura sulla
base della capacità dei Garanti di tutelare interessi
concreti; sicché, essa dovrà necessariamente esser fatta valere in
funzione di essi.
Ne
deriva che la repressione in via giurisdizionale (a cui, peraltro, l’obbligo di
motivazione sembra strumentale) costituisce la forma di tutela che meglio
garantisce l’effettività del contraddittorio, perché attraverso il giudice gli amministrati possono far valere le posizioni
soggettive che sono state trascurate contra jus
dalle autorità indipendenti. La tutela giurisdizionale si pone
dunque come un momento ineludibile non soltanto per espressa previsione
costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), ma anche per assicurare che le forme
attraverso cui l’azione delle autorità trae la propria legittimazione siano
state rispettate. Peraltro, l’intervento di un organo terzo ed imparziale garantisce
gli interessi deboli contro quelli forti, qualora
questi ultimi fossero illecitamente privilegiati in seno al contraddittorio
innanzi all’autorità procedente. In questa ricostruzione, il sindacato del
giudice non costituisce un fattore di legittimazione delle Autorità, ma una
garanzia affinché gli interessi espressi dalla società civile filtrino nella
regolazione indipendentemente dal peso politico o economico dei loro titolari.
L’intervento
del giudice della giustizia dell’amministrazione era stato proposto come
momento necessario del procedimento di formazione dei regolamenti delle
autorità indipendenti nello scritto che si è già avuto
occasione di richiamare[22].
In quella sede, si suggeriva l’applicazione analogica dell’art. 17, co. III,
della l. n. 400 del 1988 ai regolamenti dei Garanti nella
parte in cui la norma dispone il parere del Consiglio di Stato. Era
parso che l’intervento di esso in sede consultiva
(oltre che, eventualmente, in sede giurisdizionale) potesse garantire un
giudizio più sereno in ordine alla corretta ponderazione degli interessi
sociali in riferimento alla misura regolativa, essendo l’esame del Supremo
Giudice dell’amministrazione svincolato da prospettazioni
parziali. Non può che prendersi atto della circostanza che quella proposta
interpretativa è rimasta senza alcun seguito; sicché, l’intervento in via
giurisdizionale resta l’unica forma in cui il sistema consente al giudice
amministrativo di conoscere della legittimità dei
regolamenti delle Autorità.
Si
tratta, ovviamente, di un sindacato diverso, perché il TAR o il Consiglio di
Stato non giudicheranno più dell’astratta
legittimazione del regolamento, ma degli eventuali diritti dei ricorrenti in
concreto violati. L’esigenza sistemica di legittimazione dell’autorità pubblica
viene, dunque, filtrata dall’interesse concreto leso dall’atto impugnato.
Quest’ultimo, tuttavia, potrebbe non essere necessariamente incarnato da una
persona fisica.
Come è noto,
la partecipazione al procedimento amministrativo è riconosciuta anche agli enti
portatori di interessi superindividuali; e la tendenza legislativa più recente
(ad esempio in materia di ambiente o di diritti dei consumatori) è nel senso di
ampliare le possibilità di azione in giudizio ad essi riconosciuta. Le
associazioni titolari di interessi collettivi hanno
dunque parimenti titolo che le persone fisiche ad adire il giudice
amministrativo, qualora ritengano che gli interessi che esse rappresentano non
siano stati tenuti in debito conto in sede di procedimento. Ne consegue che
esse vantano un interesse qualificato ad agire avverso le misure regolative che ritengano aver violato i principî di
partecipazione e di motivazione. Si tratta, ovviamente, di un interesse diverso
da quello delle persone fisiche, perché potrebbe non radicarsi in un bene della
vita determinato, ma in un valore considerato nella sua oggettività (p. es. l’ambiente); in questa ipotesi, dunque, la giurisdizione
amministrativa, che è di diritto soggettivo perché strumentale all’attuazione
di diritti ed interessi storicamente determinati, riacquista parte del
carattere oggettivo che l’ha connotata (e ad avviso di alcuni, la connota tutt’ora) al suo sorgere.
Se
la questione dei soggetti legittimati ad agire risulta
agevolmente risolvibile allo stato delle acquisizioni attuali della scienza del
diritto amministrativo, il ricorso contro i regolamenti delle autorità
indipendenti pone alcuni problemi processuali ulteriori nell’ipotesi di ricorso
da parte di enti esponenziali.
