Unioni omosessuali: no a discriminazioni sul trattamento pensionistico
La Corte di Giustizia, facendo leva sul principio di parità di trattamento e sul divieto di discriminazione fondato sulle tendenze sessuali in materia di occupazione e lavoro, ha statuito un’equiparazione tra la pensione complementare di vecchiaia percepita da un soggetto coniugato e quella di colui che ha contratto un’unione civile, quando lo Stato membro abbia legittimato, mediante registrazione, l’unione per coppie del medesimo sesso.
Il cittadino ha inoltre facoltà di invocare la disciplina contenuta in una direttiva UE, per il primato di tale diritto, senza attendere che il legislatore interno abbia posto in essere il relativo adattamento e sia scaduto il termine impartito allo Stato membro per la trasposizione.
Il Sig. Romer aveva lavorato per un ente pubblico territoriale dal 1950 al 1990, anno in cui era sopraggiunto uno stato di incapacità lavorativa. Nell’anno 2001 contraeva un’unione civile registrata col proprio compagno e provvedeva a comunicare il nuovo status civile all’ex datore di lavoro, contestualmente chiedendo che la pensione complementare di vecchiaia fosse ricalcolata tenendo conto della deduzione più vantaggiosa per il soggetto d’imposta. Il datore di lavoro replicava che il calcolo prospettato fosse riservato dalla legislazione ai soggetti sposati e non stabilmente separati. Presso l’adita giustizia l’ex prestatore di lavoro sosteneva che il principio sotteso alla disposizione del “beneficiario coniugato e non stabilmente separato” fosse applicabile anche a coloro che avessero contratto unioni civili registrate, in conformità alla normativa interna vigente, invocando il principio di parità di trattamento di cui alla direttiva 2000/78. Il Tribunale del lavoro di Amburgo nel 2008 sospendeva il procedimento formulando, e rimettendo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ben sette questioni pregiudiziali.
Tra le argomentazioni, la Corte di Giustizia rammenta che la legislazione in materia di stato civile appartiene ai singoli Stati membri ed evidenzia che la direttiva 2000/78 si pone quale obiettivo quello di contrastare, in materia di occupazione e di lavoro, anche le discriminazioni fondate su tendenze sessuali, per rendere effettivo negli Stati membri il principio di parità di trattamento. In particolare, ai sensi della citata direttiva, la parità di trattamento consiste nell’assenza di ogni discriminazione diretta o indiretta e ricorre la fattispecie relativa alla discriminazione “diretta” quando un soggetto viene tratto con minor favore, rispetto ad un altro, in una situazione non uguale bensì “paragonabile”. La Corte ricorda che dal 2001 la Repubblica federale tedesca ha istituito l’unione civile registrata per i partner dello stesso sesso e che nel 2004 è stata emanata una legge che, anche sotto il profilo del diritto alla pensione di reversibilità, uniforma l’unione civile al matrimonio. Il dovere reciproco dei partner dell’unione civile a contribuire, anche col proprio lavoro, alla comunità partenariale, sussiste anche in capo ai coniugi all’interno della famiglia. Inoltre viene rilevato che all’ex prestatore di lavoro sarebbe stata calcolata la pensione complementare di vecchiaia in modo più favorevole se egli fosse stato coniugato, anziché partner in un’unione civile registrata, subendo pertanto un trattamento di minor favore ancorato al dato concernente la propria tendenza sessuale. In ordine al diritto del singolo di chiedere l’applicazione del principio alla parità di trattamento contenuto nella direttiva 2000/78, la Corte ha statuito che questo risultava attivabile a decorrere dal 3 dicembre 2003, scadenza del termine di trasposizione della direttiva nel diritto interno, senza aspettare che il legislatore interno avesse reso la legislazione conforme al diritto comunitario.
La direttiva n. 2000/78 sulla parità di trattamento in ambito di occupazione e condizioni di lavoro deve essere interpretata nel senso che non sono escluse dalla propria applicazione le pensioni complementari di vecchiaia oggetto del ricorso principale: siffatta direttiva si rende quale ostacolo di un’eventuale normativa interna degli Stati membri, come quella tedesca citata nel giudizio principale, dove un beneficiario partner di una unione civile registrata percepisce una pensione complementare di vecchiaia inferiore rispetto a quella percepita da un soggetto sposato. Ciò a condizione che nello Stato membro il matrimonio sia riservato a soggetti di sesso diverso e coesista ad un’unione civile, come quella prevista in Germania, nonché sussista una discriminazione diretta basata sulle tendenze sessuali poiché, per quanto concerne la pensione di vecchiaia, il partner si trova in una condizione di fatto e di diritto paragonabile a quella di un soggetto sposato. La Corte precisa infine che il giudizio di “paragonabilità” compete al giudice del rinvio e che in ogni caso deve essere compiuto sui diritti e obblighi dei coniugi e delle persone che hanno contratto un’unione civile.