Violazione dell’obbligo di fedeltà e danno esistenziale Tribunale Rovigo, sez. Adria, ordinanza 11.05.2010
Risarcimento del danno esistenziale a causa del tradimento e sequestro conservativo ante causam… è possibile?
Sembra di no…
Così,
a quanto pare, ha stabilito con l’ordinanza 11 maggio 2010 il giudice
Martinelli del Tribunale di Rovigo decidendo in merito ad una richiesta
di sequestro conservativo da parte dell’ex coniuge per un “danno
esistenziale” derivante, appunto, da violazione dell’obbligo di fedeltà
(già peraltro causa di addebito della separazione giudiziale) .
La vicenda era questa: l’ex coniuge aveva richiesto l’emissione di un sequestro conservativo ante causam nei
confronti della moglie, in quanto asseriva di vantare un diritto di
credito per: a) spese legali (in riferimento ad alcuni giudizi
intercorsi tra le parti), b) danno patrimoniale (in quanto costretto a
trovare in locazione altro alloggio a seguito dell’assegnazione della
casa coniugale alla moglie) e c) danno esistenziale per violazione
dell’obbligo di fedeltà.
Sempre più spesso nelle cause di separazione si discutono gli effetti del tradimento.
Il
discorso del risarcimento danni è diverso; il risarcimento può essere
riconosciuto se l’infedeltà ha causato una compromissione della salute
psichica, ad esempio una grave depressione, al coniuge offeso.
In questo caso si parla di danno biologico; ma esiste ancora un’altra ipotesi, è quella del danno esistenziale che si concreta nella violazione del diritto che ognuno ha ad una vita serena.
Il
tema del risarcimento del danno da illeciti compiuti tra le mura
domestiche, infatti, anima da non molti anni sia dottrina che
giurisprudenza:
Nella sentenza 10 maggio 2005, n. 9801
Nella decisione de qua
venne riconosciuto un diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale al coniuge (superando la teoria dell’autonomia e
indipendenza delle regole giuridiche che governano la famiglia….così si
legge nella sentenza in oggetto…) non associando alla violazione dei
doveri familiari tout court il danno, ma riconoscendo che, qualora tale condotta vada a ledere diritti fondamentali della persona, deve essere assicurata la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria al fine di ottenere la stessa tutela che l’ordinamento riconosce fuori dall’ambito familiare.
Nella sentenza in commento si legge testualmente che “…………Questa
autorità in altra sede ha altresì ritenuto che il monito della Corte
(SU 2008) andasse recepito non solo nello sforzo interpretativo di non duplicare le voci di danno,
ma anche nella reiezione di categorie di pregiudizio prive di precisi
limiti contenutistici e vacui riferimenti normativi. Per tale motivo
non si ritiene sufficiente invocare genericamente la precettività
dell’art. 2 della Costituzione per consentire l’integrazione dell’art. 2059 c.c.
e rispettare la scelta normativa – più volte giustificata dalla Corte
Costituzionale – di mantenere in subiecta materia la riserva di legge.
L’art.
2 della Carta Costituzionale non tipizza i diritti inviolabili della
persona, rimessi alla determinazione della coscienza sociale di cui la
giurisprudenza sarebbe soggetto recipiente, né indica una soglia di
lesione minima, la cui determinazione ancora una volta viene rimessa
alla coscienza sociale, sicché la originaria costruzione dogmatica
richiamata non può ritenersi rispettosa del principio di tipicità né
tanto meno quello della riserva di legge, poiché la norma in bianco
sarebbe, per così dire, riempita nel suo contenuto attraverso
l’applicazione di un’altra disposizione che a sua volta si presenta
come “norma in bianco”, destinata ad essere integrata dalla coscienza
sociale”.
Precedenti giurisprudenziali
Tribunale di Monza 11 marzo 2009, n. 818
La
pronuncia di addebito non consegue automaticamente alla sussistenza di
una o anche più violazioni degli obblighi coniugali, ma richiede
l’ulteriore accertamento dell’esclusivo rapporto causale tra tali
violazioni e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza
coniugale.
La dichiarazione di addebito in capo a un coniuge
non legittima di per sé alcuna forma risarcitoria nei confronti
dell’altro, in quanto la domanda per il risarcimento di danni da
violazione di obblighi coniugali trova fondamento nell’art. 2043 c.c. e non già nell’art. 151 c.c..
