Vendita a prezzo sproporzionato: non si può parlare di donazione
Nel caso di un atto di compravendita, in cui il rapporto tra valore dei beni e prezzo scambiato è estremamente sbilanciato, la Suprema Corte, con la sentenza 9 febbraio 2011, n. 3175 ritiene operante la controversa figura del negotium mixtum cum donatione, ovvero un contratto oneroso accompagnato dalla cosciente pattuizione di un corrispettivo inadeguato alla controprestazione per il quale non é richiesta la forma particolare prevista per le donazioni.
Nel caso di specie veniva qualificato come “vendita” il contratto il cui prezzo, asseritamente quietanzato dal venditore nel rogito stesso, risultava essere inferiore o circa pari ad un settimo del valore complessivo del compendio immobiliare ceduto. Secondo i ricorrenti, la assoluta inadeguatezza del prezzo, nonché il legame familiare e di convivenza dei contraenti, costituivano indici sicuri del fatto che l’elemento di liberalità del contratto era prevalente rispetto a quello oneroso con la conseguenza che la forma del negozio, in correlazione a tale criterio di prevalenza, doveva essere quella della donazione
Secondo l’orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, il “negotium mixtum cum donatione” costituisce una donazione indiretta, attuata attraverso l’utilizzazione della compravendita, al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo, per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo invece sufficiente la forma dello schema negoziale adottato.
L’art. 809 c.c., infatti, nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione.
A tal proposito si osserva che “quanto alla disciplina da applicare al “negotium mixtum cum donatione“, e dunque a sostegno della opzione per il criterio dello schema negoziale adottato rispetto al criterio della prevalenza, che, facendo la norma sulla forma della donazione parte di quelle disposizioni volte a realizzare la tutela del donante (per evitare che lo spirito di liberalità possa trasformarsi per lui in un pregiudizio), essa, a differenza delle norme che assicurano la tutela dei terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità di altro genere; infatti in tal caso troppo radicale sarebbe il sacrificio dell’autonomia privata alla quale si deve ricondurre il potere delle parti di avvalersi delle figure negoziali per perseguire finalità lecite e, come tali, atte a trovare nell’ordinamento il loro riconoscimento”.