Ancora pochi laureati e poco appetibili per il mercato del lavoro. E’ quanto emerge dal tredicesimo rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati oggi a Roma nella sede della Crui.
Il numero di laureati, evidenzia il Rapporto, ha iniziato a ridursi nel 2008 ed è destinato a contrarsi ulteriormente. Nell’intervallo 2004 – 2009, la quota di laureati nella popolazione di età 30-34 è cresciuta di 3,3 punti percentuali, partendo da un valore inferiore al 16%. Un livello molto lontano, evidenzia Almalaurea, da quello, pari al 40%, che la Commissione Europea ha individuato come obiettivo strategico da raggiungere entro il 2020.
Nonostante i giovani con una preparazione universitaria costituiscano nel nostro Paese una quota modesta, risultano ancora poco appetibili per i mercati del lavoro interno (indagine Excelsior-Unioncamere). Eppure si tratta di giovani formati ai più alti livelli. La recente indagine di Eurobarometro non sembra avvalorare la tesi che il grado di disallineamento delle competenze dei laureati sia un problema più grave in Italia rispetto agli altri paesi europei: secondo l’89% dei responsabili delle risorse umane (e l’85% degli italiani) intervistati i laureati assunti nel corso degli ultimi anni (3-5) possedevano le competenze richieste per svolgere i lavori previsti.
Una soglia educazionale di così ridotto profilo, evidenzia il Consorzio interuniversitario, è probabilmente all’origine della difficoltà a comprendere appieno il ruolo strategico degli investimenti in istruzione superiore e in ricerca per lo sviluppo del paese: sull’uno e sull’altro versante il nostro Paese investe quote di PIL assai inferiori a quanto vi destinano i principali competitors a livello mondiale. La documentazione ufficiale più recente ci dice che, fra i 28 paesi dell’OECD considerati, il finanziamento italiano, pubblico e privato, in istruzione universitaria è più elevato solo di quello della Repubblica Slovacca e dell’Ungheria (l’Italia vi destina lo 0,88% del Pil, contro l’1,07 della Germania, l’1,27 del Regno Unito, l’1,39 della Francia e il 3,11 degli Stati Uniti). Né le cose vanno meglio nel settore strategico della Ricerca e Sviluppo; il nostro Paese, nel 2008 vi ha destinato l’1,23% del PIL, risultando così ultimo fra i paesi europei più avanzati, che infatti indirizzano a questo settore percentuali del proprio PIL prossime o spesso superiori al 2% (Svezia 3,75%, Germania 2,63%, Francia 2,02%, Regno Unito 1,88%).
Si registra, poi, che per ogni ‘cervello’ che entra nel nostro Paese ne esce uno e mezzo. ”La ridotta presenza di studenti esteri nel nostro sistema universitario, così come quella di ricercatori non italiani nei centri di ricerca fa riflettere sul modesto grado di attrattività complessivo del nostro sistema paese, con il risultato del perpetuarsi di un gravoso saldo negativo”, rileva il Rapporto. Ad un anno dalla laurea, poi, ha un lavoro stabile il 48% degli italiani occupati all’estero, 14 punti percentuali in più rispetto al complesso degli specialistici italiani occupati in patria.
Quanto alle pari opportunità sono ancora lontane e anche la laurea non ha lo stesso valore se a prenderla è un uomo o una donna. Il Rapporto ribadisce come le donne, in questo caso tra quelle più istruite, siano ancora penalizzate nel mercato del lavoro. Tra i laureati specialistici biennali, a un anno dalla laurea, rileva il rapporto, il divario è di 6 punti percentuali: lavora il 59% degli uomini e il 53% delle donne. Con il trascorrere del tempo dal conseguimento del titolo, il divario di genere, lungi dal ridursi, tende in generale ad accentuarsi: ciò non solo per quanto riguarda la quota di occupati ma anche in termini retributivi. Analizzando la generazione dei laureati del 2005, dopo cinque anni, la distanza tra uomo e donna supera i 9 punti percentuali (nel complesso lavorano 86 uomini su cento contro 77 donne). Sempre a cinque anni dalla laurea, gli uomini guadagnano più delle loro colleghe: il differenziale, pari al 30%, è dato da 1.519 euro per gli uomini e 1.167 euro per le donne.
Aumenta, inoltre, il lavoro nero anche tra i laureati. I laureati occupati senza contratto, a un anno, raddoppiano tra gli specialistici biennali raggiungendo il 7%; per i laureati di primo livello i ”senza contratto” passano dal 3,8 al 6%; gli specialistici a ciclo unico, che registrano da sempre un valore più elevato, passano dall’8 a quasi all’11%.
Le retribuzioni ad un anno dalla laurea, già modeste (pari ai 1.150 euro per i laureati di primo livello e di poco al di sotto di 1.100 euro per i titoli magistrali), perdono ulteriormente potere d’acquisto rispetto alle indagini precedenti: la contrazione lievita fino al 4% tra i triennali e gli specialistici a ciclo unico, al 5% tra gli specialistici biennali.
Contemporaneamente si dilata la consistenza del lavoro atipico. La stabilità riguarda così il 46% dei laureati occupati di primo livello e il 35% dei laureati magistrali (con una riduzione, in entrambi i casi, di 3 punti percentuali rispetto all’indagine 2009).
Così come aumenta ulteriormente la disoccupazione (seppure in misura inferiore rispetto all’anno passato) fra i laureati triennali: dal 15 al 16% (l’anno precedente l’incremento era stato prossimo ai 4 punti percentuali). La disoccupazione cresce anche fra i laureati specialistici biennali, quelli con un percorso di studi più lungo: dal 16 al 18% (la precedente rilevazione aveva evidenziato una crescita di oltre 5 punti percentuali). Ma cresce anche fra gli specialistici a ciclo unico: dal 14 al 16,5% (rispetto all’aumento di 5 punti percentuali registrato dall’indagine precedente).
Non solo, l’università italiana esercita sempre meno fascino. Nell’ultimo anno, infatti, nelle università pubbliche i neo iscritti sono calati del 5% e del 9,2% negli ultimi quattro anni, confermando una netta tendenza alla diminuzione. Il record – rivela uno studio effettuato dal Centro studi Comunicare del Cun – al Sud che negli ultimi quattro anni ha visto calare le immatricolazioni del 19,6%.