In
ogni caso non qualsiasi violazione dei doveri familiari può
giustificare il risarcimento del danno non patrimoniale, e perché tale
danno sia risarcibile non è sufficiente che il fatto che lo ha
cagionato sia ingiusto, ma è necessario che il fatto stesso incida su
un interesse costituzionalmente protetto (Lex 24 & Repertorio 24, Conformi: Tribunale di Monza 1 dicembre 2008, n. 3270, 9 settembre 2008, n. 230).
In
materia di separazione personale, la sola violazione dei doveri
coniugali di cui all’art. 143 c.c. non è condizione sufficiente ai fini
di una pronuncia di addebito, attesa la necessità di accertare in
maniera rigorosa l’esistenza di una situazione di imputabilità a uno dei coniugi di comportamenti coscienti e volontari che rendano intollerabile la prosecuzione della convivenza coniugale, nonché il nesso di causalità tra detti comportamenti e l’insorgere della crisi coniugale (Cass. 28 maggio 2008, n.
Ai
fini dell’addebitabilità della separazione, l’indagine
sull’intollerabilità della convivenza deve essere svolta sulla base
della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi,
non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto
con quella dell’altro, dal momento che solo tale comparazione permette
di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano avuto, nelle loro
reciproche interferenze, agli effetti della determinazione della crisi
del matrimonio (Cass. 5 settembre 2008, n.
Tribunale di Venezia (3 luglio
il marito era stato colto in flagranza di adulterio in auto e, uscito
dalla vettura, aveva aggredito fisicamente la moglie con l’ausilio
della amante, procurandole non solo lesioni (“eritema al collo con
contusione cervicale e riferito dolore al cuoio capelluto da strappo”),
ma anche un pregiudizio psicologico, che aveva richiesto l’intervento
di un psicoterapeuta: la sentenza ha riconosciuto un complessivo danno
patrimoniale e non patrimoniale di € 31.327,00.
Corte d’Appello di Brescia, 5 giugno
2008, p. 899: ha riformato la sentenza di primo grado che aveva
riconosciuto alla moglie il danno non patrimoniale di € 40.000,00
perché il marito non solo aveva violato gli obblighi di fedeltà, ma
aveva avuto una relazione omosessuale, parametrando la ingente somma –
disconosciuta dal Giudice di seconde cure – sulla base della grave
lesione della dignità e della personalità della moglie per aver
consumato la relazione sessuale con un uomo.
Tribunale di Milano 4 giugno 2002
Pronunciata
la separazione personale dei coniugi con addebito a uno di essi, è
ipotizzabile a carico di quest’ultimo una responsabilità risarcitoria
ex art. 2043 c.c.,
in quanto inadempiente ai doveri coniugali, ove venga accertata sia
l’obiettiva gravità della condotta assunta dall’agente in violazione di
uno o più doveri nascenti dal matrimonio, sia la sussistenza di un
danno oggettivo conseguente a carico dell’altro coniuge e la sua
riconducibilità in sede eziologica non già alla crisi coniugale in
quanto tale ma alla condotta trasgressiva, e perciò lesiva dell’agente,
proprio in quanto posta in essere in aperta e grave violazione di uno o
più dei doveri coniugali (Guida al Diritto, 2002, n. 24).
Tribunale di Rovigo
Sezione Adria
Ordinanza 11 maggio 2010
Il Giudice, sciogliendo la riserva assunta in data 4 maggio 2010, nella causa n. 110/2010 R.G.,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
K. ha chiesto l’emissione di un sequestro conservativo ante causam nei confronti dell’ex coniuge X., prospettando un diritto di credito di complessivi € 337.116,76, dei quali €
titolo di danno patrimoniale derivante dalla necessità di trovare un
alloggio in locazione a causa dell’utilizzo esclusivo della resistente
della casa in comproprietà e €
titolo di “danno esistenziale” per violazione dell’obbligo di fedeltà,
circostanza che aveva determinato la fine del rapporto amoroso e
portato all’addebito della separazione giudiziale ad opera del
Tribunale di Rovigo e della Corte di Appello di Venezia.
Lette le difese di parte resistente si ritiene non fondato il ricorso.