Sotto
un primo profilo, potrebbe sorgere il dubbio in ordine all’applicabilità
dell’art. 21 octies, co. II, alla fattispecie in esame, nella parte in cui
esclude che la violazione delle regole sul procedimento o sulla forma degli
atti amministrativi ne determini l’annullabilità qualora gli atti stessi siano
vincolati o qualora l’amministrazione procedente dimostri che il contenuto “non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Si tratta di un
falso problema, perché di alcuna rilevanza pratica:
l’ampiezza della discrezionalità lasciata alle autorità indipendenti quanto
all’emanazione dei loro regolamenti lascia a priori
insoddisfatta la premessa per cui l’atto emanato in violazione delle norme
sulla partecipazione o sulla motivazione non potrebbe essere impugnato. In ogni
caso, per ragionare accademicamente, la norma in esame sembrerebbe
inapplicabile ai regolamenti delle autorità indipendenti per molteplici
ragioni.
In primo luogo, perché in quanto
norma speciale dovrebbe essere oggetto di interpretazione
restrittiva: ossia, sembrerebbe da circoscriversi al solo modello di
amministrazione dicasteriale. Inoltre, perché rendere
de facto inoperante la partecipazione,
ossia la sola via per legittimare l’azione delle Autorità, renderebbe la norma
costituzionalmente illegittima per violazione del principio democratico;
sicché, l’obbligo di interpretazione conforme alla
Costituzione costringe l’interprete ad escludere l’applicazione della norma in
esame agli atti delle autorità indipendenti. In terzo luogo, se si accoglie la tesi, fatta propria dal Consiglio di Stato[23],
per cui il comma II dell’art. 21 octies
opera sul piano processuale individuando un’ipotesi di insussistenza di
interesse ad agire (perché il ricorrente non otterrebbe alcuna concreta utilità
dall’annullamento di un atto che l’amministrazione fosse costretta a rinnovare
negli stessi contenuti dopo la conclusione del processo), la norma risulterà in
radice non applicabile alla fattispecie in esame perché ciò che il ricorrente
lamenta (quanto meno nell’ipotesi che si sta considerando in cui la domanda è
proposta da enti esponenziali di interessi collettivi) è la lesione del
contraddittorio in quanto tale, in quanto non gli
è stata data la possibilità di dare ingresso ad un interesse sociale
giuridicamente tutelato nel procedimento di formazione del regolamento; ciò che
esclude, appunto, la legittimazione sociale di quest’ultimo.
Tale
rilievo introduce l’ulteriore questione della natura
dell’interesse ad agire contro i regolamenti dei Garanti che abbiano violato
l’obbligo di motivazione e del contraddittorio. Come è
noto, la giurisprudenza amministrativa ha distinto tra regolamenti
immediatamente lesivi e non immediatamente lesivi, prevedendo la possibilità di
impugnare solo i primi e rinviando i gravami avverso ai secondi all’emanazione
di un provvedimento applicativo. Senza voler entrare nel merito della
distinzione (su cui, peraltro, potrebbero avanzarsi dubbî in
ordine ai criterî per ricondurre un atto generale all’una o all’altra
categoria), si osserverà che l’aggressione ad una posizione soggettiva è
suscettibile di essere perpetrata da un atto puntuale solo quando essa si
rivolga ad un bene concreto, minacciato dal provvedimento. Quando
l’interesse inerisce ad un valore oggettivo, astrattamente considerato, è la
misura regolativa che lo trascura a determinarne ipso facto la
lesione. Ne deriva che quando un ente esponenziale lamenta la lesione del
contraddittorio perché in ragione di ciò l’autorità procedente ha pretermesso la presa in considerazione dell’interesse
superindividuale di cui è portatore, l’interesse ad agire è in re ipsa, essendo ininfluente per la sua sussistenza la circostanza della contestualizzazione
storica in questo o in quel bene.
Un
ultimo problema concerne le azioni esperibili. Nessun dubbio
che gli enti esponenziali possano agire per l’annullamento del regolamento
viziato per violazione dell’obbligo di contraddittorio o di motivazione.
