Violenza in famiglia: non scrimina la condizione culturale e sociale
Un uomo pugliese, condannato per i reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate, ricorre ai giudici di piazza Cavour asserendo che gli episodi non rappresentavano altro che l’espressione della propria condizione sociale e culturale.
Per escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo, la difesa fa leva sulla condizione della moglie dell’imputato, definendola quale “oggetto di esclusiva proprietà” dello stesso, nonché sulla figlia, nei confronti della quale l’imputato aveva perduto il controllo dopo aver preso coscienza dello stile di vita che teneva. La difesa espone inoltre che le condizioni psicologiche dell’uomo erano legate all’ambiente di subcultura nel quale viveva e che lo avevano determinato a tenere tali comportamenti in famiglia.
I giudici di merito avevano accertato, nei due giudizi precedenti, che l’imputato aveva posto in essere le condotte offensive e violente, ai danni della moglie, fin dall’indomani delle nozze e le aveva protratte per oltre trenta anni.
Sulla base delle argomentazioni esposte dal ricorrente, la sesta sezione penale della Cassazione, nel confermare la sentenza impugnata, evidenzia che le pretese tipiche del “padre e marito, padrone” non rilevano per l’accertamento dell’imputabilità, né ai fini dell’indagine sull’elemento soggettivo del reato.
La Corte afferma che gli atteggiamenti oggetto della condanna rappresentavano “il costume abituale di un anacronistico pater familias maschilista e intollerante”, resistente al cambiamento del costume e noncurante della vigenza del principio costituzionale di uguaglianza tra i coniugi. Su tali premesse la Corte ritiene che la spiegata cultura non può rappresentare una scriminante o una circostanza attenuante, bensì è da ritenere quale elemento valutabile ai fini dell’intensità del dolo e dell’entità del danno sofferto dalla famiglia.