Occorre
premettere che la tematica predominante il ricorso e in questa sede
sommariamente affrontata è oggetto di continui mutamenti di indirizzo
giurisprudenziale, di decisioni, per così dire, ondivaghe.
Rimanendo
nei confini che il giudizio cautelare a cognizione sommaria impone, si
può, infatti, evidenziare come i provvedimenti di merito citati dalle
parti (in particolare Tribunale Milano, 4 giugno 2002, Tribunale di
Venezia, 3 luglio 2006) si siano fondati su un assunto giuridico
rigettato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite con le note sentenze
dell’11 novembre 2008 (n. 26972 e ss.): il riconoscimento della
autonoma valenza ed autonomia concettuale del “danno esistenziale”,
qualificato quale peggioramento della qualità della vita della persona
che ha subito un evento lesivo, giuridicamente fondato
sull’integrazione della generale disposizione del neminem ledere (art. 2043 c.c.) da parte dell’art. 2 della Carta Costituzionale.
Orbene,
affermato la bipolarità del sistema risarcitorio, fondato sul binomio
danno patrimoniale-danno non patrimoniale, riportando nell’alveo
dell’art. 2059 c.c. tutte le possibili ipotesi di pregiudizio privo di
immediata valenza patrimoniale. Nel far ciò, ribadendo la tradizionale
qualifica di norma chiusa dell’art. 2059 c.c. – contrariamente a quanto
riconosciuto all’art. 2043 c.c., definita quale norma in bianco il cui
precetto è integrabile dalle disposizioni normative “panordinamentali”
–
di Cassazione ha ricordato come le disposizioni legislative che
riconoscono il risarcimento del danno non patrimoniale siano l’art. 185
c.p., le norme di rango costituzionale e le altre ipotesi di rango
ordinario ove tale riconoscimento sia espressamente contenuto (l’art. 2
della l. n. 117 del 13 aprile
Da
ciò deriva che deve essere assolutamente smentita l’affermazione di
parte ricorrente secondo la quale la violazione delle obbligazioni
derivanti dagli artt. 143 e ss. c.c. possa integrare in sé un’ipotesi
di risarcibilità del prospettato “danno esistenziale”.
Questa
autorità in altra sede ha altresì ritenuto che il monito della Corte
andasse recepito non solo nello sforzo interpretativo di non duplicare
le voci di danno, ma anche nella reiezione di categorie di pregiudizio
prive di precisi limiti contenutistici e vacui riferimenti normativi.
Per tale motivo non si ritiene sufficiente invocare genericamente la
precettività dell’art. 2 della Costituzione per consentire
l’integrazione dell’art. 2059 c.c. e rispettare la scelta normativa –
più volte giustificata dalla Corte Costituzionale – di mantenere in subiecta materia la riserva di legge.
L’art.
2 della Carta Costituzionale non tipizza i diritti inviolabili della
persona, rimessi alla determinazione della coscienza sociale di cui la
giurisprudenza sarebbe soggetto recipiente, né indica una soglia di
lesione minima, la cui determinazione ancora una volta viene rimessa
alla coscienza sociale, sicché la originaria costruzione dogmatica
richiamata non può ritenersi rispettosa del principio di tipicità né
tanto meno quello della riserva di legge, poiché la norma in bianco
sarebbe, per così dire, riempita nel suo contenuto attraverso
l’applicazione di un’altra disposizione che a sua volta si presenta
come “norma in bianco”, destinata ad essere integrata dalla coscienza
sociale.
Sarà, dunque, riservata alla sede di merito la verifica
se la condotta ascritta alla resistente possa dirsi violatrice di altre
disposizioni di rango costituzionale, rilevando come la parte
ricorrente abbia fatto solo un generico riferimento all’art. 29,
disposizione che sembra, tuttavia, riferirsi ad una tutela del nucleo
familiare rispetto a condotte di “terzi”.
Né allo stato si è
prospettata una lesione della dignità o di altro diritto della
personalità determinato e riconosciuto dalla giurisprudenza di
legittimità e costituzionale.