Non sembrerebbe, invece, compatibile con l’esigenza di tutelare l’interesse
sociale che essi esprimono la proposizione di un’azione di mero accertamento (nonché, ove la si ritiene ammissibile, di un’azione che
presuppone la disapplicazione del regolamento e non
anche il suo annullamento). Come si è detto, l’associazione ha un interesse ad
agire peculiare rispetto a quello delle persone fisiche, giustificato dalla
pretesa che l’ordinamento curi l’interesse medesimo. L’accertamento,
o la disapplicazione, non influendo sulla vigenza della misura regolativa,
frustrano tale obiettivo, perché consentono la permanenza nel sistema di una
misura regolativa in ipotesi adottata senza considerare adeguatamente tale
interesse. In altri termini: o l’associazione ricorre per espungere la
misura illegittima dal sistema, o non ha alcun interesse ad
adire il giudice, che pertanto dovrebbe dichiarare irricevibile il ricorso non
finalizzato all’annullamento.
Altro
è il problema se l’ente, domandando l’annullamento del regolamento per lesione
del principio del giusto procedimento, possa
contestualmente chiedere anche il risarcimento del danno derivante dalla sua
estromissione dalla procedura. Si tratta, cioè, di
verificare se l’interesse alla partecipazione è risarcibile.
Una
recente opinione, fatta propria dalla giurisprudenza[24],
richiamandosi al sistema civilistico delle obbligazioni extracontrattuali, ha
ritenuto risarcibili gli interessi legittimi che, prescindendo dall’eventuale
utilità finale a cui il titolare aspira, derivano dall’affidamento obiettivo
nella condotta della pubblica amministrazione conforme all’ordinamento; si
tratta, in altri termini, di una responsabilità derivante dal “contatto
sociale” dell’amministrazione, che ha frustrato le aspettative
dei soggetti a che l’autorità avrebbe agito secondo le norme che ne
disciplinano l’azione (e, dunque, secondo le regole della partecipazione e
della motivazione). Il danno deriva, cioè, dalla
responsabilità sociale per l’inadempimento di obblighi che riposano su un
obiettivo affidamento circa l’operato dell’amministrazione[25];
il risarcimento è dovuto, in altri termini, in ragione della sola circostanza
che l’autorità pubblica abbia violato le regole procedimentali che la vincolano[26].
Ne
consegue che se la responsabilità discende dalla delusione delle aspettative sociali giuridicamente tutelate, l’interesse
degli enti esponenziali al contraddittorio in sede di formazione delle fonti
secondarie adottate dalle autorità indipendenti è risarcibile[27].
Quest’ultima
conclusione, peraltro, sembra determinare suggestioni assai più ampie rispetto
al contesto a cui si riferiscono, nella prospettiva
dell’evoluzione del sistema della responsabilità dei soggetti pubblici. In
particolare, se la partecipazione configura una posizione soggettiva attraverso
cui il cittadino può concorrere alla determinazione dell’azione pubblica (e
nella fattispecie oggetto della presente indagine, di una funzione normativa),
in quanto connessa allo status activae
civitatis essa possiede natura di diritto
politico, secondo la definizione comunemente accolta di tale categoria. Il
rapporto tra la persona e l’amministrazione, del resto, era
già stato pacificamente inquadrato tra i diritti politici a proposito della
possibilità di ricoprire pubblici ufficî (art. 51); sicché, se l’aspirazione ad
esercitare una pubblica funzione rappresenta un diritto politico, sembrerebbe
di dover concludere che analoga natura possiede la partecipazione alla funzione
stessa. Ora, la circostanza che la dottrina e la giurisprudenza abbiano ammesso
la responsabilità giuridica per lesione di un diritto politico, significa né
più né meno che tali posizioni soggettive, quando illegittimamente violate,
sono risarcibili. In altri termini, sussiste
responsabilità aquiliana derivante dalla turbativa di
una corretta partecipazione del cittadino all’azione pubblica. Se questa ipotesi fosse verificata, si aprirebbero scenarî
assolutamente inesplorati, in cui potrebbe, ad esempio, ipotizzarsi la
responsabilità per le promesse elettorali non mantenute (che hanno,
evidentemente, falsato la volontà degli elettori impedendo loro una
partecipazione cosciente e consapevole alla formazione dell’organo elettivo di
volta in volta considerato). Si tratta, tuttavia, di un’intuizione che
richiederebbe uno sforzo di approfondimento ben più
ampio rispetto a quello che potrebbe essere compiuto in questa sede.
