Vino “annacquato” nella cantina: frode commerciale anche senza prova di vendita
Confermato l’addebito nei confronti dell’unico responsabile della cantina. Nonostante il prodotto fosse ancora in lavorazione, è da considerare scontata la destinazione alla messa in commercio (Cassazione, sentenza 11827/13).
Il caso
Vino ‘da bambini’, ossia ‘allungato’ con l’acqua. Ma se a prepararlo non è una mamma, ma il titolare di una cantina, si può parlare legittimamente di «tentata frode in commercio». Anche se il vino ‘alterato’ è rimasto fermo in cantina, e quindi non è stato mai messo in vendita. Fatali alcune analisi ‘a campione’ effettuate sui vini conservati in una cantina: i risultati parlano di «vino bianco, da tavola, annata 2006» e, aggiungono, «alterato con aggiunta di zucchero e acqua». Nessun dubbio sulla contestazione nei confronti dell’unico responsabile della cantina ‘incriminata’: «tentata frode in commercio». Accusa assolutamente fondata, chiariscono i giudici, sia di primo che di secondo grado, ricordando che «il tentativo di frode in commercio non richiede l’effettiva messa in vendita del prodotto, essendo sufficiente la destinazione alla vendita». E, come aggiunta, nessun dubbio è possibile sul «dolo», poiché l’uomo finito sul banco degli imputati risulta essere «unico responsabile della cantina e, quindi, certamente consapevole dei trattamenti cui il vino era stato sottoposto». Questa ottica viene confermata, in maniera definitiva, anche in Cassazione, laddove i giudici respingono le opposizioni del rappresentante legale della cantina vinicola, il quale ha sostenuto che «per la configurazione del reato tentato» è necessario «un inizio di contrattazione con un determinato acquirente, non essendo sufficiente la mera detenzione», aggiungendo poi che «il prodotto si trovava in fase di lavorazione, per cui oggettivamente non poteva essere posto in vendita». A fare chiarezza, dando ulteriormente forza a una linea di pensiero già tracciata da precedenti giurisprudenziali, provvedono i giudici, spiegando che per il «tentativo di frode in commercio» è «sufficiente l’accertamento della destinazione alla vendita del prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite». Esattamente ciò che si è appurato in questa vicenda, col vino ‘alterato’ «contenuto nei serbatoi di una cantina» e quindi «destinato alla vendita». Assolutamente cristallino, quindi, l’addebito della «tentata frode nell’esercizio del commercio», e assolutamente logico accreditare come colpevole l’uomo perché «unico responsabile e rappresentante della cantina vinicola» e quindi «assolutamente consapevole del trattamento cui veniva sottoposto il vino contenuto nei serbatoi».
Fonte: www.dirittoegiustizia.it