– in linea con quanto testé esplicitato – riconosciuto un diritto al
risarcimento del danno non patrimoniale al coniuge (superando la c.d.
teoria dell’autonomia e indipendenza delle regole giuridiche che
governano la famiglia) non associando alla violazione dei doveri
familiari tout court il danno, bensì riconoscendo che, qualora
tale condotta leda diritti fondamentali della persona, deve essere
assicurata la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria per
ottenere la stessa tutela che l’ordinamento riconosce fuori dall’ambito
familiare (“Il rispetto della dignità e della personalità, nella sua
interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato
di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente
della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità
civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti
inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano
o meno all’interno di un contesto familiare; e dovendo dall’altro lato
escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio – se ed
in quanto posta in essere attraverso condotte che, per la loro
intrinseca gravità, si pongano come fatti di aggressione ai diritti
fondamentali della persona – riceva la propria sanzione, in nome di una
presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di
famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca
del diritto (quali la separazione e il divorzio, l’addebito della
separazione, la sospensione del diritto all’assistenza morale e
materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza
familiare), dovendosi invece predicare una strutturale compatibilità
degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei
diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente
rilevanza di un dato comportamento sia ai fini della separazione o
della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni
di natura patrimoniale, sia (e sempre che ricorrano le sopra dette
caratteristiche di gravità) quale fatto generatore di responsabilità
aquiliana.”).
Quanto premesso consente di evidenziare profili di perplessità in ordine al fumus del riconoscimento del danno non patrimoniale come invocato.
In ogni caso, nell’ipotesi in cui il danno de quo fosse provato, riconosciuto e liquidato, non può il Giudice esimersi anche da una valutazione del prevedibile quantum posto che il periculum in mora del
sequestro conservativo coincide con la prevedibile infruttuosità del
riconoscimento del diritto di credito alla conclusione del giudizio di
merito e, dunque, deve operarsi un giudizio di valore e bilanciamento
tra il riconoscibile danno e le capacità patrimoniali dell’ipotetico
debitore.
Senza alcuna intenzione di indicare in questa sede una
somma di denaro, si evidenzia come il precedente citato da entrambe le
parti (Tribunale di Milano del 4 giugno 2002) si qualifichi per una
condotta ascritta all’autore dell’illecito assai grave, consistita non
solo e non tanto nella violazione dei doveri di fedeltà, quanto in “un
comportamento non certo episodico ed occasionale, ma protrattosi per
mesi ed accompagnato da esplicite affermazioni dell’agente di aperto
disinteresse per le sorti ed i bisogni della moglie e del figlio
nascituro […] in concomitanza con i suoi frequentissimi allontanamenti
da casa […] condotte apertamente e finanche platealmente abbandoniche
nei riguardi del coniuge in condizione di particolare fragilità e
bisognoso di assistenza e sostegno morale ed affettivo per via del suo
stato di gravidanza” e tuttavia sia stata riconosciuta la somma di £ 10.000.000.
In altro precedente del Tribunale di Venezia (3 luglio
il marito era stato colto in flagranza di adulterio in auto e, uscito
dalla vettura, aveva aggredito fisicamente la moglie con l’ausilio
della amante, procurandole non solo lesioni (“eritema al collo con
contusione cervicale e riferito dolore al cuoio capelluto da strappo”),
ma anche un pregiudizio psicologico, che aveva richiesto l’intervento
di un psicoterapeuta: la sentenza ha riconosciuto un complessivo danno
patrimoniale e non patrimoniale di € 31.327,00.
Altro precedente (Corte d’Appello di Brescia, 5 giugno
2008, p. 899) ha riformato la sentenza di primo grado che aveva
riconosciuto alla moglie il danno non patrimoniale di € 40.000,00
perché il marito non solo aveva violato gli obblighi di fedeltà, ma
aveva avuto una relazione omosessuale, parametrando la ingente somma –
disconosciuta dal Giudice di seconde cure – sulla base della grave
lesione della dignità e della personalità della moglie per aver
consumato la relazione sessuale con un uomo.
Infine, nell’ambito
di una valutazione totalmente equitativa non potrà non richiamarsi
l’indicazione orientativa delle c.d. tabelle di liquidazione del danno
non patrimoniale. Nel caso di perdita di un figlio, massima espressione
dello stravolgimento della vita di una persona e di sofferenza, le
tabelle in uso presso questa autorità indicano un compasso da €
Evidenziati
questi profili, deve ulteriormente osservarsi come la voce di danno
indicata a p. 9 del ricorso (titoli in comunione) non sia stata
riportata nella ricostruzione della richiesta risarcitoria di cui a p.