5. Un
illustre Maestro della scuola italiana di filosofia del
diritto[28]
distinse tra due diversi modi di intendere il fenomeno giuridico. Da un canto,
vi era la visione romana, essenzialmente tesa alla conservazione
dell’esistente e dei rapporti di forza tra gli attori sociali (le gentes, i patrizi e i
plebei, i liberi e gli schiavi, ecc.). Si trattava di una
concezione atomistica, concentrata sui singoli rapporti e sugli interessi che
di volta in volta, in ciascuna delle fattispecie considerate, venivano
in rilievo come meritevoli di tutela. Dall’altro, vi era la concezione
giuridica cristiana, che abbracciava il complesso
della società e dei rapporti da essa espressi, e che
era tesa alla realizzazione di un programma sociale fondato sulla carità
(ossia, in termini più giuridicamente ortodossi, sulla solidarietà tesa
all’eguaglianza sociale).
Non
pare dubbio che, se si accoglie tale distinzione, l’ordinamento italiano
contemporaneo è assai più simile alla seconda concezione che alla prima, in
ragione degli obiettivi di integrazione sociale e di
uguaglianza (la “rivoluzione promessa” di Calamandrei)
posti dalla Carta costituzionale. Sicché, nelle dottrine che negano la
legittimazione dei regolamenti delle autorità indipendenti attraverso il giusto
procedimento c’è una grossa parte di vero: questo tipo
di legittimazione presuppone una serie di interessi egoistici, spesso in
conflitto, tale che l’attività di composizione tra essi rischia di concentrarsi
sulle sole situazioni soggettive rappresentate nel procedimento stesso dai
privati o dagli enti esponenziali, trascurando l’attuazione del programma
costituzionale e i valori che, parimenti meritevoli di tutela, non hanno
tuttavia trovato un interesse concreto che se ne sia fatto mallevadore[29].
Si
pone dunque il problema di assicurare una visione assiologica
globale, ispirata all’unitaria tavola di valori
costituzionali ed alla sua realizzazione. Come visto, alcuni studiosi hanno
creduto che questo obiettivo potesse essere perseguito
teorizzando un ruolo significativo per il principio di legalità quale fonte di
legittimazione della funzione regolamentare dei Garanti, ma è una conclusione
non condivisibile: come efficacemente dimostrato[30],
in un sistema sociale pluralistico ed altamente polarizzato, quale è quello
italiano, anche la legge è strumento di lotta politica e di prosecuzione del
conflitto sociale, ed esprime, di conseguenza, solo gli interessi che siano
usciti vittoriosi dal confronto elettorale. Sicché, anch’essa è un atto
storicamente determinato, privo di respiro globale e
legato solo a determinate istanze. Seppure si volesse
ancorare la legittimazione delle funzioni normative delle autorità indipendenti
alla legge, ciò non assicurerebbe la presa in considerazione di tutti gli
interessi che la
Costituzione riconosce come meritevoli di tutela.
In
realtà, anche in questo caso la concezione del procedimento come elemento di
legittimazione dell’azione amministrativa offre alcune
soluzioni che consentono di recuperare, sul piano formale, la visione
complessiva dei valori coinvolti che il sistema costituzionale presuppone.
Una
dottrina particolarmente attenta all’amministrazione delle società complesse ha
vigorosamente sottolineato le potenzialità che, al
riguardo, presenta l’istituto della conferenza di servizî[31].
L’istituto esprime il principio per cui l’azione
amministrativa è tesa a coinvolgere contestualmente tutti i centri decisionali
pubblici amministrativi preposti alla cura degli interessi coinvolti, rompendo
lo schema classico della “solitudine dell’organo decidente”[32].
La conferenza di servizî sposta nel procedimento l’istanza
di tutela degli interessi pubblici che lo Stato liberale aveva attribuito alla
mera legalità; ne deriva il legame di tale soluzione organizzativa con lo
statuto costituzionale dell’attività amministrativa, ossia il suo carattere
immanente nella disciplina del procedimento e, per conseguenza, degli atti (provvedimentali e regolamentari) che da esso scaturiscono.