11, sicché non deve essere presa in considerazione. Incidentalmente si
osserva come non vi sia prova dell’eventuale credito del ricorrente, il
quale allo stato è meramente affermato.
Non sussiste neppure un fumus di
fondatezza della domanda di riconoscimento del danno patrimoniale pari
ad € 120.682,28, derivante dalla necessità di locare un appartamento a
causa dell’utilizzo da parte della moglie della casa coniugale. Non
solo, infatti, manca qualsivoglia prova del fatto che K. abbia
effettivamente sostenuto tale costo, ovvero di un danno, ma la condotta
neppure può esser sussunta nella fattispecie illecita, poiché
l’utilizzo della casa coniugale è legalmente giustificata da
provvedimenti giudiziali susseguitisi dopo la cessazione della
convivenza (ordinanza presidenziale del 2002, doc. 4 del fascicolo di
parte resistente; sentenza di separazione, doc. 1 del fascicolo di
parte resistente;)
Resta, dunque, un credito derivante dalle spese liquidate in sede giudiziaria pari ad € 16.434,48.
Rapportato al credito indicato e al presumibile ed eventuale danno non patrimoniale, deve essere negato qualsivoglia profilo di periculum in mora.
In
primo luogo è documentalmente provato un credito di X. per l’importo €
2.246,62, per spese di consulenza tecnica d’ufficio anticipate durante
il giudizio di primo grado di separazione (doc. 6 del fascicolo di
parte resistente), secondo quanto previsto dalla sentenza della Corte
di Appello di Venezia (doc. 3 del fascicolo di parte ricorrente) e, a
livello di cognizione sommaria, un ulteriore credito di € 4.301,66 per
importi di spese sanitarie non coperte dal servizio sanitario (come
previsto al p. 4 del dispositivo della sentenza di separazione), per le
quali non si legge nella sentenza fosse necessario il preventivo
assenso dell’altro coniuge (sulla necessità, straordinarietà dei lavori
eseguiti dalla resistente sull’immobile in comproprietà non si ritiene
di poter prendere posizione, difettando allo stato la prova del diritto
di credito, del reale importo e della causale).
In secondo luogo
vi è un’iscrizione ipotecaria a favore del ricorrente per l’importo
vantato a titolo di spese legali (doc. 7 del fascicolo di parte
ricorrente) che garantisce il diritto di credito.
In terzo luogo
vi è una comprovata e non contestata capienza patrimoniale della
resistente evincibile dalla dichiarazione dei redditi della resistente
ove dal quadro RB (cfr. doc. 9 del fascicolo di parte resistente) si
evince la titolarità (rectius contitolarità) di un immobile adibito ad abitazione, di uno studio, di altri quattro immobili e di un garage;
a ciò aggiungasi la documentata capacità reddituale (pari ad una media
di € 105.000,00 annui negli ultimi tre) e la con titolarità di
ulteriori quattro beni immobili acquisita recentemente per successione
della madre (doc. 10 del fascicolo di parte resistente).
Infine,
deve evidenziarsi come non vi sia alcun elemento istruttorio dal quale
evincere una volontà della resistente di sottrarsi al pagamento dei
propri debiti: non è stato alienato alcun bene, né compiuto un atto
prodromico o di altra natura idoneo a diminuire la garanzia
patrimoniale (cfr. Cass., 13 febbraio 2002, n. 2081: “la motivazione
del provvedimento di convalida del sequestro conservativo può far
riferimento a precisi, concreti fattori tanto oggettivi che soggettivi,
poiché il requisito del “periculum in mora” può essere desunto sia da
elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore
in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi,
rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci
fondatamente presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga
in essere atti dispositivi, idonei a provocare l’eventuale
depauperamento del suo patrimonio”).
In conclusione
il ricorso cautelare deve essere rigettato con condanna al pagamento
delle spese processuali parametrate al valore della domanda.
P.Q.M.
A) RESPINGE il ricorso per sequestro ante causam;
B)
CONDANNA K. alla rifusione delle spese processuali sostenute da X.,
quantificate in € 1.570,00 per diritti, € 3.250,00 per onorari, oltre
spese generali al 12,5%, IVA e CPA come per legge.
Si comunichi alle parti.
Adria, 11 maggio 2010
IL GIUDICE
Dott. Mauro Martinelli