Ne
deriva che, per i profili che in questa sede interessano, la forma dei
regolamenti delle amministrazioni indipendenti può essere dedotta non soltanto
applicando il Capo III della legge sul procedimento, ma anche il successivo
Capo IV. Non è un’ipotesi arbitraria: l’ampia formulazione della disposizione ex art. 14 della legge citata (“Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di varî interessi pubblici
coinvolti in un procedimento amministrativo…”) ne consente l’estensione
dell’ambito di operatività non soltanto ai provvedimenti, ma altresì agli atti
regolamentari.
È,
questa, una proposta interpretativa che fa salva la legittimazione sociale dei
regolamenti dei Garanti attraverso la partecipazione e, al contempo, assicura
la considerazione onnicomprensiva degli interessi pubblici, in particolare quando espressi da norme di rango costituzionale:
si pensi alle potenzialità che l’istituto offre quando le fonti secondarie
delle Autorità incidano, ad esempio, sulle competenze riconosciute alle Regioni
e agli enti locali[33].
In questo modo, può delinearsi un modello di
amministrazione con una forte vocazione democratica, che pur togliendo qualche
mattone al muro dell’autorità pubblica ne fa salva, tuttavia, la missione di
offrire tutela ai valori ed alle istanze, complessivamente considerati, che
essa è chiamata a tutelare.
( * ) Ricercatore di Istituzioni
di diritto pubblico presso l’ Università degli Studî di Foggia.
[1] Deliberazione n. 122 del
2004, che modifica la precedente deliberazione n. 48 del 2004.
[2] Le altre due pronunzie sono
la n. 2007 dell’11 aprile 2006, e la n. 2201 del 20
aprile 2006. Il principio è affermato, peraltro, anche dalla Sezione Consultiva
del Consiglio di Stato (parere n. 335 del 6 febbraio 2006).
Occorre ricordare che anche la Corte costituzionale ha
legittimato l’attività delle amministrazioni indipendenti (in verità, senza
riferirsi espressamente alle funzioni normative) attraverso i principî di
partecipazione e di obbligo di motivazione: C. cost., sent. n.
57 del 1995.
[3] R. Manfrellotti, Poteri normativi del garante per le telecomunicazioni
e tendenze della giurisprudenza costituzionale, in I rapporti tra Parlamento e Governo
attraverso le fonti del diritto, a cura di V. Cocozza – S. Staiano, II, Napoli, 2001, pp. 995
ss.
[4] L. Duguit, Il servizio
pubblico: perché scompare il sistema di diritto pubblico fondato sulla nozione
di puissance publique?, in Id., Le trasformazioni dello
Stato, a cura di A. Barbera –
C. Taralli – M. Panarari, Torino, 2003, pp.
249 ss.
[5] L. Iannotta, Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative,
in Principio di legalità e amministrazione dei
risultati, a cura di M.
Immordino – A. Police,
Torino, 2004, pp. 453 ss.
[6] Secondo la celebre
terminologia di M. S. Giannini, Diritto amministrativo, I, Milano,
1993, pp. 48 ss.
[7] Recentemente si veda, sul
punto, l’accurata indagine di S. Spuntarelli, L’amministrazione per
legge, Milano, 2007, pp. 1 ss. (nonché, più
dettagliatamente, pp. 125 ss.).
[8] Ampiamente, A. Patroni Griffi,
Dimensione costituzionale e modelli legislativi
della dirigenza pubblica, Napoli, 2001, pp. 25 ss.
[9] M. S. Giannini, Prefazione a G. Burdeau, Il regime
parlamentare nelle costituzioni europee del dopoguerra, tr. it. di S. Cotta, Milano, 1950, pp. III ss.
[10] E. Forsthoff, Traité de droit administratif allemand,
tr. fr. a cura di M. Fromont,
Bruxelles, 1969, pp. 127 ss. Per la dottrina italiana si veda, in espresso riferimento
alla funzione regolamentare, N. Lupo,
Dalla legge al regolamento, Bologna,
2003, pp. 430 ss.
[11] N. Luhmann, Procedimenti
giuridici e legittimazione sociale, tr. it.
a cura di A. Febbrajo, Milano, 1995, pp. 19 ss.
[12] Ancora N. Luhmann, Procedimenti
giuridici e legittimazione sociale, cit.,
pp. 31 ss.
[13] Da ultima, M. P. Iadicicco, La riserva di legge nelle dinamiche di
trasformazione dell’ordinamento interno e comunitario, Torino, 2006,
pp. 33 ss.
[14] In primo
luogo, concessione o revoca della fiducia, ossia della legittimazione a priori ad operare riconosciuta all’amministrazione dicasteriale (peraltro
solo uno dei possibili modelli, come visto oggi residuale).
[15] M. Manetti, Poteri neutrali e Costituzione, Milano,
1994, pp. 146 ss.; S. Niccolai, I poteri garanti della
Costituzione e le autorità indipendenti, Pisa, 1996, pp. 240 ss.
[16] M. Cuniberti, Autorità indipendenti e libertà costituzionali,
Milano, 2007, pp. 418 ss.; G. Grasso,
Le autorità amministrative indipendenti
della Repubblica, Milano, 2006, pp. 80 ss.
[17] M. Cuniberti, Autorità indipendenti e libertà costituzionali,
cit., p. 431.
[18] G. Grasso, Le autorità
amministrative indipendenti della Repubblica, cit.,
pp. 93 ss.
[19] F. Pugliese, Nozione di
controinteressato e modelli di processo amministrativo, Napoli,
1989, pp. 141 ss.
[20] G. De Minico, Regole .Comando e consenso,
Torino, 2004, p. 63.
[21] Per tutti, C. P. Guarini, Contributo allo studio della regolazione “indipendente” del mercato,
Bari, 2005, pp. 215 ss., che coerentemente deduce il
principio per cui questo tipo di regolazione presuppone un’autorità procedente
non influenzabile dagli interessi settoriali.
[22] R. Manfrellotti, Poteri normativi,
cit., p. 1003.
[23] Cons. St., sez.
VI, sent. 16
maggio 2006, n. 2763; Cons. St., sez. VI, sent. 7
luglio 2006, n. 4307. Contra,
tuttavia, nel senso della natura sostanziale e non meramente processuale
dell’art. 21 octies,
co. II, Cons. St., sez. V, sent. 20 marzo 2007, n.
7307.
[24] R. Garofoli, Natura della
responsabilità della p.a.,
presupposti oggettivi e tecniche di quantificazione, in Trattato di giustizia amministrativa, a cura di F. Caringella –
R. Garofoli,
vol. II, Le tecniche di tutela nel processo amministrativo,
Milano, 2006, pp. 304 ss. e pp. 312 ss. per un accurato esame delle pronunzie
più significative.
[25] Sul
problema dell’affidamento, F. Merusi, Buona fede e affidamento
nel diritto pubblico, Milano, 2001, passim.
[26] S. Cattaneo, Responsabilità per
“contatto” e risarcimento per lesione di interessi
legittimi, in Urb. App.,
2001, pp. 1226 ss.; V. Molaschi, responsabilità
extracontrattuale, responsabilità precontrattuale e responsabilità da contatto:
la disgregazione dei modelli di responsabilità della pubblica amministrazione,
in Foro it., 2002, III, pp. 9 ss.
[27] Ciò non esclude, peraltro, la
possibilità di configurare ulteriori forme di
responsabilità, p. es. quella derivante dal “danno
all’immagine” che una determinata associazione particolarmente rappresentativa
potrebbe subire per non aver potuto difendere l’interesse sociale che esprime.
[28] G. Capograssi, Saggio sullo
Stato, in Opere, I, Milano, 1959, pp. 120 ss.
[29] La sussistenza di un “interesse regolativo in senso obiettivo” è affermata, con
ampiezza di argomentazioni, da C. P. Guarini, Contributo allo studio della regolazione “indipendente” del mercato,
cit., in part. p. 226.
[30] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992,
pp. 45 ss.
[31] D. D’Orsogna, Conferenza di servizî e amministrazione della complessità,
Torino, 2002, pp. 37 ss.
[32] L’ espressione è di F. G. Scoca, Il coordinamento e la comparazione degli interessi nel procedimento
amministrativo, in Convivenza nella libertà. Scritti in onore di G. Abbamonte, II, Napoli, 1999, p. 1268.
[33] Ma si pensi anche
all’ipotesi, tutt’altro che astratta, in cui il regolamento sia suscettibile di
intersecare le competenza di una o più autorità
indipendenti diverse dalla procedente.